Magari bastasse (la raccolta di firme)

Warning: post cinico.

Dopo l'ennesimo omicidio “passionale” (una povera crista strangolata e buttata giù da un cavalcavia da un fidanzato cui non era piaciuto come le aveva risposto, o che gonna si era messa, o come aveva cucinato la parmigiana di melanzane, insomma uno dei tanti motivi assurdi e idioti per i quali gli uomini ammazzano le donne) ecco che parte l'ennesima iniziativa delle donne per le donne. Una raccolta di firme.

Riuscite ad immaginare una cosa più inutile di una raccolta di firme, se raffrontata al problema che intende affrontare? Come ha giustamente rilevato – unico finora fra i miei contatti – anche Matteo Bordone, perchè non facciamo una raccolta di firme

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contro la guerra, o la morte, o il cancro, giacchè ci siamo? A che diavolo potrà mai portare una raccolta di firme? Ad una legge in materia? le leggi esistono già, a volerle applicare: c'è un bellissimo articolo del codice penale che parla di omicidio; c'è una bella legge nuova nuova che punisce lo stalking (cioè gli atteggiamenti vessatori e persecutori che di solito precedono l'omicidio); non c'è più, per fortuna, l'attenuante del “delitto d'onore”. Cosa volete, di più? inasprimento delle pene? e magari quelle che firmano sono le stesse che sono contrarie alla pena di morte e alla detenzione preventiva.

Potremo portare il cosidetto omicidio “passionale” al massimo della pena: non ci faremo niente. La violenza sulle donne è un fatto di cultura, di humus, di sensibilità, di tessuto sociale nel quale, purtroppo, abbiamo fatto tanti passi indietro, e non sarà certo una raccolta di firme a ripristinare una cultura di rispetto e attenzione nei confronti di mogli, fidanzate, mamme, figlie, conviventi e concubine; oppure è un fatto di psicopatia individuale, su cui la raccolta di firme incide come può incidere una intervista a Scilipoti sulle politiche della NASA.

Ditemi che la raccolta di firme servirà a raccogliere fondi per attuare campagne informative ed educative per 30 anni nelle scuole elementari, e poi, a cascata, nelle scuole di ogni ordine e grado; per aumentare il numero di case rifugio per donne maltrattate; ditemi che servirà a cancellare dalle trasmissioni televisive le veline, le letterine, le stronzine, le professoresse, le vallette e tutte le donne mute o parlanti a comando però accuratamente discinte che possiamo vedere ogni due per tre, a qualunque ora, in tv; ditemi che servirà a cancellare i culi e le tette e gli inutilissimi atteggiamenti ammiccanti da spot pubblicitari, pagine di giornali, cartelloni 6×8. Ditemi tutto questo e forse – forse – vi dirò che la raccolta firme può servire a qualcosa.

Del resto, possiamo lamentarci? la cultura media italiana del 2012 porta violenza omicida sulle donne, ma ci porta anche donne giovanissime e belle che dichiarano con assoluta convinzione che è vincente chi utilizza il proprio corpo, che è vincente strusciarsi e fare moine con uomini di potere ultrasettantenni per poter avere i soldi per una borsa di Braccialini, l'affitto di costosissime case in centro, particine in infimi programmi televisivi; e quando qualcosa si rompe, nel meccanismo, è vincente che le stesse gattine sbrodolanti si trasformino in avvoltoi famelici, pronti a ricattare, vendere notizie ai giornali, sputtanarsi tutto lo sputtanabile per poter continuare la bella vita dorata di cui sopra.

Credete davvero che le due cose siano così separate? E credete davvero che basti “una raccolta di firme” per cambiare magicamente tutto questo? Io non ci credo. E' un lavoro lunghissimo e durissimo, un invertire un cammino che io personalmente vedo abbastanza irreversibile, e quindi ok, siamo contente delle tante firme che la petizione ha raccolto, ma mi sembra veramente fuori luogo esaltarsi come se si fosse vinta chissà che battaglia.

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Bollettino locale

Post di servizio per i miei concittadini.

