Varie ed eventuali*

*post su qualunque, ma proprio qualunque argomento mi venga in mente, pur di porre fine allo sfrantamento di gonadi appena occorso. Nota: la prossima volta, Cambianeve, NON mettere un link*

Ho sperimentato la corsa serale e notturna, per ovviare ai caldi torridi permanendo i quali non mi azzardo manco ad uscire per prendere la cipolla sul balcone. Bella esperienza, devo dire. A Pantano alle otto di sera ci sono molte più persone che non la domenica mattina, e fra queste molte non ci sono bambini o quasi. Inoltre, la leggenda metropolitana che voleva che l'amministrazione comunale di Pignola avesse illuminato la pista da jogging NON è una leggenda metropolitana: gli ultimi 500 metri della pista sono dotati di faretti impiantati nel muretto che delimita la pista stessa, e che nella romantica penombra post tramonto si sono timidamente ma inequivocabilmente accesi, consentendo almeno ai runners di vedere dove mettono i piedi. E i rimanenti 5 km e 500 metri, direte voi? beh, per quelli vi arrangiate: su alcuni – lunghi – tratti ci sono lampioni stradali, su alcuni altri ci sono le luci delle villette e dei bar-ristoranti, su alcuni altri ancora non ci sono nè gli uni nè gli altri, cercate di non perdere l'equilibrio e di schivare i cani (neri). Nessuna amministrazione è perfetta, ma i runners più o meno storici apprezzano molto lo sforzo. E ringraziano.

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I lavori nel palazzo affianco al mio procedono. E' tutto quello che riesco a dire, perchè la presenza di detti lavori si manifesta solo per ripetuti colpi di mazzuolo nei muri, che iniziano puntualmente intorno alle otto del mattino e si spengono quando sto per uscire, intorno alle nove, tanto che sospetto che gli operai si annoino da soli e vogliano sentire segni di vita nell'appartamento affianco: serrande che si aprono e si chiudono, lo scarico, la doccia, i fischi del microonde nel quale scaldo il latte e quelli del tostapane. L'odore del caffè. La sottoscritta che esce spettinata e in pigiama sul balcone – non vi dico che spettacolo deprimente – per innaffiare i pelargoni superstiti, che, come già ebbi modo di notare l'anno scorso, non sono permalosi e sono fioriti alla grande, nonostante il pessimo trattamento loro riservato ad inizio autunno.

A parte i mazzuoli, null'altro. Sui ponteggi accuratamente montati non passeggia mai nessun irsuto operatore edile. Non ci sono

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mai secchi o cazzuole in posizione diversa da come me li ricordavo. Operai fantasma, forse. O forse si manifestano quando io me ne vado, il che avvalora la mia tesi iniziale: mi svegliano, garbatamente, a mazzuolate, per dirmi che è ora che mi alzi dal letto e mi vesta ed esca, così loro possono iniziare a fare casino sul serio.

Ringraziamo Silver per il prestito dell'adorato Lupo Alberto.

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Notizie dal Pantano

Comincia a far caldo, e la pista ciclabile e per runners si affolla ogni domenica di più. Il Gran Fico in bici da corsa circa un anno fa si è tagliato i capelli che portava legati in una vezzosa fichissima coda, e ora si capisce meglio perchè: i capelli, inesorabilmente, si stanno diradando. Ora li porta a spazzola, ma che siano pochi si capisce. Ha anche messo su uno o due chiletti, ma resta pur sempre un Gran Fico con un fisico spettacolare. Un metro e novanta, muscoloso, slanciato, gambe chilometriche, vita stretta, spalle molto larghe. Le frequentatrici della pista ciclabile fanno il tifo per l’alta temperatura, arrivata la quale in genere il Gran Fico compare in sella alla sua bici con aderenti calzoncini da ciclista neri e il torso nudo.

