Pagare un bollettino postale? e che ci vuole?

Ed è così che in una fresca mattina di Giugno mi avvio speranzosa verso l’ufficio passaporti. Parcheggio lontano che più lontano non si può, ma che mi importa, vado ad affrontare con animo giulivo una pura formalità, quale quella di rinnovare il documento che mi attesta cittadina italiana e mi consentirà di girare il mondo. Quando arrivo davanti allo sportello, ci sono già, in simpatica attesa, quelle sei o sette persone, ma che fa, la mattina è fresca, aspettare è piacevole, poi sono le 9:20, alle 9:30 lo sportello apre, farò in fretta, giusto?

Alle ore 9:45 la vostra beniamina marcia spedita all’interno dell’ufficio vicino a quello passaporti, che risulta essere l’ufficio immigrazione, e fendendo una folla multietnica chiede con tono solo leggermente alterato al poliziotto in divisa dietro al vetro cosa minchia sta aspettando il suo collega dell’ufficio passaporti, visto che l’ufficio è ancora chiuso e la folla si è raddoppiata. Miracolo, dopo 1 minuto si aprono le porte.
Il responso, quando finalmente tocca a me, è che per rinnovare il passaporto mi servono:

1. domandina precompilata
2. marca da bollo per passaporti da euri 40,29
3. 2 foto tessera su sfondo bianco 4 x 4 cm
4. un versamento fatto sul c/c postale del Ministero del Tesoro da euri 42,50

(pregasi notare l’assurda presenza di spiccioli dopo la virgola, a riprova del fatto, secondo me, che la Polizia di Stato pensa ancora in lire)

Esco più che mai giuliva dall’ufficio passaporti. Sono le 10:15. Che vuoi che sia mettere insieme questi tre documenti in un’ora? L’ufficio passaporti chiude alle 12:00, sarò senz’altro in grado di portare già oggi tutto ciò che occorre, e guadagnerò un giorno sui tempi tecnici occorrenti alla solerte poliziotta (donna, a proposito) per rinnovarmi il passaporto.

E infatti, mentre torno alla macchina passo davanti ad un tabaccaio. E taaaac, la marca da bollo è acquistata. Dopo manco dieci metri passo davanti ad un fotografo che porta scritto in vetrina “si fanno foto tessera”. Prodigio delle macchine digitali, taaaac, dopo 5 minuti ho le mie belle fotine. Belle, insomma: sono io. Diciamo carine, va.

Cosa manca? ah si, solo il versamento alle Poste. E che sarà mai? canterello fra me e me. Sono le 10:25, ho più di un’ora. Mi informo garbatamente dagli indigeni ove posso trovare l’ufficio postale più vicino, che mi viene prontamente indicato. Lo raggiungo.
E qui il sole viene appannato da una leggera nube.
Circa 40 persone si accalcano all’entrata dell’ufficio postale, e non sono di buonumore. Chiedo al codaiolo più esterno a cosa è dovuta tanta ressa, e mi spiega che i terminali sono in tilt, non funziona neppure l’eliminacode, si ricorre al vecchio sistema “signora guardi che c’ero prima io” di italica memoria.

Mi arrenderò per così poco? ma no, perbacco: questo periferico ufficietto postale è in tilt, andiamo altrove.

Ore 10:45, ufficio postale di via Verrastro: chiuso per impallamento terminali, circa venti pensionati fanno la posta alla porta automatica sperando nel miracolo. A ragion veduta, perchè sulla porta un cartello dice “Causa nuovo sistema operativo, le operazioni potrebbero subire qualche rallentamento. Gli uffici riapriranno alle ore 10:00“. I pensionati mi informano che uno sportello che sembra funzionare è quello di via Messina.

Ore 11:00, ufficio postale di via Messina: in effetti lo sportello funziona. E’ l’unico in una città di 60.000 abitanti. In virtù di questo, l’ufficio postale è farcito di carne umana, che è in parte (una larga parte) debordata all’esterno. Prendo il numeretto e ho un leggero appannamento della vista: servono il n. 150, io ho il n. 509. Il mio ottimismo comincia a venire meno. Decido di tornare dove ero prima, prima di arrendermi del tutto: magari hanno aperto, e si tratta di mettersi in coda a venti pensionati, che mi pare prospettiva migliore che affrontare la Gehenna di via Messina.

Ore 11:15, ufficio postale di via Verrastro: niente, chiuso, sprangato. L’unica differenza rispetto alla mia visita precedente è che una mano pietosa ha cancellato “ore 10:00” al termine della frase “Gli uffici riapriranno alle”. Il messaggio mi pare chiaro: che ne sappiamo, quando riaprirà? io me ne vado nel mio, di ufficio, e nelle due ore e tre quarti successive le tento tutte: pagare attraverso gli sportelli Lottomatica, pagare attraverso il sito delle Poste, pagare attraverso il mio conto corrente on line. Tutti tentativi inutili.
Apprendo che l’Armageddon delle Poste Italiane è dovuto al lancio di un nuovo sistema operativo, che pare bloccare misteriosamente tutti i terminali, e a singhiozzo, per di più. Un problema nazionale, apocalittico, non c’è ufficio del Paese che non stia affrontando gli stessi marosi. Perchè giustamente i nuovi sistemi operativi si testano in concomitanza con il pagamento delle pensioni e dei versamenti per le dichiarazioni dei redditi, e non, per esempio, ad agosto. Si testano nel periodo più caldo dell’anno, quando maggiore è l’affluenza di persone anziane, forse sperando di farne fuori qualcuna. Pensare a questo e invocare Baffone è tutt’uno.