  1. il supermercato Cafarelli ha la marmellata senza zucchero Rigoni di Asiago a 2,90 euro(*) contro i 3,95 di Iperfutura (per il quale sarebbe addirittura in offerta, a 3,95, specifico). Eh minchia, 1 euro e spiccioli di differenza su un totale di circa 4 euro a casa mia significa una differenza del 25%, mica cotica. Non vi fate fregare.
  2. le giostre a via Verrastro se ne sono andate. Lungi da me voler essere razzista, ma pare che durante i mesi di permanenza dei giostrai aumenti l'incidenza di furti negli appartamenti. E non lo dico io: lo dice la Polizia, intervenuta dopo che ben due appartamenti contigui al mio sono stati ripuliti con cura. Si può non credere alla Polizia, o gli si può porre la domanda: ma se lo sapete, o pensate di saperlo, perchè non andate a perquisire proprio lì? non troverete nulla, ma forse serve da deterrente. La Polizia non risponderà, sapevatelo.
  3. breve historia dell'asfalto potentino. Dimenticato dall'Amministrazione Comunale per motivi di cronica mancanza di fondi, spaccato dall'infido ghiaccio invernale, crepato dal sale, dalla pioggia, dagli spartineve (dall'incuria con cui è stato fatto, a suo tempo? Bah. Maldicenze), si vendica aprendosi come un cocco sotto le ruote degli automobilisti. Molti tratti di strade urbane sono ormai ridotti a tratturi di Kabul, e dove il manto stradale non è piagato come la pelle dei lebbrosi, si sono staccate toppe intere di asfalto – soprattutto intorno ai tombini – che hanno aperto buche, bucone, voragini, fra le quali spicca quella all'incrocio fra Via Anzio e Via Verrastro, una buca altrimenti detta “la porta dell'inferno” perchè è una buca antica, più volte riparata, ma sembra che per quanta roba gli si butti dentro, non sia mai sufficiente. Come nei racconti di Stephen King, è una occorrenza apparentemente anonima e inanimata (come Christine, la macchina infernale, o come la stiratrice a vapore di un altro racconto di King)  ma in realtà con una sua precisa insaziabile volontà demoniaca e malvagia, che è quella di inghiottire ruote e far spaccare semiassi e sospensioni. O forse intere automobili con i loro occupanti, bhwahahahahaha (risata satanica).
  4. E veniamo alle notizie sull'ambiente. Circola sul web e fra i blogger potentini una petizione per una raccolta di firme sotto ad un progetto di riqualificazione di un'area a ridosso della città, nella quale c'è stata, fino ad una quindicina di anni fa, un allevamento intensivo pubblico di maiali per la macellazione. Quando ero piccola, abitavo nell'area sud della città e mi ricordo benissimo che se girava il vento arrivavano 'ste zaffate di orrenda vomitevole puzza di liquami suini, e mia madre diceva “Eh, sarà la CIP-Zoo” (che si chiamava così, infatti). Ma non divaghiamo. Il progetto di riqualificazione è bellissimo, crea un'area verde di servizio, con boschetti, aree gioco, campi sportivi, un laghetto, una pista da jogging. E' talmente bello, il progetto, che sono sicura che non lo vedrò mai, campassi 102 anni come la Montalcini. Ad onor di cronaca, c'è da dire che il nostro wikiSindaco ha dichiarato su Twitter che il progetto piace molto all'Amministrazione Comunale, e che hanno stanziato già una certa cifra non banale per cominciare. Se siete interessati anche voi, potete firmare qui.
  5. proseguono i lavori di riqualificazione d' la Chiazza, la piazza per antonomasia, Piazza Mario Pagano o, come dicevan tutti, Piazza Prefettura (a Potenza quasi tutte le piazze del centro hanno due nomi, quello ufficiale e quello popolare, che non ne vuole sapere delle ordinanze amministrative e della toponomastica ufficiale). A differenza di moltissimi, che si sono scagliati contro il progetto di riqualificazione, io non sono nè favorevole nè contraria: semplicemente, aspetto di vedere come viene, prima di dare un giudizio.

%%anc%%

(*) update: 2,98, non 2,90 euro. Sempre di 97 cent parliamo, la percentale non cambia granchè

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L'obiettivo degli obiettivi (friday blues)

Ecco, alla fine la meta più ambita, l'obiettivo degli obiettivi dovrebbe essere questo: che possano diventare così interessanti (intelligenti/acute/divertenti/competenti) le cose che uno dice o scrive, che nessuno faccia più caso al contenitore dal quale escono. L'azzeramento della vanità formale ed estetica a favore dell'innalzamento a mille della vanità contenutistica. Chi faceva caso al fatto che Alda Merini fosse vecchia e sfatta? O al fatto che la faccia di Miriam Mafai fosse un concentrato di rughe e avesse la bocca un po' storta? Tutti avrebbero giurato che erano bellissime, perchè folgorati dalle cose che queste donne meravigliose – due fra tante, tra quelle che adoro – dicevano, o scrivevano. Sarei tentata di aggiungere alla lista anche quella culona di Angela Merkel, ma lì l'azzeramento dell'importanza dell'estetica ha a che fare con l'esercizio del potere, che è una cosa diversa, e non c'entra con quello di cui sto parlando io.
%%anc%%