Ci sono anche tutti gli habituè, il Barba Immensa, il Barba Media e il Barba Corta, tre signori di età indefinibile ma non giovani, ognuno con la sua bici ben attrezzata. Non sono competitivi come il Gran Fico, che tira come Contador, ma si fanno lunghe passeggiate e mi piacciono, mi danno l’idea della rilassatezza e del “voi fate un po’ come cazzo vi pare, io vado in bici”.

La pista gira intorno ad un lago artificiale, che è area protetta del WWF. E quindi inaccessibile. Avrei da dire, anzi ho già detto, sul contrasto fra area protetta – e quindi, salvata perchè si possano riprodurre folaghe e rane e germani reali e trote – e l’idea che sia inaccessibile. Ma tant’è. Però, scusate, voi che gestite la cosiddetta area protetta, un giro lungo i bordi ce lo fate, ogni tanto? Al di là della rete c’è di tutto. Bottiglie, carte di patatine, preservativi usati, lattine, cartacce di ogni genere. Ok, la gente è incivile, siamo d’accordo, che siano maledetti. Però a ‘sto punto cosa è inaccessibile a fare, l’area verde, se poi è comunque sporca (almeno lungo i bordi)? E voi, o volontari del WWF, che ci state a fare se non (anche) a raccogliere di tanto in tanto qualche cartaccia, almeno le più visibili?

E infine, io. La primavera è stata un disastro, forse ho sbagliato qualcosa nella preparazione invernale, forse avrei bisogno di integratori (ma non oso prescrivermeli da sola), di una dieta diversa, sta di fatto che non reggo più i ritmi dell’inverno. Sto anche pensando sia una questione di abbigliamento: il reggicose con le putrelle non è adatto, non lascia traspirare la pelle, si bagna e pesa. Devo comprare un body da corsa di altro materiale. Un po’ ci ho sofferto, poi mi sono rassegnata, non voglio diventi un’ossessione. Oggi, per esempio, ho corso 5 miserrrimi chilometri prima di arrendermi al sudore e al cedimento muscolare. Manco 25 minuti. Vabbè, ci penserò domani, come Rossella ‘O Hara.

News della settimana

La primavera stronca le gambe? Domenica, dopo 7 mesi di continui progressi e di rispetto delle mie tabelle di marcia, mi sono fermata dopo 6 km, poco più del 50% di quello che volevo fare. Mi consolo pensando ad un certo numero di concause (il periodo del mese – per le donne è fondamentale – la primavera, un allenamento settimanale sbagliato per motivi di lavoro, una certa forma di appagamento mentale) ma la verità è che sono schiattosa. Registro anche la prevalenza del corpo sulla mente, in questo caso: poco oltre il 6° km mi sono fermata, e sono certa di non averlo deciso io. Il mio corpo ha deciso per me. Obbedisco. E’ opportuno ascoltarlo, quando parla a voce così alta.

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Mamma: Hai preso il 17 Marzo di festa? brava! e hai anche spiegato perchè?
Sorella: No [mia sorella vive all’estero, N.d.R.]
M: Hai fatto male! perchè non l’hai detto? avresti fatto un figurone!
S: Mamma, se in Finlandia è la Festa della Renna, il mio collega finlandese potrebbe prendersi un giorno di ferie, senza per forza spiegarlo a tutto il mondo. Ecco, fai conto che qui la feste dell’Unità d’Italia ha la stessa valenza della Festa della Renna
M: Ah. 