Quando esco dall’ufficio, alle 14:00, decido di provare di nuovo a via Messina, hai visto mai che la gente sia andata a mangiare.

ore 14:15, ufficio postale di via Messina: la marea umana si è leggermente diradata. Servono il numero 250, io chissà dove ho buttato il biglietto vecchio, ne prendo uno nuovo: n. 625, una roba così. Sono disidratata e coi nervi preoccupantemente limati. Aspetto, giusto per non dargliela vinta, un quarto d’ora, poi colgo una voce dalla folla (la direttrice dell’ufficio) che invita a recarsi negli altri due uffici che paiono funzionare, ovvero quello di via Pretoria e quello di via Grippo. Scarto via Pretoria pensando che manco a quest’ora da siesta troverei parcheggio, e mi avvio a via Grippo.

ore 15:00, ufficio postale di via Grippo: qui l’Armaggedon ha assunto sembianze caravaggesche. I terminali sono bloccati, e quindi ci sono ben 7 sportelli, ognuno col suo bravo impiegato/a diligentemente posizionato dietro al vetro sulla sua sediolina: chi si lima le unghie, chi telefona a casa, chi fa le parole crociate, chi chiacchiera col vicino.  Davanti, nessuno. Perchè stravaccati sulle sedie, sulle panche, in piedi, fuori, appoggiati ai muri, seduti a terra, gli utenti, in gruppi teatrali, aspettano. Un silenzio irreale regna nella stanza. Con sincero terrore chiedo ad una delle impiegate un bollettino postale vuoto, temo mi pianti una matita nella mano come Nikita con il poliziotto. Aspettare il proprio turno è pesante, ma aspettarlo quando la fila non va avanti, e non si sa se ci andrà mai, è folle. Abbandono il quadro di Caravaggio (“Ufficio postale in un giorno di tilt del sistema“, olio su tela) e i gruppi marmorei, e torno a casa a mangiare, sconfitta e triste.
Mi riposo, anche, un pochino.
Prendo un caffè.
Alle 17:00 circa, decido che un Ariete non si arrende mai.
Ispirata dai miei numi tutelari (Paul Newman, Aragorn, Red Canzian) e con la testa circonfusa di luce, torno all’ufficio postale di via Messina.

ore 17:15, ufficio postale di via Messina: ormai la signora che abita al piano di sopra dell’ufficio postale mi saluta quando mi vede passare, e sospetto stia per offrirmi un caffè. Servono il numero 515. Prendo il numero dalla macchinetta: 650. Mi dispongo con ferrea pazienza ad attendere il mio turno, dovessi stare là fino alle otto di sera. Apro la borsa per riporre chiavi della macchina e cellulare, e dalla tasca interna spunta un pezzetto di carta. Lo tiro fuori trepidante: è il biglietto col 509, quello della mattina, che non avevo buttato, ma  protetta da Paul Newman avevo cacciato nel primo posto utile.
Quindi – l’emozione mi appanna la vista e mi fa tremare le gambe – toccherebbe a me.
Anzi, toccava a me circa 7 utenti fa.
Non posso perdere l’occasione.
Individuo lo sportellista maschio giusto: giovane, in maniche di camicia. Speriamo sia etero. Sbottono il secondo bottone della camicia e quando si libera, prima che chiami la vecchietta successiva, mi avvicino allo sportello. Occhio da Bambi, leggermente sgranato. Miagolo con voce flebile il permesso di pagare il mio bollettino, “mi scusi, mi sono allonatanata un attimo, non credevo faceste così in fretta“. Di fronte ad una frase del genere lo sportellista che sta lavorando da circa 9 ore senza pause immerso nel marasma umano potrebbe anche uccidermi a colpi di forbice senza manco alzarsi dalla sedia, invece per fortuna scoppia a ridere. Si è nel frattempo avvicinata la vecchietta in possesso del biglietto 517. Ha in mano un bastone e lo sguardo di chi non si è fatto spaventare dai nazisti, figuriamoci se si perde d’animo davanti ad una coda alle poste. Il mio miagolio diventa pigolìo, mi profondo in scuse, rassicurazioni e ringraziamenti che sembro Bondi davanti a Berlusconi, e la vecchietta cede, dopo aver constatato che le farò perdere pochissimo tempo.

Esco dall’ufficio postale alle ore 17:30, con in mano la mia ricevuta del versamento. Ci ho messo circa 7 ore, e avrò speso venti euro di benzina, fra tutti gli andirivieni, oltre ad un consistente pezzo di fegato.
Ma ce l’ho fatta e per quello che mi riguarda adesso le Poste Italiane possono pure esplodere, con tutti i vecchietti dentro.
No, vabbè, coi vecchietti no.