Che sarebbe poi l'esatto contrario dell'obiettivo della Ruby o della Minetti di turno, nelle quali l'estetica del contenitore è (deve essere) così abbagliante che nessuno fa più caso alle stronzate che escono da quelle boccucce (rifatte).

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Law and order

Manifestazione dei forestali davanti agli Uffici nei quali mi onoro di prestare la mia opera professionale. Ne sono attesi almeno 3.000, già dalla mattina hano sgombrato un piazzale per i pullman, bloccato le strade, fatto affluire forze dell'ordine variamente colorate. Pare sia necessario per legge, anche se a me sinceramente i manifestanti non fanno granchè paura, non sono quasi mai arrabbiati, piuttosto sono rassegnati, attuano politiche di pressione passiva, non attiva, insomma a me non pare quasi mai necessario tutto 'sto spiegamento di forze. Ma tant'è.

Gli Uffici sono sparsi in più palazzine, e quindi per accedere all'interno del sacro recinto ci sono almeno 5 accessi, fra automobilistici e pedonali. Per regolamento, in presenza di manifestazioni ad un certo punto tutto viene sbarrato. Per non consentire al forestale eventualmente esagitato di entrare e minacciare il Presidente con una roncola. Ora immaginate il contesto: forze dell'ordine sparse ovunque, dentro e fuori, con mezzi blindati neri, azzurri, grigi, a strisce; un ufficio pubblico funzionante a pieno regime, con i suoi 5.000 e passa impiegati e i loro mezzi di locomozione che devono entrare e uscire.

E su tutto, un ferale imprudente “ordine della Questura” che impone ai vigilantes di “non aprire a nessuno”.
Per molte delle menti diversamente brillanti che accolgono l'ordine, “Non aprire” vuol dire non aprire. Nè per entrare, nè per uscire. “A nessuno” vuol dire a nessuno. Neppure alle forze dell'ordine. Neppure ai colleghi che devono entrare al lavoro, o uscire per tornare a casa.

Ho modo quindi di assistere personalmente alla seguente scena.

La sottoscritta percorre la solita rampa per uscire, chiusa in fondo con un robusto cancello. Casualmente, intorno a lei, incamminati nella stessa direzione, ci sono 5 Carabinieri in assetto antisommossa: giubbotti antiproiettile, armi, stivali, caschi.
Glom.
Chiedo con un filo di voce (le divise mi mettono sempre soggezione, mi sento istantaneamente colpevole quando le ho intorno) se mi apriranno il cancello per uscire. Quello che sembra il capo con voce profonda e accento del sud della Puglia mi dice di non preoccuparmi, di andare con loro. Sicuro, autorevole. Antisommossa. Abituato a trattare coi blackbloc.

Mentre ci avviciniamo al cancello, dall'altro lato, in entrata, si ferma una macchina della Polizia.
Non gli viene aperto.
I poliziotti scendono e si avvicinano dubbiose al cancello, scoprendo che c'è un videocitofono. Bussano.

La foto del momento quindi è: 5 carabininieri agguerriti da una parte (e io), 4 poliziotti dall'altra. In mezzo, un robusto cancello di metallo. Chiuso. Il poliziotto al citofono, quando dall'interno del Palazzo gli viene risposto, scandisce “DIGOS”, sicuro che basti. E dall'altra parte, incredibilmente, giunge la risposta:

“Mi spiace, non posso aprire a nessuno” e chiudono la comunicazione.

A me viene istantaneamente da ridere: 9 marcantoni in divisa, messi lì apposta per tutelare la nostra sicurezza, e quelli che sono dentro non possono uscire, e quelli che sono fuori non possono entrare. Vengo fulminata con lo sguardo dal capo degli antisommossa, mentre tutti gli altri si guardano le scarpe, o si tolgono inesistenti pelucchi dalla divisa. La “Digos” fa un altro tentativo, e stavolta non rispondono neppure. Per toglierli dall'imbarazzo, dico loro che non importa, conosco un altro varco, che forse è presidiato da un umano, e me ne vado lasciandoli lì a guardarsi attraverso il cancello. Non so come sia finita.