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Sono convocata in Tribunale per rendere testimonianza in una causa civile intentata da una consulente contro la società nella quale lavoravo prima. L’avvocato della consulente, delegato da un suo collega titolare, è un mio compagno di scuola del liceo. Quando svolto nel corridoio del tribunale dove c’è la stanza del magistrato davanti al quale devo rendere testimonianza, lo vedo seduto su una panca, curvo sulle carte che legge velocemente, cercando di imprimersi nella testa i dettagli della causa, di cui sa poco. La scena mi accende un flash nella testa nel quale la  stessa persona, 28 anni prima, è seduta nel corridoio della scuola cercando di imprimersi nella testa i dettagli della lezione prima dell’interrogazione. Mi prende un moto di tenerezza e nostalgia così forte che mi si riempiono gli occhi di lacrime. Il flash continua quando davanti al magistrato il serio avvocato dichiara di essere un sostituto del titolare, e ammette di non conoscere la causa nei dettagli. Il tono della voce è identico a quando si dichiarava impreparato davanti al nostro terribile professore di storia e filosofia. Lo guardo con la coda dell’occhio e ci viene da ridere, orribilmente, considerata la situazione e le persone che abbiamo intorno. Ci teniamo la ridarella fino alla fine, e soprattutto ci teniamo, prezioso, il ricordo dei nostri 17 anni. Non passati invano.

Correre: la mia prima gara

La vestizione è durata 20 minuti, tipo samurai, o torero, o sposa.  Reggiseno sportivo, body con le putrelle per reggere peso e movimento, pantalone tecnico, calze, scarpe, maglia tecnica, t-shirt, k-way. Contrariamente alle previsioni, non piove, e anzi in lontananza si intravvede uno squarcio di sole. Il cappellino me lo porto lo stesso, però.

Partenza – ho il pettorale numero 202. Siamo un centinaio, tutti variamente infreddoliti, saltelliamo per non perdere gli effetti benefici del riscaldamento. Saluto un po’ di amici, mi faccio le foto di rito, faccio partire la musica nelle orecchie, e saltello, e dondolo, e faccio l’hula hop per scaldare i muscoli critici. Scoprirò poi che la partenza in ritardo, che mi ha costretto a continuare a scaldare la schiena, ha avuto effetti ottimi sulla tenuta della medesima: non mi ha fatto male per niente. O saranno state le robuste strofinazioni con Feldene e balsami della tigre vari. Allo start, vedo solo schiene e suole di scarpe: in pochi minuti sono praticamente sola, e credo ultima. La tentazione di correre più forte è grande, ma mi concentro per non farlo: tieni il tuo ritmo, tieni il tuo ritmo, mi dico.

3° chilometro – il primo strappo in salita, intorno al 2° chilometro, è stato passato con stile. Adesso sono in discesa. Mi sforzo di non strafare e di ricordarmi che la discesa non è meno faticosa della pianura, anzi lo è di più, perchè si devono ammortizzare i colpi inferti dalla forza di gravità. Via Mazzini passa come in sogno, e così pure Corso Garibaldi. Sto bene, va tutto bene. Inizia il discesone verso la zona industriale. Supero tre persone, non sono più ultima.

6° chilometro – ho passato il “punto di ristoro” del 5° chilometro senza riconoscerlo, a meno che non debba intendersi per tale un pacco di bottigliette di acqua da mezzo litro abbandonato sul mnarciapiedi. L’organizzazione è piuttosto raccogliticcia, a tratti fantozziana: ad alcuni incroci non riesce a tenere a bada gli automobilisti, che passano lo stesso, anche se non sono passati tutti i corridori. Mi riattacco una delle spillette che regge il pettorale, operazione non semplicissima da fare, correndo.

9° chilometro – supero altri tre partecipanti, e vedo davanti a me un gruppetto di persone che conosco. Il distacco tra me e loro si riduce, ma mi sforzo di non corrergli dietro: devo stare attenta, l’ultimo chilometro sta per arrivare, e non mi perdonerà. Tenere basso il ritmo, risparmiare energie. Ma non ce la faccio, o forse vanno piano loro: insomma li raggiungo, e faccio un pezzetto di strada in compagnia. Comincio a sentire le gambe pesanti, ma credo sia un fatto di testa. Alzo il volume della musica nelle orecchie. Il ponte Musmeci, so che non lo si direbbe quando lo si fa in auto, è in salita. Lo faccio in coppia con un signore non giovanissimo che ha il mio stesso identico passo, ci tiriamo a turno.