Solo le Poste.

Testamento biologico

Se mai un giorno per un qualunque motivo il mio corpo ed il mio cervello dovessero prendere due strade diverse, e mi ritrovassi a vegetare, attaccata ad una macchina, prego chi mi vuole bene di ascoltare i pareri medici. Uno, due, tre, quanti ne volete. Se danno una possibilità anche minima che corpo e cervello ritrovino la strada di casa insieme, provateci, con tutte le vostre forze.

Mettetemi un paio di cuffiette alle orecchie e fatemi sentire 24 ore su 24 The river, Born to run, The ghost of  Tom Joad, No surrender, I’m on fire. Tutto, ma proprio tutto, De Andrè. Tutto Edoardo Bennato. I migliori anni della nostra vita. A whiter shade of pale. La Nona e la Quinta di Beethoven, tutto Mozart, i valzer di Strauss. Tutte le tarante della terra. Raìss e gli Almamegretta. Mina che canta Stasera sono io. Tutte le canzoni napoletane classiche, anche le più antiche. Gli spari sopra e Sally. Baglioni e i Pooh. Tutto, ma proprio tutto, dei Beatles. Battiato e Celentano. Placido Domingo che canta E lucean le stelle. Maria Callas. L’audio della finale del Mondiali del 1982 e del 2006, e di Italia Germania 4-3

Alternatevi vicino a me e leggete ad alta voce, voci che amo, che possa riconoscere. Il canto di Ulisse e quello del conte Ugolino. Il canto di Farinata degli Uberti, di Piccarda Donati, di Ciacco. Tutto Primo Levi. Il punto dell’Iliade (magari in greco) nel quale Achille piange da solo sulla spiaggia e sua madre Teti esce dalla spuma del mare per consolarlo: “Tékhne, tì klaieis?”  (“Bambino mio, perchè piangi?”).  Lucarelli, Dazieri, Carofiglio, Cornwell. Camilleri (questo so già chi dovrebbe leggermelo). L’Odissea. La mano sinistra delle tenebre. Il resto di niente. Il petalo cremisi e il bianco. Benni, Fois, Buccini, Ammanniti.

Toccatemi. Carezze, massaggi, baci, abbracci stretti e prolungati. Lo sapete che amo il contatto fisico, non mi darà fastidio.

Se la possibilità che questo funzioni non è data, e siete sicuri che non soffro, non percepisco, non sento, non vivo, decidete voi. Mettetevi intorno ad un tavolo e decidete come vi sembra più giusto, più umano, più somigliante a me che la strada finisca. Staccare o non staccare, nutrire o non nutrire, fate voi. Allargate il tavolo e fate venire amici, compagni di strada, gente con cui ho lavorato, parenti anche lontani, amori compiuti e incompiuti. Discutete a lungo, scrivete su una lavagna a fogli mobili pro e contro, chi vota a favore chi contro. Prendetevi tutto il tempo che volete, tanto io non avrò nessuna fretta. La mia famiglia (ristretta) abbia l’ultima parola, alla fine.

Mi fido.

E se avrete potuto scegliere ad attuare la decisione in tutta libertà, senza ingerenze del Vaticano, del Governo, di chiunque senta di dover mettere il becco in decisioni così private e personali e dolorose; se avrete potuto scegliere ed attuare la decisione tenendo conto delle mie volontà e della vostra sensibilità, non in nome di un astratto “diritto alla vita” che chissà perchè vale per corpi che vegetano ma non vale per gli immigrati clandestini, per gli operai che cadono dalle impalcature, per i bambini ruandesi, se avrete potuto fare questo, mandate un pensiero riconoscente a Beppino Englaro, e ringraziatelo.

La colonna sonora di oggi è fornita dai Fab Four. Una canzone perfetta.

 

Io e la vespa

Casa mia, cucina, sera (tardi).

Apro la finestra dopo cena per far cambiare l’aria e dalle profondità del giardino di fronte casa mia, puntandomi col teleobiettivo, entra una vespa kamikaze, che mi centra in piena spalla, mi punge e comincia a sbattere impazzita per la cucina.

Ho fatto un casino. Mi sono cadute le ciliege che avevo in mano, ho lanciato un urlo, sono uscita dalla cucina a precipizio richiudendo la porta e murando viva la vespona. La feritina mi brucia da pazzi e si gonfia, un pochino. Subito scene devastanti di shock anafilattico mi si parano davanti agli occhi, e infatti mi pare di avere le gambe deboli e che la vista mi si annebbi (sono solo un filo ipocondriaca, ma appena appena). Resisto 3 secondi (ho una soglia del dolore altissima, anche) e poi chiamo il 118. L’impiegato mi chiede se sono allergica (no), se ho difficoltà a respirare (no), se la ferita si è gonfiata molto (no), e fa moltissima fatica a non ridere mentre mi spiega che non mi manderanno un’ambulanza col defibrillatore, non c’è bisogno che mi misuri la pressione (anche perchè non saprei come fare), nè è necessario che mi mettano in contatto col centro antiveleni. Mi invita a sfregare la puntura con mezzo aglio (aglio? guarda che non è il morso di un vampiro, imbecille). Quando gli spiego che la soluzione aglio è fuori discussione perchè l’aglio è in cucina e lì dentro io non ci rientro se non con un lanciafiamme, mi dice che l’alternativa è mettere un pò di crema antibiotica e “dormirci su”. Lo odio per alcuni minuti.