Nel pomeriggio apprendo che c'è stato più di un surreale dialogo attraverso il videocitofono come il seguente:

“Driin”
“Ciao, Maria”
“Ciao, Pietro. Mi apri?”
“Mi spiace, non posso far entrare nessuno. Ordini della Questura”
“Pietro, mai ti sei rincoglionito? Sono Maria, ci vediamo tutti i giorni, lavoro nella stanza affianco alla tua guardiola!”
“Non posso. Ordini della Questura”

(e così via, fino a che la Maria di turno non si incazza, fa il giro da un'altra parte, dove trova un vigilante un po' più sveglio, entra e piomba su Pietro facendogli cadere i capelli a forza di urla).

E' bello, sapere che queste ferree razionali organizzazioni e questi eroi garantiscono la nostra sicurezza.

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La voliera infernale

Lavoro molte – forse troppe – ore al giorno in una stanza che dà su un corridoio sul quale danno molte altre stanze. Insomma, ho stanze di colleghi a portata di voce. E di orecchio, purtroppo, aggiungerei (il senso di questa desolata aggiunta sarà chiaro fra qualche rigo). Ciascuna di questa stanze è dotata di uno, talvolta due, talvolta addirittura tre telefoni fissi, da scrivania. Le scarse risorse a disposizione nell'Ente pubblico proprietario di stanze, scrivanie e telefoni ha fatto sì che nel tempo fiorissero sulle suddette scrivanie modelli e tipologie di telefoni fra i più disparati: si va dal vecchio Sirio Sip bianco e azzurro a cordless rosa con le farfalline a cordless normali a telefoni da ufficio grigi dati in dotazione da Telecom nel 1995 e mai più sostituiti di cui restano pochi sparuti esemplari per lo più nelle stanze dei dirigenti, a mostri ipertecnologici pieni di bottoncini che servono a molte cose tranne che a chiamare qualcuno.

Tutti essi telefoni sono però accomunati da una caratteristica: si può cambiare la suoneria.

Vorrei rifletteste per un attimo sull'abisso di perversione che si può aprire nella mente di un impiegato pubblico a cui è data libertà di scegliersi la suoneria del telefono. Abbiamo trilli, trilli acuti, trilli a singhiozzo, trilli bitonali, musichette semplici, musichette complesse, colonne sonore di film, arie d'opera. E il tutto sarebbe ancora passabilmente sopportabile se non venisse accoppiato ad un'altra perversione, di cui sono preda gli utenti, i cosiddetti cittadini, e in misura minore gli stessi impiegati pubblici di cui sopra, quando devono chiamare un collega: la cosiddetta “sindrome della perseveranza”, nota anche come la sindrome del “se lo chiamo abbastanza a lungo, prima o poi risponderà” o anche del  “potrebbe essere nelle vicinanze, meglio insistere“, e che si declina nel seguente modo:

  1. sono un cittadino, chiamo al telefono un impiegato pubblico
  2. non risponde al primo squillo, e nemmeno al secondo
  3. faccio squillare: tre, quattro, sette, dieci, duecento volte, o fino a che non cade la linea
  4. non risponde, riattacco
  5. richiamo dopo dieci minuti
  6. ripeto dal punto 2.

MA CHE MINCHIA FAI SQUILLARE??????  ma ci sei stato centordici volte, in questi uffici! LO SAI che fra il braccio dell'impiegato e la cornetta del telefono ci sono 20 centimetri, per cui se E' SEDUTO AL SUO POSTO, ti risponde in due secondi!! E SE NON RISPONDE, NON E' SEDUTO AL SUO POSTO!! e non c'è squillo prolungato (immaginate lo stia dicendo con singhiozzo disperato da consumata Eleonora Duse)  che possa farlo tornare al suo posto.

Ci sono quindi orrendi momenti caldi della giornata nei quali torme di utenti chiamano colleghi, che per motivi fra i più vari sono impossibilitati a rispondere. Gli utenti, preda della sindrome di cui sopra, fanno squillare, squillare, squillare. E quindi suonerie polifoniche galline sgozzate ouverture del Guglielmo Tell monotone bitonali o tritonali si mischiano fra loro dietro porte aperte o chiuse, magari a chiave, in modo che non si possa manco andare lì e staccare tutto a morsi.