Ultimo chilometro – l’ultima salita. Il signore con il quale ho fatto il ponte mi chiede da che parte si va, la salita? eh, si, la salita. Riduco il ritmo al minimo, pompo aria nei polmoni più che posso: ma dopo 400 mt circa, all’altezza dello stadio Viviani,  mi devo arrendere. Cammino, cercando di recuperare in fretta. Il signore di prima si allontana. Vengo raggiunta dal gruppo di amici, che nel frattempo avevo superato, che mi incitano a proseguire. Una di loro mi prende addirittura per mano. Ricomincio a correre, avrò camminato per 300 mt, c’è un ultimo pezzo di salita ma ormai vedo la luce. Si svolta in viale Trieste, finalmente l’asfalto si appiana sotto i piedi. Tengo basso il ritmo e in fondo al rettilineo vedo l’arco giallo gonfiabile che segna il mio arrivo. Saluto gli amici, che proseguono per i 21. Io sono arrivata: mi viene preso il tempo, mi allungano una bottiglietta d’acqua. Corro per una decina di metri, per inerzia, poi rallento e mi metto a camminare.

C’è il sole, sto bene, sono arrivata.
10 km. in 1 ora, 9 minuti, 46 secondi
Classificata 17° su 20, 2° donna su 3 (ahr, ahr)

Sono arrivata. Cammino su e giù nei pressi del traguardo, recuperando, bevendo e sorridendo come una ebete a quelli che incontro. Due vecchietti a  passeggio mi chiedono se sono stanca, dico loro di sì, ma rido. Mi faccio con calma il mio stretch, e  prima di andarmene faccio in tempo ad assistere all’ultima cialtronaggine degli improbabili organizzatori: arrivato anche l’ultimo concorrente dei 10 km, iniziano a smontare l’arco gonfiabile, forse per risparmiare tempo. Però quelli che fanno la mezza maratona stanno ancora arrivando, e sono costretti a saltare sopra al serpentone sgonfio e ad un intrico di fili e ganci stesi a terra che occupano l’intera carreggiata. Piovono improperi in numerosi dialetti italiani.

Ma non fa niente, mi è paciuto da matti: io, la strada, l’asfalto che scivola sotto le mie suole, il rumore del mio respiro, il tum-tum regolare del mio cuore. La meta che si avvicina. Il momento di crisi da superare respirando più a fondo e andando più piano, finchè tornano le forze. Meraviglioso, tutto.
Mi è piaciuto talmente tanto che il mio primo pensiero è: quando ne faccio un’altra?

Correre / 5

Ok, ci siamo.
Il grande giorno si avvicina.

Ieri ho corso 10 km tutti insieme per la prima volta, e sto bene. Il cuore e i polmoni rispondono a meraviglia, quando mi sono fermata non avevo nemmeno il sopraffiato. E’ la carcassa che mi dà qualche problema, la schiena, soprattutto. Ho un fastidioso dolore in basso a sinistra, poco sopra la natica, che è una vecchia contrattura mal curata, o forse un problema di postura o di colonna che comprime un qualche nervetto, non lo so. Al 3° km comincia a farsi sentire e aumenta d’intensità fino al 7° circa, allargandosi e coinvolgendo tutta l’area renale. Poi forse si scalda, non lo so, insomma mi pare di sentirlo meno. Però c’è, sempre, fino in fondo. Domenica prossima devo farmi una robusta strofinazione di Feldene prima della gara, e fare una lunga seduta di stretch, anche la sera prima, magari. E sforzarmi di correre più sciolta.