La crema antibiotica non ce l’ho (lo so, è una contraddizione in termini che io abbia sempre paura di morire e poi abbia a casa giusto un’aspirina scaduta), quindi mi metto in macchina e cerco una farmacia di turno. Durante il tragitto tento di autoconvincermi che se stessi per morire difficilmente potrei guidare con tanta disinvoltura, ma in realtà sto solo aspettando di stare peggio, non fosse altro che per fargliela vedere, a quel cretino del 118. Mi vedo già i titoli sulla malasanità il giorno dopo.

Farmacia di turno. Tutto sbarrato. La mia attenzione viene attratta da un cartello che recita più o meno così: “Se non state proprio morendo, e non avete una ricetta che lo attesti, non vi azzardate a suonare, non vi aprirà nessuno”. Medito brevemente se sto effettivamente morendo o se tutto sommato mi reggo ancora sulle gambe. Mi reggo ancora sulle gambe.

Torno a casa e mi addormento con tutti i telefoni a portata di mano, hai visto mai, dopo aver chiuso tutte le porte, e ho incubi tutta la notte su come farò a liberarmi la mattina dopo dell’orrenda bestia,  che nella mia testa è sempre lì in agguato dietro la porta della cucina pronta ad aggredirmi col pungiglione spianato.

Stamattina. Mi armo con rivista FOR (quella dell’AIF, perfetta per uccidere animali volanti) e paletta per le mosche. Spalanco la porta della cucina con un calcio come un agente dell’FBI ed entro dentro, a  sprezzo di ogni pericolo.

Silenzio.

Dopo lunga ricerca, scopro la belva nell’acquaio.

Decisamente morta, ma non si sa mai: con le pinze del barbecue la prelevo e la spingo nello scarico, e poi apro l’acqua. Vaja con Dios, bestiaccia.

Conclusione: so che molti di quelli che mi leggono non avevano dubbi, ma alla fine l’ho avvelenata io.

Tristezza rosso sangue

Ecco, ci risiamo.

La data attesa passa, e non c’è altro da fare che aspettare, spiarsi, fare e rifare i conti, fare e rifare ipotesi, farsi venire i nervi, cercare di farseli passare perchè tutti dicono che bisogna stare calmi. Piangere un pò, desolate, rendendosi conto che a 38 anni non si è ancora pronti, non si ha ancora una casa, non si ha ancora un uomo che possa essere considerato proprio. Cominciare a pensare come la prenderanno i miei, se è il caso di fare le valigie per il Canada o pensare piuttosto ad una lettera scarlatta da ricamarsi sui vestiti. Dirlo alle amiche, che suggeriscono – guarda un pò – di stare calmi. Figuriamoci io, che sono l’impazienza fatta persona, se riesco ad aspettare così, senza fare niente.

Cassetti, si butta tutto per aria, si trova quello che si cerca per poi constatare che è scaduto da sei mesi. Farmacia, si fa la richiesta sottovoce ad una farmacista assonnatissima del turno di notte, tanto per complicarsi un pò la vita, che sicuramente avrà pensato “Ma non puoi aspettare domani? non è mica una bombola di ossigeno, quella che mi hai chiesto!” Andare a casa, leggere per benino tutte le istruzioni come un mantra portafortuna, anche se ‘sti affari funzionano tutti esattamente allo stesso modo e non c’è pericolo di sbagliare. Rileggere soprattutto la parte dove sono descritte le percentuali di attendibilità. Andare in bagno, chiudendo la porta con un sospiro. Fare tutte le operazioni sporcandosi ovviamente le mani e solo dopo venti secondi rendersi conto che si è smesso di respirare e si sta diventando paonazzi. Fissare con un misto di sgomento e rammarico la finestrella che resta desolatamente vuota.

Rimane abbastanza tempo per spaventarsi per i giorni passati, facendo tutte le ipotesi residuali, dalla banale infezione fino al tumore alle ovaie. Snervare sè stessi e gli altri. Meditare di rifare tutto l’ambaradan farmaceutico, per avere un’ulteriore conferma. E poi una notte afosa, finalmente, dopo 7 – dico SETTE – giorni di ritardo ci si sveglia tutta sudata e si constata che si è sciolta la gloria. Sollievo. Un insopprimibile dispiacere, che resta in un angolino ma non sparisce.

Eh no, non sono incinta.

Meglio così.

Davvero?