Se a tutto questo aggiungete i cellulari talvolta lasciati sulle scrivanie, alle galline sgozzate di cui sopra aggiungete Nokia tune, pezzi di disco dance anni '80, canzoni di Sanremo, sigle di cartoni animati e di trasmissioni televisive e radiofoniche, e avrete un quadro chiaro della infernale voliera in cui si prova talvolta a produrre qualcosa di buono per la collettività.

Se sembro esaurita, lo sono.
Colonna sonora offerta da Blondie (che uno dei colleghi ha sul telefonino, che ve lo dico a fare)

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Libri che ho letto / Il bambino indaco

Strombazzato in rete – soprattutto dal bot Einaudi su Twitter, c'è da dire, ma anche giustamente, visto che lo editano loro – ne avevo intuito il tema e l'ho comprato, incuriosita. Avrei preliminarmente qualcosa da dire sul fatto che costa 16 euro – corrispondenti su per giù alle vecchie 30.000 lire – una cifretta di tutto rispetto per un libro di 130 pagine e che quindi un lettore più o meno compulsivo come me ha finito in 3 ore scarse. Mi rendo conto che non ci può essere corrispondenza fra peso e prezzo, se no Il Signore degli Anelli dovrebbe costare 350 euro, però allora vorrei almeno se non il capolavoro che ti cambia la vita, almeno il libro che ti costringe a pensarci un po' su.
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#einvece, come scriverebbe Margherita Dolcevita.

In realtà, riflettendoci meglio, ho sentimenti ambivalenti nei confronti di questo libro, per motivi molto personali che vado a spiegare.

Il primo sentimento è una certa qual delusione. Il tema è incandescente, e proprio per questo passibile di moltissimi angosciosi approfondimenti. La depressione post parto (in questo caso addirittura pre parto) o comunque la difficoltà drammatica ad affrontare con serenità una prova complessa e molto meno facile di quello che si immagina, come la maternità; la strada perversa che prende, concentrandosi su un altro tema delicatissimo, ovvero la nutrizione, l'alimentazione, il rapporto con il cibo; l'epilogo finale, drammatico e catartico, che lascia però milioni di domande irrisolte. Ecco, tutta questa ribollente materia è trattata in 130 pagine, e se non sei Italo Calvino l'impressione che resta alla fine è quella fretta e della superficialità. Non c'è nessun tentativo di approfondimento, di entrare nella testa di Isabel, di scandagliarne le sensazioni, di descrivere ciò che sente. E questo vale anche per i personaggi minori: la mamma di Carlo, alla fine risolutiva, come prende la decisione? perchè? è amore? è rabbia? è paura? cosa succede dentro di lei per spingerla a recuperare una pistola dal fondo di una cassaforte? non lo sappiamo, possiamo solo immaginarlo.

Ma io ad uno scrittore chiedo di immaginare per me, e di raccontarmelo. Se devo immaginare io, mi leggo un articolo in cronaca su un quotidiano, ed è la stessa cosa. Nell'ultima pagima prima dell'indice leggo la consueta didascalia che avverte che si tratta di fatti e personaggi immaginari . Ecco, posso dirlo? si vede. Si vede che è una cosa raccontata da uno che non ci è passato veramente, è solo una idea bellissima per un romanzo che però per diventare capolavoro richiedeva ben altra potenza espressiva, e ben altra capacità di scendere negli abissi dell'animo umano e mettere le mani nella merda, senza paura, e buttarcela in faccia.

Il secondo sentimento, ad una più approfondita riflessione, è invece di parziale soddisfazione, e diciamo così, speranza.

Ho vissuto una orribile esperienza, della quale ho provato a scrivere. Una storia anch'essa a suo modo incandescente, che è capitata proprio a me, e se è vero che si racconta ciò che si conosce bene, dovrebbe essere facile metterla su carta. Quelli a cui ho fatto leggere qualcosa mi hanno però detto tutti che è coinvolgente e ferisce come una rasoiata nella schiena, ma che ho condensato troppo, che di un anno e mezzo di strazio ho tirato fuori troppo poco, che la materia “è piombo fuso, e andrebbe diluita”. Io però (ci ho provato) non credo di esserne capace, e quindi ho lasciato perdere. In particolare non sono stata capace di inventare dialoghi, o un finale diverso da quello reale, che è irrisolto e banalotto.

Ora mi viene da domandarmi: se una cosa parimenti – a mio parere – poco approfondita, però, ricava questo enorme successo, allora, forse, potrei anche io NON pormi il problema della superficialità, della stringatezza, del non riuscire a diluire la materia nè a penetrare più in profondità?