Studio il posto dove lasciare l’auto, e cosa portarmi dietro. Thè caldo con lo zucchero, da bere subito dopo la gara. Devo comprare un thermos, non credo di averne uno. Studio l’abbigliamento, la vestizione sarà tipo quella dei toreri, accurata e meticolosa, a cipolla, per non prendere freddo all’inizio e potersi spogliare durante e potersi rivestire subito dopo. Studio il percorso. C’è un primo strappetto in salita quasi subito, dopo il 1° km, ma non dovrebbe essere un problema. Poi il percorso è quasi tutto in pianura o in discesa, fino all’ultimo terribile chilometro (forse anche qualcosetta in più), che è tutto un lungo salitone. Ricordarsi di conservare le energie. Andare piano, non farsi coinvolgere dal ritmo altrui. Sei sola, ricordati. Tu e la strada. Tu e 10 km. da percorrere di corsa, ma al tuo ritmo. Tu e te stessa. Considerato che è la mia prima partecipazione ad una gara podistica, l’importante è arrivare, tagliare il traguardo. Se in qualche punto dell’ultimo chilometro avrò camminato invece di correre, pazienza.

La musica: ieri ho provato a tenere le cuffie e attaccarle, invece che all’I-pod, alla radio. Una intuizione geniale. Qualcuno che mi parla nelle orecchie è per me fonte di grande distrazione, nel senso che mi concentro su quello che viene detto e non sento la fatica. I primi 4-5 km sono corsi via e non me ne sono nemmeno accorta. Solo che gli auricolari col sudore scivolano, e odio dover spezzare il ritmo per sistemarle. In settimana provo ad andare alla ricerca di auricolari col passanuca, ma ho qualche dubbio che riuscirò a trovarli. A quel punto meglio niente.

La settimana scorsa, e anche ieri, mi è successa una cosa strana. Intorno al 2° chilometro e qualcosa, ho avuto netta la sensazione che le gambe andassero da sole. Non so come spiegarla meglio: le gambe avevano preso un ritmo loro, che era solo marginalmente comandato dal cervello. E non ero in discesa. Non è durato molto, forse un chilometro, un chilometro e mezzo, però è stato bello. La sensazione si sè ripetuta negli ultimi 500 mt, ma in quel caso è più comprensibile, quando si vede arrivare il traguardo la stanchezza svanisce. Faccio affidamento su questa sensazione, per quel famoso ultimo chilometro.

E dopo i 10 km., tutte le strade sono aperte 🙂

Si parte alle 9:30 di Domenica 6 Marzo. Attualmente copro i 10 km. in 1 ora e 10 minuti circa. Mettiamoci pure un po’ di emozione / imprevisto (la salita!), ma prevedibilmente intorno alle 11:00 avrò tagliato il traguardo. Se vorrete rivolgermi un pensiero di incoraggiamento, in quell’ora e mezza, sono sicura che mi arriverà.

Uno spot beneaugurante 😉

 

No ma non sono ipocondriaca

Episodio 1: sono in ufficio. Molti mie colleghi sono stati a letto con l’influenza. Mi sento strana, ho freddo, dolori alla schiena e al petto, la tosse. Vado in bagno e mi guardo allo specchio. Bah, normale, direi, stessa faccia di culo di sempre. Però, forse .. mi tocco le guance, mi sembrano calde. Più del solito.

La faccio breve: dopo due ore di autoauscultazioni e autopalpazioni e dopo essermi fatta mettere le mani in fronte per sondaggi incrociati da tutte le colleghe, soprattutto quelle munite di figli piccoli che – si sa – diagnosticano la febbre a vista, la diagnosi è unanime: sto benissimo, al massimo ho un po’ di raffreddore. Non ci credo, ovviamente, e vado a casa trascinandomi come Don Rodrigo quando scopre di avere la peste. Mi faccio commiserare dalla mia famiglia vicina e lontana, mi metto a letto e con un sospiro abbasso il termometro e me lo infilo sotto l’ascella. Nel frattempo faccio l’inventario dei medicinali presenti e non scaduti nel mio armadietto: due pasticche di Benagol e un’aspirina. Stop. Sì, lo so, per essere una sempre sul punto di esalare l’ultimo presunto respiro spendo veramente poco, in medicine. E’ una delle mie meravigliose contraddizioni. Mi accuccio nel lettone sotto la piuma d’oca ed estraggo il termometro dall’ascella come Merlino con la spada nella roccia. Guardo, tremebonda.