Burro e zucchero

E va bene, ragazzi, non ce l’ho fatta. La lavoratrice atipica, tanto tosta e spietata sul lavoro, nel privato ha un cuoricino di burro e zucchero che ha retto 13 ore alla prova della singletudine. Semplicemente non ce l’ho fatta. Avevo ignorato con quella che credevo ammirevole nonchalance le mail accorate, i sms di scuse, le suppliche di una mia parola live, invece della lunga fredda razionale dura mail che avevo mandato per comunicare che non intendevo più considerarmi una coppia.
Ma per la miseria questo benedetto uomo mi è proprio entrato nel sangue, senza che io me ne accorgessi minimamente, e per circa 13 ore mi sono guardata ingrigirmi e smettere di respirare progressivamente. Quando sono stata praticamente in apnea, senza che il cervello lo ordinasse proprio esplicitamente, mi sono guardata prendere in mano il cellulare e fare il solito numero. L’ho sentito squillare facendo finta di niente, ho sentito la voce dall’altra parte che rispondeva, e non mi è parsa mai così bella come in quel momento.
Ho chiesto come se niente fosse se aveva qualche impegno nella serata del giorno dopo o se per caso non potessimo prenderci un aperitivo insieme, solito posto, solita ora, sì, passo io con la macchina, va bene. Ho contato le circa 24 ore che mancavano all’appuntamento come un condannato a morte, perchè non era escluso che anche lui concordasse sul farla finita, e perchè comunque sentivo che qualcosa si era rotto, e perchè chi dice una bugietta non troppo grossa potrebbe poi avere mentito, a valanga, su cose medie, poi su cose enormi, e insomma potevo anche trovarmi di fronte un uomo che mi aveva mentito su TUTTO, negli ultimi due anni. La sindrome Calisto Tanzi, diciamo.
All’ora prestabilita ero lì, parcheggio sghembo multabile, fuori dalla macchina, a (cercare di) respirare l’aria della sera della Riviera di Chiaia e guardare i ragazzini sfilare zuccherosi appiccicati trascinando scatole di Baci Perugina, cuori rossi gonfiabili, orsacchiotti e altre amenità del genere. E’ dura essere adulti e infelici la sera di San Valentino.
Poi l’ho visto arrivare, col solito passo di carica, e ho notato che si sforzava di sorridere. Sono crollata totalmente e senza ritegno. Due minuti dopo singhiozzavo inumidendo in maniera considerevole la spalla destra del suo giaccone imbottito, raccontandogli per quanto la voce me lo consentiva tutta l’atrocità delle 13 + 24 ore passate da quella mail a quel momento, e sentendo nell’orecchio rimasto scoperto tutte le formule di scusa e di richiesta di perdono che la disperazione sa attivare, in momenti così delicati.
E’ finita a champagne nel solito bar   

Domeniche da ricordare

La giornata di ieri, paradigma di uno strazio che va avanti da fine Aprile 2003. Prendo la macchina, punto verso il centro. In Tangenziale piove a dirotto, avrei già una mezza intenzione di fare dietrofront ma proseguo imperterrita come un cane da tartufi. Via Partenope è chiusa al traffico, ci metto venti minuti per fare 200 metri, comunque dove devo andare io alla fine c’è poco casino e parcheggio tranquilla. Via dei Mille è umida, negozi sbarrati, triste, o forse sono io ad essere triste. Registro la presenza di diverse decine di altri esseri umani, a coppie, a famiglie, anche da soli ma con l’aria di stare andando da qualche parte. Io invece non lo so, dove sto andando. Le porte girevoli del gigantesco megastore Feltrinelli a piazza dei Martiri mi forniscono un abbozzo di risposta. Giro per gli scaffali, medito di comprare qualcosa di appena uscito, ma l’editoria è in crisi e pretende di rifarsi con me, le nuove uscite hanno prezzi non inferiori ai 25 euro. Al piano di sotto c’è la sezione Gialli e Polizieschi. Mi faccio tentare da Lucarelli, irresistibile quando ambienta le sue storie negli anni ’40, e da un autore fortemente promozionato da una persona che mi sta antipaticissima. Lo compro per avere modo di poterla stroncare.

Esco.

Fuori non è cambiato niente, è sempre tutto triste, per di più il passeggio tende ad esaurirsi, quindi il senso di vuoto e solitudine si accentua. Passo davanti all’imbocco della strada dove lui abita, mi ci fermo un minuto, mi fa tremare le mani l’impulso di farmi la salita di corsa e bussare al citofono urlando “TUTTI FUORI, STA CROLLANDO IL PALAZZO!!!” per poterlo stanare e rapirlo con un’azione da commando brigatista, nel quale potrebbero pure scapparci sette o otto raffiche di mitra, mirate.

Ho vissuto questa situazione – temporanea, temporanea, devo ricordamelo recitando la parola come un mantra – come un rifiuto. Mi sento rifiutata, da lui, dalla città, dai pochissimi passanti rimasti per strada. Mi identifico con la badante ucraina seduta da sola sulla panchina davanti al Liceo Umberto, fra le mani una busta di plastica spiegazzata, che guarda la scuola dove la figlia non potrà mai entrare, i palazzi dove non potrà mai abitare, le vie che la vedranno curva sotto il peso di lavori ingrati con vecchi miliardari biliosi e rincoglioniti, che i figli non hanno voglia di sopportare.