Marco Franzoso, Il bambino indaco
Einaudi Editore, 130 pag, 16,00 euro

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Sì sì brava Susanna

B. ha circa 30 anni.
best casino games onlineLavora da alcuni anni per lo stesso datore di lavoro. Prima era una cocopro, pagata una cifra miseranda ma tu sei giovane senza esperienze devi imparare e cazzi e mazzi vari. Poi è finito pure il cocopro, e si è passati ad una forma di esperienza virtuale di lavoro pagato su fondi comunitari, quindi senza versamenti contributivi nè possibilità di accedere a qualsivoglia forma di ammortizzatore sociale quando – presumibilmente a breve – anche questa gratificante esperienza lavorativa avrà termine.
B. è fidanzata e vorrebbe sposarsi. Sì, vabbè.

E' solo un esempio. Ma ne potrei fare a decine, di altri esempi similari.

Ma di che cazzo parla la Camusso quando si siede ai tavoli di contrattazione con il governo? ma si rende che esiste una intera generazione alla quale dell'art. 18 non gliene strafotte una emerita mazza, perchè la sua applicazione presuppone che si abbia un contratto che migliaia di trentenni – e quarantenni – non ha mai visto in vita sua? chi può usufruire dell'art. 18 è gente che se l'azienda è in difficoltà ha diritto alla cassa integrazione ordinaria, poi a quella in deroga, se l'azienda chiude ha diritto ad una indennità di mobilità

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ordinaria, poi in deroga, finora prorogati per due anni e chissà prorogabili fino a quando. Un'indennità che può arrivare fino a 800 euro mensili, che per lavorare sono pochi, ma per non fare niente sono tanti. Anzi, fare niente no, perchè nel frattempo si può lavorare in nero e andare avanti se non comodamente sicuramente dignitosamente (a spese dello Stato).

Di che parlano, i sindacati? quali interessi difendono? quelli di chi può rinnovare la tessera di iscrizione al sindacato per pagare lo stipendio, che presumo non misero, di Susanna Camusso? ma annatevene a pijarlo drentro al cu', come direbbe un mio amico.

P.S. il datore di lavoro di cui sopra è emanazione dell'associazionismo di sinistra, quella che un tempo si chiamava Partito Comunista e aveva fra i suoi compiti precipui la difesa dei lavoratori.
Figuriamoci il resto.

Consoliamoci con la musica. Colonna sonora di oggi gentilmente offerta da Our Lady Etta James.

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Io, Bari e il navigatore satellitare

Vado a Bari per lavoro.
Con la mia macchina, perchè per andarci con i mezzi pubblici dovrei partire tipo la settimana precedente e passare da Roma, per arrivare.
Per una serie di motivi che sarebbe lungo spiegare, mentre conosco molto bene Napoli e a abbastanza bene la Campania, sulla Puglia sono piuttosto impreparata. A Bari, poi, praticamente non ci sono mai stata, e se ci sono stata di sicuro non guidavo io. So qual è la strada per arrivarci, ma poi buio.
Decido di procurarmi un navigatore satellitare.
Il primo problema è fare in modo che la ventosa per attaccarlo sul cruscotto regga. Infatti non regge. Dopo tre o quattro clamorosi crolli nel bel mezzo di incroci uncinati o curve a gomito (nella mia città, eh), decido di rinunciare e lo appoggio nel portaoggetti. Così per vedere dove devo andare sono costretta a guardare in basso, aggiungendo al brivido dell'ignoto quello dell'imprevisto (quale ostacolo mi si parerà davanti quando rialzerò la testa?).

Siccome lo strumento per me è nuovo, decido di fare un po' di prove su strade che conosco. Purtroppo capita che “le strade che conosco” spesso siano strade alternative, che un navigatore satellitare non sceglierebbe mai, come è possibile arguire dal seguente dialogo (sì, ho parlato col navigatore, sappiatelo)

“Fra 200 metri, svoltare-a-destra”
“Eh no, mi spiace, lì c'è casino, a casa non ci arrivo più se passo davanti alle scuole a quest'ora”
“Ricalcolo. Ricalcolo. Fra 150 metri, svoltare-a-sinistra”
“Ma sei di coccio! Devo salire su per la montagna!”
“Ricalcolo. Fra 35 metri, inversione a U”
“…”
“Ricalcolo. Ricalcolo. Inversione a U”
“Vabbè ma scusa che cazzo di navigatore sei che non sai manco indicarmi le strade diverse da quella principale?”
“E tu se la sai già, 'sta strada che passa in mezzo ai vigneti, che minchia vuoi da me?” (questo non l'ha detto, il navigatore, ma avrebbe potuto, però)