35,9 gradi centigradi. Mi viene in mente Fantozzi pensionato che si misura la pressione e urla “PPPINNAAAAAAAA!!!! HO DUE DI PRESSIONE, COME LE FOOORMICHEEEEEEE!!!”, scoppio a ridere e mi addormento.

Episodio 2: intendo partecipare ad una gara sportiva, per la quale occorre che faccia tutto uno screening presso il centro di Medicina dello Sport, tendente per lo più ad accertare se sono minimanente a rischio infarto o posso continuare tranquillamente a spolmonarmi fra anello del Pantano e tapis roulant. Nei giorni precedenti la data degli esami compulso freneticamente tutti i siti in materia, da quelli medici a quelli astrologici, e guarda caso mi convinco di avere tutti i sintomi di una qualche malattia cardiaca di cui ancora nessuno sa nulla, a partire da me. Valuto se la prova da sforzo è meglio che la faccia in bici o correndo, cosa mi fa stancare di meno, cosa sarà meglio per nascondere il mio triste destino di cardiopatica anche agli occhi dei medici.

Faccio i test.

Muscolarmente non sono messa benissimo, potrei fare meglio, ma tutti gli altri esiti sono negativissimi, tanto da meritare moderati complimenti dei vari medici che mi esaminano. Sospetto per un attimo che i complimenti possano essere fortemente condizionati e fuorviati dal fatto che tutti i vari esami si fanno a torso nudo, ma poi mi vergogno di averlo pensato. Insomma, sto bene, anzi molto bene. Almeno così pare.

Episodio 3: per i più affezionati, ripesco la chicca di quando ho creduto di morire per uno shock anafilattico da puntura di vespa (o forse era un’ape, vabbè).

Correre – il giro della morte

E’ il simpatico ma realistico appellativo che la sottoscritta ha dato al giro completo del lago Pantano, in C.da Tora, Pignola (PZ). Il percorso è lungo esattamente 6 km. e quindi corrispondeva al mio obiettivo

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di ieri. E l’ho fatto, TUTTO!! Mi amo. Considerazioni sparse.

1. scherzi della stanchezza/2: se l’ultimo tratto è un lungo – ma lungo – rettilineo, non alzare lo sguardo, perchè più corri più la meta sembra allontanarsi, invece che avvicinarsi. Meglio concentrarsi sul tratto di asfalto più vicino ai piedi.

2. le salite sono meno pesanti se fatte a piedi che se fatte in bicicletta. Correndo, basta inserire la ridotta, cioè rallentare, fare passi più brevi e concentrarsi sul respiro, e la salita passa. Con meno dolore di quanto si ipotizzasse all’inizio.

3. togliete i bambini di mezzo, cazzo!! (ma pure gli adulti). Le famigliuole a passeggio per far prendere aria al pupo non si sa mai in quale direzione vadano, e travolgerli non è un buon sistema: fa perdere tempo e spezza il fiato. I bambini sono particolarmente insidiosi: il concetto di “tenere la destra” è obiettivamente ostico per loro, e voltarsi indietro per guardare dove sono rimasti mamma / papà / fratellino è un gesto geneticamente inserito nelle loro belle testoline infantili. E se si guarda dietro, non si guarda avanti, e la biciclettina / moto a batteria tende a sbandare e/o a cambiare direzione. Per questo nel primo tratto preferisco in genere la rotabile, invece della pista per i pedoni. Ma a quel punto immagino che anche i ciclisti semiprofessionisti pensino di me quello che io penso dei bambini in biciclettina: ieri un gruppone di Pantani mi ha rasato i peli della parte sinistra del corpo, e ho chiaramente percepito con un exploit di lettura del pensiero la frase “ma perchè non vai sulla pista pedonale, bionda?“. L’unica differenza è che io ho una traiettoria prevedibile: vado sempre dritto. E sto tutta a destra. O tutta a sinistra.

4. giusto perchè siate tutti consci della mia grandezza, posto foto del tragitto. E’ quel sottile filo rosso che gira intorno al lago (bello, vero?). Let you rosik.