Entro nella pizzeria affianco al Liceo. Ci sono stata una volta con lui, l’ambiente è accogliente, i camerieri simpatici. Mi leggo mezzo Lucarelli mentre aspetto la pizza, che poi, complice l’influenza che sento incubare da due o tre giorni, mi resterà interamente sullo stomaco per le 24 ore successive. Quando esco, la desolazione è totale. Sento il rumore dei miei passi sul selciato mentre mi avvio verso la caffetteria in piazza, un barbone con tre cani al guinzaglio mi guarda comprensivo, forse intuisce quello che mi ribolle dentro, più di tanti altri. Il caffè è buono, la panna meno, è solo schiuma di latte. All’improvviso non mi tollero più, guardo l’orologio e penso che se faccio una corsa posso prendere il treno precedente al mio, è un Eurostar, potrò leggere in santa pace al caldo e forse mi sentirò un pò meno fuori posto. La corsa è proprio una corsa, la Matiz noleggiata sbanda sotto la pressione dei pistoni, ma ce la faccio. Quando il treno si muove, ecco, lo sapevo, che incoerenza totale, sento di nuovo quella pressione calda sotto lo sterno, umida, che qualche volta ho chiamato nostalgia, che mi fa rimpiangere il lasciare questa città magica, dove ho amato come mai in vita mia, dove c’è quella strada e quell’uomo, che forse – forse – tra qualche giorno potrebbe tornare ad appartenermi, potrebbe tornare nella nostra casa, tornare ad essere mio. Forse.

L’autore consigliato da quella che mi sta antipaticissima mi acchiappa totalmente, mi immergo nella lettura con autentica goduria, e l’impossibilità di stroncarlo come avrei voluto mi toglie l’ultima soddisfazione della giornata. Domani è lunedì, si ricomincia.

Il Natale che non c’è più

Non amo particolarmente il Natale. So di non essere originale, oggi fa fico dire che il Natale fa schifo, ma la mia in realtà è l’insofferenza verso qualcosa che si è molto amato, e che non si sopporta stia cambiando. Dieci o quindici anni fa eravamo una bella famiglia allargata, tre famiglie unite da un comune capostipite, sette cugini, sei genitori, felici di rivedersi e scambiarsi, molto prima che regali, frizzi e lazzi, appassionate discussioni di tutti i generi, confidenze a due, interminabili tornate a mercante in fiera, poker bonario, sette e mezzo, giusto per perderci quelle 10.000 lire e poterci prendere in giro fra consanguinei. E ridere, tanto. Mangiare, tantissimo, cose buonissime di rigorosa tradizione, la gara era appunto riuscire ad essere originali pur nel sacro rispetto del capitone, delle cartellate, dell’insalata di rinforzo.

Qualcosa ha cominciato a distorcersi e ad appannarsi una decina di anni fa, a Novembre uno dei sei genitori, solo 42 anni, si era arresa, stremata, a qualcosa che l’aveva consumata da dentro in una battaglia senza requie. Come corridori dopo il traguardo, abbiamo tutti continuato a vivere e a festeggiare Natale cercando di coprire la ferita con i maglioni rossi, per inerzia, ma piano piano abbiamo capito che la corsa era finita, e abbiamo cominciato a fermarci tutti. Mia sorella, l’unica che ho, è partita per andare a lavorare e vivere in un altro continente, e qualche Natale non ce l’ha fatta a tornare, e anche quando torna è uno stress pazzesco, ha due settimane scarse di vacanza, e ti pare che volino in un soffio, vorresti dirle tante cose e non fai nemmeno in tempo a capire se è sempre la stessa persona o no, ed in cosa è cambiata, che già bisogna riaccompagnarla in un aereoporto, altro luogo che odio con tutte le mie forze. Due cugini su cinque sono andati a vivere al Nord, per lavorare, sempre, adesso sono fanatici berlusconiani e davvero non c’è più molto che possiamo dirci, hanno gli occhi vitrei e sospetto che se gli sbottonassi le camicie comparirebbe lo sportellino per le pile. La loro sorella, terza cugina su cinque, li raggiungerà a Febbraio, e monteranno lo sportellino con le pile anche a lei. Impossibile discutere, ormai.

Fra tutti e sette, età variabile fra i 37 e i 25 anni, abbiamo messo in piedi un solo matrimonio (un altro a Giugno prossimo, ma insomma) e fra tutti e sette, generazione di fottuti sterili e finti evergreen, non ci è riuscito di fare nemmeno un bebè, neppure uno, che avrebbe forse fatto da collante a idee, pensieri, affetti che ormai sono espansi in tutte le direzioni e manco ci pare più di essere una famiglia. Forse dei bambini avrebbero assicurato la continuità, ci avrebbero costretto a concentrarci su pappe, cacche e nanne e quindi a riportare indietro – anche se fittiziamente – l’orologio a quando i protagonisti di pappe, cacche e nanne, regali scintillanti in carta dorata eravamo noi, i sette cugini di sempre, legati come fratelli, un legame che lentamente ma in modo inarrestabile si sta sciogliendo come la neve finta sul presepe. E ci soffro moltissimo.