Con queste poco rassicuranti premesse, parto, il giorno stabilito. Per i primi 100 km lo tengo staccato, il navigatore, anche perchè ho bisogno del buco accendisigari per ricaricare il cellulare. Quando decido di riaccenderlo, sono su una fettuccia di strada dritta come un fuso, che da Altamura arriva a Bari, ipertrafficata, sulla quale gli “insediamenti abitativi” e commerciali tentano seriamente di impadronirsi della sede stradale, col risultato che la carreggiata è ridotta allo stretto indispensabile per due risicate corsie di marcia. E' quindi possibile che quando mi fermo in una minuscola piazzola per impostare la destinazione, io sia un po' nervosa e faccia un po' di confusione. Con mio serio stupore, per circa 50 chilometri la signorina satellitare mi sfrangia i maroni con duemila:
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“Ricalcolo. Fra 150 metri, inversione a U”

ingaggiando una fiera battaglia di logica con il resto dei miei sensi (la vista, soprattutto, che vede cartelli grossi come una casa che indicano BARI nella stessa direzione in cui sto andando io; la memoria, che mi fa riconoscere paesi che stanno sulla strada per Bari, non ci sono santi). Ma la surrealtà si tocca quando arriviamo in città. Decido a quel punto di fidarmi della signorina e seguo le sue indicazioi. “Seguo” si fa per dire, perchè un po' perchè lo strumento mi è nuovo, un po' per la questione di dover guardare in basso e contemporaneamente non andare a sbattere da qualche parte, non sempre imbrocco la strada che lei mi indica, e ogni volta che sento “Ricalcolo. Fra 150 metri, prendere la rampa a destra” smadonno come un camionista – se lo fossi, peraltro, forse conoscerei la strada – e mi rassegno a rifare un giro fra rampe, rotonde, semafori.

Dopo circa un'ora di peregrinazioni fra vicoli strade rotonde zone industriali complanari bivi e inversioni a U la signorina mi dice, trionfante:

Proseguire

per 32 km.“

32 chilometri? ma quanto cazzo è grande 'sta zona industriale di Bari? Mi ci vuole qualche secondo per capire che il bastardo con voce di donna, fin da due ore prima, quando l'ho acceso, sta cercando di farmi tornare a casa. Resistendo all'impulso di fracassare il navigatore sotto le ruote del primo TIR che passa, mi fermo in una stazione di servizio, reimposto correttamente – spero – la destinazione parlando da sola (colgo sguardi preoccupati del giovane benzinaio), e dopo 10 minuti sono arrivata. Al ritorno, dopo 10 minuti sono sulla strada giusta per il rientro. Dopo aver imparato quanto segue:

  • se il navigatore ti dice di entrare in una rotonda, e prendere “la quarta traversa a destra“, significa fare una inversione a U e tornare da dove sei venuto, perchè raramente le rotonde hanno più di tre traverse;
  • se il navigatore dice “prendere la rampa a destra” non aggiunge “ORA!!!” solo per eccesso di fiducia nei vostri confronti, ma vuole veramente dire di prendere la prima rampa a destra, per quanto inverosimile vi possa sembrare (del resto, sono una donna, e bionda, per di più, che ci si può aspettare, da me?);
  • Bari ha il peggiore sistema di cartellonistica stradale dell'universo;
  • lo sforzo titanico di seguire navigatore, strada, meta, svolta di qua, sali di là, mi ha impedito di realizzare che ho girato per due ore circa in una delle zone peggiori della città, con evidente sprezzo del pericolo. Potevate anche non dirmelo, eh, ero contenta lo stesso.
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#freeRossellaUrru (ma senza Twitter)

Al momento in cui scrivo, la situazione è (pericolosamente) incerta: da che pareva che fosse già sulla via del ritorno, a oggi che tutti smentiscono e non si sa bene come andrà a finire. Io spero con tutte le mie forze che torni a casa, e spendo preghiere laiche per la giovane Urru. Ma quello su cui volevo invece spendere due parole è attinente alla – per me, ovviamente – totale inutilitá delle campagne #freequalcosa sui social network. Se non, appunto, per pura solidarietá umana, per una forma di vicinanza che altrimenti non saprei come esprimere.