Correre, ed altro

Problemi da runner, che mai mi sarei immaginata di avere prima di cominciare.

1. il sudore. E non tanto quello che scorre, che fa solo bene (anche se negli occhi brucia, se proprio ne scorre tanto), quanto quello che inonda magliette, calzoncini, biancheria intima, asciugamani, felpe. Forse perchè è il prodotto della fatica, è peggio della candeggina: impregna i capi e non esiste lavaggio a 50° nè detersivo nè ammorbidente che faccia svanire la traccia odorosa della mia meravigliosa ossessione. E i lavaggi a temperature aggressive sciupano i capi, comunque. Non ho una soluzione: ad un certo punto i capi andranno buttati, e stop. Quelli che uso giorno per giorno dopo l’allenamento li stendo fuori, sperando che aria e sole (e pioggia) li rendano almeno avvicinabili  😀

2. il movimento della corsa, passati i primi 30 minuti, tende ad irritare i capezzoli, che – mi sono documentata – possono arrivare a sanguinare. Io porto una brassiere con le putrelle d’acciaio per sostenere il peso – uffa – che già attutisce lo strofinamento, ma ho risolto definitivamente mettendo in loco cerchietti di ovatta cosparsi di crema idratante. Vedremo dopo i 40 minuti che succede.

3. la stanchezza può fare strani scherzi: per esempio, farti percepire lo stesso tratto di strada come “strada in salita” in entrambe le direzioni.

E’ un periodo strano, questo. Tanta fatica fisica, una discreta fatica mentale, ma per contro assenza di emozioni.

Sono molto contenta di aver rischiato, mesi fa, cambiando sede di lavoro: non ho subito contraccolpi di nessun genere, il lavoro mi piace, e molto, le persone sono gradevoli e stimolanti al punto giusto. Dopo le amministrative e con l’andata in pensione di un paio di colleghi (maschi), questo Dipartimento si caratterizza per una gestione fortemente matriarcale e women oriented: donna l’Assessore, donna il Direttore Generale, donne tutti i responsabili di Ufficio e molti dei quadri. Non voglio fare la femminista dell’ultima ora, ma a me piace. E’ vero che le donne possono essere micidiali nelle invidie e gelosie, e nel tessere conseguenti trame velenose e trappole, ma finora non mi pare stia succedendo: sento piuttosto un’aura di sotterranea solidarietà su orari, figli, genitori, assistenze, sui dolori quotidiani piccoli e grandi; una più generale tolleranza sui bisogni individuali, che sono secondo me una caratteristica propria delle donne (se intelligenti, ovviamente, e se non accecate dalla corsa al potere con qualunque mezzo). Ci sono molte ragazze giovani, l’aria è generalmente allegra, capita spesso di sentir ridere nelle stanze. E anche questo mi piace.

Però le farfalle non le sento piu’. E come dice Elisa, mi illudo (o temo?) che stiano dormendo, ma so che sono morte. Potrebbe essere per questo, che il ritmo di scrittura si è allentato: la vena letteraria è generata dalla sofferenza, possibilmente d’amore. E’ una regola che mi sono inventata in questo momento. Anche perchè a scrivere di innocui e asettici tecnicismi non mi diverto. Mi diverto quando posso raccontare quello che mi succede attorno, e dentro, possibilmente senza illudermi di espolorare (ed aver capito) i macromeccanismi. Adesso per esempio, non so come chiudere questa banale lamentazione sui cazzi miei.

Lascio la scena al grande Roberto Benigni, per un pezzo di cui adoro le parole ma soprattutto la musica. A futura memoria.

 

Correre

Prima di tutto, il rito.