Poi c’è la mia situazione personale, che questo Natale sarà più difficile che mai, stretta fra un compromesso assurdo e domande legittime di chi mi vuole bene. Ci sono anche tanti progetti, alcuni importanti, vicini, una casa, un lavoro, ma per ora c’è un altro Natale da sola, un altro Capodanno a distanza, altri stress, viaggi, maltempo, minuti rubati, affetti che ti mettono ansia e svaniscono prima di averli potuti dominare.

Odio il Natale. 

Il mio black out

Mi sveglio con una sensazione strana che non so spiegare. Resto a rigirarmela un po’ nel cervello, intontita ancora dal sonno. Poi realizzo. Nella casa c’è il buio più nero e totale. E ora che ci penso bene, c’è anche il silenzio più irreale mai sentito. Niente ronzio del frigorifero, niente compressore della caldaia. Però neppure un latrato di cane, una macchina che parte, uno sportello che sbatte, niente. Va bene, penso, il fondo è l’alba di domenica mattina. Distinguo nel silenzio fondo un leggerissimo fruscio, la pioggia, penso. Nemmeno i pescatori si alzeranno, stamattina. Sono sola nel letto, come da troppo tempo. Senza quasi pensarci allungo la mano verso la lampada sul comodino.

Clic.

Buio.

Clic clic.

Ancora buio.

Ahh, ma è andata via la corrente. Prendo il cellulare, premo un tasto a caso. La stanza è rischiarata per pochi secondi dalla luce bluastra del visore. Constato che il cellulare è quasi scarico, e che sono le cinque del mattino. Resto lì a rimuginare su quel buio così totale, chiedendomi come mai alle cinque del mattino non si cominci già a vedere la luce del giorno. Sono un filo inquieta, anche se io non ho nessuna paura del buio, anzi, soprattutto per dormire, chiedo porte chiuse e tapparelle abbassate. In America dormire era un incubo, gli yankee ignorano la funzione isolante della tapparella italiana, hanno solo ridicole veneziane ed è come dormire con la finestra spalancata. A poco a poco però mi rilasso. Passa un’auto e i fari squarciano per un secondo il nero. Resto a pensare ai casi miei, in un piacevole stato di semi sospensione da acquario. A poco a poco nel soggiorno una pallidissima luminescenza azzurrognola si fa strada, non è luce, solo un nero un grado meno intenso. Nel pallore dell’alba che avanza, mi riaddormento.

Mi sveglio alle otto, e ci vuole poco a capire che la corrente non è tornata. Mi chiama lui sul cellulare e mi dice che anche a casa sua, una trentina di km. in linea d’aria, non c’è luce. Curioso, penso. Un black out che travolge un’intera città di due milioni di abitanti, e tutto l’hinterland, deve essere una cosa seria. Faccio colazione in penombra, piove a dirotto e la città è più che mai grigia e triste. Solo alle nove del mattino, chiamando i miei, verrò messa al corrente delle dimensioni epocali del problema. Leggo Asimov, mettendomi di traverso sul letto per sfruttare la luce della finestra, fino alle dieci. Fortunatamente non manca l’acqua, né l’acqua calda. Mi faccio la doccia e mi dispongo ad uscire, vado a pranzo a casa di un parente, a cui ho raccontato una balla per spiegare la mia solitudine domenicale. Nella Micra a noleggio accendo la radio e ascolto i bollettini dal fronte black out. Piove, piove sempre, sempre di più. Sulla Tangenziale non c’è nessuno, o quasi, uno scenario irreale per una strada rovente di automobili a tutte le ore del giorno e spesso anche della notte.

Alle due del pomeriggio a casa del parente la luce torna, mentre stiamo mettendoci a tavola. Il cellulare comincia a dare segni di cedimento, vuole energia e io non posso dargliela perché non ho portato con me il caricabatteria. Io dovrei partire con un Eurostar alle cinque del pomeriggio. Chiamo il call center delle Ferrovie dello Stato e una sconsolata Daniela di turno mi suggerisce di “non fare affidamento sui mezzi a rotaia”. Decido di partire con la Micra, a come restituirla penserò domani, come Rossella O’Hara. Ma al bivio fra l’imbocco dell’autostrada e quello della Tangenziale che mi riporta nella mia casetta napoletana improvvisamente mi manca il coraggio. Dovrei giustificare perché ho un’auto a noleggio, e poi come farà domani lui a venirla a riprendere, sono senza cellulare ormai morto del tutto, piove  forte, se la macchina si ferma o succede un intoppo qualunque sull’autostrada, come me la cavo?  Comincia a salire l’ansia, cerco di dominarla elencando le priorità. Primo, trovare il modo di rimettere in funzione il cellulare e non rimanere isolata. Lui può mandarmi solo messaggi, il pensiero di non poterli leggere, né rispondere, mi stringe il cuore in una morsa fredda. Girovago sulla Tangenziale, esco a Fuorigrotta e mi dirigo verso un enorme centro commerciale sperando sia aperto anche di domenica, a prescindere dal black out.

Chiuso, ovvio.

Mi reimmetto sulla Tangenziale e mi viene un lampo di genio.

L’Aereoporto.