Ho alcuni motivi per pensarla così.

Innazitutto, dubito fortissimamente che chi tiene prigioniera in Africa una cooperante italiana abbia accesso ad Internet, e se ce l'ha dubito sia interessato ai social network, e se pure fosse interessato dubito se ne fregherebbe una straminchia della “mobilitazione collettiva”. Quelli vogliono soldi, o la liberazione di qualche tagliagola amico loro in cambio della sfortunata cooperante. Non rapiscono per motivi ideologici, e quindi l'ideologia imho non fa la benchè minima presa.

In secondo luogo, le persone – gli uffici, le organizzazioni, le strutture – che operano per la sua liberazione di una cooperante italiana non hanno  niente a che vedere con Twitter; in particolare, sono convinta che lavorino anche nel più assoluto silenzio di social media e perfino tv e giornali, e lavorerebbero lo stesso anche senza la campagna mediatica dei social network. Quindi pensare che siccome tutta Twitter ne parla, improvvisamente un ufficio governativo si svegli da un sono profondo e riprenda le trattative mi sembra sopravvaluti enormemente – e con non poca spocchia – i “poteri” di un social network. Ergo, mi innervosiscono particolarmente gli appelli a “non dimenticare”, “tenere alta l'attenzione”.

Infine, quando – e spero prestissimo – Rossella Urru e gli altri come lei prigioneri perchè volevano fare del bene all'umanità (e quindi persone a cui va tutta la mia incondizionata ammirazione) saranno liberati sono convinta che sarà stato per il duro lavoro di mediazione di persone   –  uffici, organizzazioni, strutture – a ciò preposte, e non certo perchè un X numero di twit portava l'hashtag #freeRossellaUrru. Però i twitteri più esaltati penseranno invece che è stato tutto merito di chi “ha alzato l'attenzione”, nessuno penserà a smentirli, perchè intanto quelle persone saranno passate ad occuparsi del caso successivo, e quindi si alimenta l'equivoco.

Non metto in dubbio la buona fede di chi ha inserito un #freeRossella Urru nei suoi twitter. Però pensare che perdere 5 secondi a digitarlo salvi una vita, mi sembra francamente velleitario, e anche un modo per scaricarsi un po' – vogliamo dire inconsapevolmente? –  la coscienza.

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Se di tanti capelli ci si può fidare

Non è questione di essere fan.
mobile spywareChe poi, di Lucio Dalla non si è fan.
Si può essere fan di Ligabue, o di Vasco Rossi.
Lucio Dalla è di più, se possibile (scriverò le stesse parole, anzi molto più accorate, per Francesco De Gregori, e per Edoardo Bennato, quando sarà, sappiatelo). Ci vuole poco a rendersi conto che in realtà uno come Dalla è uno sfondo, un tappetino fatto di tanti pezzi su cui hai posato i piedi tutta la vita senza rendertene conto. Non lo sai fino a che non ci pensi, a quante canzoni conosci e a come ti hanno fatto compagnia senza che tu lo sapessi.

Se devo entrare più nello specifico, Dalla mi accende un riflesso istintivo e mi viene in mente la mia migliore amica. “Una storia di catene, bastonate, e chirurgia sperimentale” era una frase in codice, che poteva significare patimenti amorosi ma anche progetti omicidi nei confronti di rivali in amore o presunte tali, perchè si dà il caso che quando è uscito Banana Republic e Come è profondo il mare noi fossimo nella prima adolescenza, vivendo ovviamente senza saperlo una stagione musicalmente felicissima e ignorando che poi sarebbero venuti i Duran Duran, i Subsonica e perfino Gigi D'Alessio. La frase è stata pronunciata molte volte, spesso scherzando, talvolta con accenti di autentica sofferenza, e anche adesso nella cosidetta età adulta basta a far capire come stiamo, una frase e ci siamo dette tutto.

Perchè ha ragione chi dice che ok, sono canzonette. Ma ti rendi conto del loro successo quando tutti o quasi sono capaci di concludere una frase, perchè è la prima cosa che viene in mente. Quando a “Nel centro di Bologna” tutti o quasi sono capaci di aggiungere “non si perde neanche un bambino”, o quando dici “Sposta la bottiglia, lasciami guardare” e tutti o quasi sono capaci di aggiungere “se di tanti capelli ci si può fidare”.

Questa, poi, fra centinaia è la mia preferita. Per un milione di motivi. A cominciare dai tanti capelli.

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