Spogliarsi degli orpelli della civiltà per indossare la divisa selvaggia della passione. I calzoncini sono tecnici, e anche le scarpe, se no ci si fa male. Ma la maglietta è stinta e sbiadita, e porta il segno di innumerevoli sudate e lavaggi a 40 gradi, e una traccia di odore umano che nessun ammorbidente riesce più a cancellare. La felpa, se fa un po’ più freddo, è quella che ho comprato nel mio primo viaggio negli States, nel 1990. E’ bucata e stinta, sbridellata in più punti, ma nessuna come lei è adatta al rito selvaggio dell’amplesso col proprio corpo che si ottiene in una corsa. 

La musica. Da qualche giorno mi pare di poterne fare a meno. Mi concentro di più sul mio corpo, sul ritmo del respiro, sul lavoro sincrono e miracoloso di muscoli, ossa, legamenti, giunture. Sul rumore delle scarpe che battono il terreno, con un ritmo uguale e che riconosco come mio. E poi non sono riuscita ancora a trovare cuffiette che mi stiano perfettamente ferme sulle orecchie, senza farsi smuovere dal passo, senza scivolare via quando inizia a scorrere il sudore.

I primi 10-12 minuti sono i peggiori, con un picco di sofferenza verso il 10° minuto. E’ il momento nel quale una parte di te ti sussurra alll’orecchio “ma chi cavolo te lo fa fare?” e anche “puoi fermarti, se vuoi, sai?”. Se ascolti questa voce, è la fine, ti fermerai e dopo non riuscirai più a ripartire, perchè ripartire è orribile, e il picco di sofferenza ti aspetta al varco dopo due minuti. Se invece riesci a non fermarti, concentrandoti sul ritmo del respiro (“dentrodentro-fuorifuori-dentrodentro-fuorifuori”), forzando gli addominali a buttarla tutta fuori, l’aria, prima di prenderne altra, dopo ancora un paio di minuti va meglio. Il cuore ed il respiro si sincronizzano, e respirare diventa di secondo in secondo più facile. Il battito rallenta, anche, un poco, e le forze sembrano tornare. A quel punto è solo un problema muscolare: sforzarsi di non essere rigidi, di dare scioltezza al passo, per non stancarsi. Non forzarlo, il passo, che tanto a me non importa quanto tempo ci metto a fare il mio percorso, mi importa solo farlo 100, 200, 300 metri più lungo della volta precedente. Quando avrò raggiunto l’obiettivo mi preoccuperò di cominciare a correrlo in meno tempo. Forse, o forse no. E comunque è un problema di domani, e invece correre è tutto un qui e adesso. So quando inizia il momento in cui la sofferenza inizia a scemare perchè il cervello diventa capace di pensare ad altro. Ecco, se stai pensando ad altro, se sei capace di pensare a quello che ti ha detto un amico ieri, a quello  che hai sentito alla radio stamattina, vuol dire che hai passato il picco della sofferenza. Prima di quel momento, il cervello è concentrato sul dolore, sul respiro difficile, sui muscoli che sembrano cedere. E’ concentrato su quella vocina che ti dice di fermarti.

I metri corrono sotto i piedi, e la meta del giorno si avvicina. E’ il momento più bello. Quando i piedi passano sul segno che rappresenta la meta, sento, sento distintamente che potevo correre ancora, e ancora, ed è solo la razionalità di fare le cose con calma che mi ha fatto fermare. Anzi no, non fermarmi del tutto, che è dannoso: camminare a passo svelto, respirando a fondo. Il momento di grazia, di esaltazione pura, si stempera in una soddisfazione profonda, intensa, un’ondata di endorfine che inonda il petto, la testa, le gambe, lo stomaco. Il cuore in pochi minuti si placa, come un tamburo che piano ricomincia a battere in sordina invece che a grancassa, gradualmente.

Mi asciugo il sudore con la parte davanti della maglietta, lasciando una chiazza umida che è la prova di aver ancora, anche per oggi, superato un ostacolo, fatto quello che dovevo. A quel punto non mi interessa più di nulla, di quello che mi ha ferito o preoccupato o stancato il giorno prima.

Non mi importa.
Io sono Dio, e voi non siete un cazzo.

Colonna sonora ovvia offerta da The Boss.