Lì c’è un negozio di telefonia, sono sicura, e sarà di sicuro aperto. Tangenziale, parcheggio, porte scorrevoli, scale mobili. C’è caldo, rumore, voci, confusione, luce. Urto gente con i trolley, il pensiero che “è in partenza il volo AZ515 per Berlino imbarco immediato uscita 5” mi scatena complessi sentimenti misti di tensione e invidia, non amo l’aereo e gli aereoporti mi mettono tristezza, però mi piacerebbe vedere Berlino. Il giovane commesso cerca, prima incuriosito poi quasi furioso, si vede che gli ho trasmesso l’ansia. Il caricabatterie originale non ce l’ha, mi offre quello non originale, ma non trova neppure quello, e non ha neppure quello da auto. L’ansia cresce, è quasi panico. Mi guardo in giro e vedo una vetrina di offerte speciali. Ci sono cellulari in vendita a 75 euro. Ne compro uno, col fiato mozzo. Appena fuori dal negozio scopro che le batterie sono già un po’ cariche per i fatti loro, e cerco di mandare un messaggio a lui, per dirgli che non parto più. Dall’altra parte non si è compreso bene il mio stato d’animo, che comincia a tendere al panico puro, e si scherza sulla incomprensibilità dei miei messaggi. E ci credo, cazzo, ‘sto cellulare ce l’ho in mano da tre minuti, se sono riuscita a capire come si invia un messaggio meriterei un premio Nobel. Tento di scrivere “vaffanculo” ma la composizione automatica non riconosce la parola, troppo difficile, mi arrendo. Chiamo i miei e li rassicuro sulla mia sorte. Torno a casa, sotto una pioggia ancora un po’ più insistente.

Cercando di non bagnarmi, apro il lucchetto del paletto del parcheggio, parcheggio, lo richiudo. Mi sento un cane scappato dal canile. Al primo cancelletto mi si chiude lo stomaco in una morsa, ormai sono le otto di sera e sta facendo buio, e io realizzo che non riesco a vedere bene la toppa, segno che sul pianerottolo la luce non c’è.

Entro a casa e ne ho la conferma. A questo punto le residue difese crollano, mi metto a piangere al buio sul divano. La prospettiva di tutta un’altra notte al buio totale, con il cellulare che si spegnerà, prima o poi, dopo tutta la fatica fatta per non rimanere isolata, mi terrorizza. Mando un messaggio di autentica disperazione a lui, che si tormenta in cinque risposte mortificate, ma non può fare niente.

Respiro a fondo, mi impongo di calmarmi.

Mi affaccio alla finestra. Le case sono buie, non c’è dubbio, però i lampioni sono accesi. Mi viene in mente che venendo ho visto parecchi locali con le insegne illuminate. In fondo devo pur cenare, no? Esco di nuovo, dopo aver brancolato a tastoni per tutta la casa per cercare le chiavi che non ricordo più dove ho poggiato. Ritolgo il paletto, esco dal parcheggio, rimetto paletto. La pioggia è diventata bufera. Mi dirigo verso la zona delle birrerie, mi perdo un paio di volte, poi parcheggio davanti all’Osteria del Porto, che conosco bene. Entro semi zuppa, ed elemosino corrente elettrica ad un impassibile barista. Quando infila il caricabatteria nella presa mi sento già un po’ meglio. Mi siedo ad un tavolino nell’ombra davanto alla TV e bevo birra e mangio crocchette di pollo seguendo il Gran Premio di F1. Dopo circa un’ora, la cameriera si sporge dal bancone per avvertirmi che il mio cellulare sta squillando. Ovviamente quando arrivo a prenderlo ha smesso di squillare. Ci sono almeno 3 chiamate perse e un numero indefinito di messaggi di lui, fra il preoccupato e l’incazzato. Salta il collegamento con Indianapolis, decido che la cena è finita, pago ed esco.

Fuori piove così forte che solo per dare la mancia al parcheggiatore mi inzuppo tutto il braccio sinistro. Lo chiamo, sia dove sia, ho bisogno di sentire la sua voce. E quando finalmente la sento, la tensione accumulata rompe gli argini e racconto in cinque minuti di singhiozzi, guidando sotto la bufera, tutto il fottuto pomeriggio passato a cavarmela da sola. Sbaglio per l’ennesima volta strada, faccio un’inversione selvaggia e urto il marciapiede con un rumore secco. Ragazza calmati, se scassi la macchina la noleggio è un casino. Guido a venti all’ora fino a casa, sarei propensa a lasciare l’auto fuori dal parcheggio pur di non dover rifare la trafila palettica. Con la coda dell’occhio vedo però il portone illuminato a giorno, e mi sembra di rinascere. Mi impongo un ultimo sforzo. Lucchetto, palo, parcheggio, palo, lucchetto. Entro a casa illuminata più io di lei, ho lasciato tutti gli interruttori su on e sembra che ci sia una festa. Pianto lo stramaledetto cellulare nella presa di corrente, mi asciugo i capelli col phon, mi metto in pigiama, e passo il resto della serata a guardare la TV e a leggere il libretto di istruzioni del cellulare nuovo.

Prima di andare a dormire riesco a mandare e a ricevere sette o otto messaggi pacificatori.

Poi, il sonno mi rapisce, benevolo.

La luce è tornata.