Libri che ho letto / Il bambino indaco

Strombazzato in rete – soprattutto dal bot Einaudi su Twitter, c'è da dire, ma anche giustamente, visto che lo editano loro – ne avevo intuito il tema e l'ho comprato, incuriosita. Avrei preliminarmente qualcosa da dire sul fatto che costa 16 euro – corrispondenti su per giù alle vecchie 30.000 lire – una cifretta di tutto rispetto per un libro di 130 pagine e che quindi un lettore più o meno compulsivo come me ha finito in 3 ore scarse. Mi rendo conto che non ci può essere corrispondenza fra peso e prezzo, se no Il Signore degli Anelli dovrebbe costare 350 euro, però allora vorrei almeno se non il capolavoro che ti cambia la vita, almeno il libro che ti costringe a pensarci un po' su.
do my essay online
#einvece, come scriverebbe Margherita Dolcevita.

In realtà, riflettendoci meglio, ho sentimenti ambivalenti nei confronti di questo libro, per motivi molto personali che vado a spiegare.

Il primo sentimento è una certa qual delusione. Il tema è incandescente, e proprio per questo passibile di moltissimi angosciosi approfondimenti. La depressione post parto (in questo caso addirittura pre parto) o comunque la difficoltà drammatica ad affrontare con serenità una prova complessa e molto meno facile di quello che si immagina, come la maternità; la strada perversa che prende, concentrandosi su un altro tema delicatissimo, ovvero la nutrizione, l'alimentazione, il rapporto con il cibo; l'epilogo finale, drammatico e catartico, che lascia però milioni di domande irrisolte. Ecco, tutta questa ribollente materia è trattata in 130 pagine, e se non sei Italo Calvino l'impressione che resta alla fine è quella fretta e della superficialità. Non c'è nessun tentativo di approfondimento, di entrare nella testa di Isabel, di scandagliarne le sensazioni, di descrivere ciò che sente. E questo vale anche per i personaggi minori: la mamma di Carlo, alla fine risolutiva, come prende la decisione? perchè? è amore? è rabbia? è paura? cosa succede dentro di lei per spingerla a recuperare una pistola dal fondo di una cassaforte? non lo sappiamo, possiamo solo immaginarlo.

Ma io ad uno scrittore chiedo di immaginare per me, e di raccontarmelo. Se devo immaginare io, mi leggo un articolo in cronaca su un quotidiano, ed è la stessa cosa. Nell'ultima pagima prima dell'indice leggo la consueta didascalia che avverte che si tratta di fatti e personaggi immaginari . Ecco, posso dirlo? si vede. Si vede che è una cosa raccontata da uno che non ci è passato veramente, è solo una idea bellissima per un romanzo che però per diventare capolavoro richiedeva ben altra potenza espressiva, e ben altra capacità di scendere negli abissi dell'animo umano e mettere le mani nella merda, senza paura, e buttarcela in faccia.

Il secondo sentimento, ad una più approfondita riflessione, è invece di parziale soddisfazione, e diciamo così, speranza.

Ho vissuto una orribile esperienza, della quale ho provato a scrivere. Una storia anch'essa a suo modo incandescente, che è capitata proprio a me, e se è vero che si racconta ciò che si conosce bene, dovrebbe essere facile metterla su carta. Quelli a cui ho fatto leggere qualcosa mi hanno però detto tutti che è coinvolgente e ferisce come una rasoiata nella schiena, ma che ho condensato troppo, che di un anno e mezzo di strazio ho tirato fuori troppo poco, che la materia “è piombo fuso, e andrebbe diluita”. Io però (ci ho provato) non credo di esserne capace, e quindi ho lasciato perdere. In particolare non sono stata capace di inventare dialoghi, o un finale diverso da quello reale, che è irrisolto e banalotto.

Ora mi viene da domandarmi: se una cosa parimenti – a mio parere – poco approfondita, però, ricava questo enorme successo, allora, forse, potrei anche io NON pormi il problema della superficialità, della stringatezza, del non riuscire a diluire la materia nè a penetrare più in profondità?

Marco Franzoso, Il bambino indaco
Einaudi Editore, 130 pag, 16,00 euro

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Libri che ho letto / Ho il tuo numero e La traccia dell’angelo

Divorato in una notte, è un libro che parla di disavventure sentimentali e di telefoni cellulari. Il motivo per il quale ho speso ore di sonno per leggere questo libro, dunque, si puo' riassumere piu' o meno così: Poppy (la protagonista) sono io. Sono io, quella che vive attaccata ad uno smartphone, che, come ho scritto altrove, talvolta fa più compagnia di un essere umano, e che si sentirebbe persa e sola al mondo se perdesse il proprio. Sono io, quella che non esiterebbe a rubare un telefonino altrui – in caso di emergenza, ovviamente – e a ficcare il naso in mail e sms che non sono i suoi, ricostruendo storie, e inventando quello che non riesce a ricostruire su basi oggettive. Sono sempre io, quella che affronta le cause perse (“Ma CERTO, che è importante!!” in effetti potrebbe tranquillamente essere il mio motto), quella che si sente sempre inadeguata, quella che vede il mondo attraverso lenti rosa salmone e che sicuramente manderebbe mail credendo di fare bene per trovarsi poi irrimediabilmente nei guai. Sono io, infine, quella che ha avuto (o avrebbe voluto avere, vabbè) solo uomini inaffidabili, egolatri e incapaci di assumere impegni.

Se siete donne più o meno così, leggete questo libro. Se non lo siete, o – peggio – siete uomini, leggetelo lo stesso, perchè come dimostra la sottoscritta donne così esistono, e sono di più che quello che si pensi. Io mi sono divertita molto, anche perchè l'autrice, come ci ha già ampiamente dimostrato, sa cosa vuol dire raccontare una storia con stile, uno stile brillante e coinvolgente ormai inconfondibile.

Sophie Kinsella – Ho il tuo numero – Ed. Mondadori (ebook)

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Dio mio, che cupezza. Questo è stato il primo pensiero quando ho chiuso il libro. Io adoro, letteralmente adoro Stefano Benni. Ho letto tutto, e aspetto il libro successivo come il Sahara aspetta la pioggia. Stavolta poi le parole che già sapevo avrei amato erano racchiuse nella morbida tascabile adorabile brossura blu scuro di Sellerio, che per me è un piacere già da sola. Oddio, delusione totale. Dove è finita la satira, amara, ok, rabbiosa, ma con un sottofondo di speranza, cui Benni ci aveva abituati? Fra questa ultima fatica e Terra!! o Saltatempo c'è la stessa differenza che c'è fra un funerale di Stato in un film e un funerale vero, di una persona a cui volevamo bene. Terra!! finiva con un gigantesco buffet di personaggi improbabili, ma l'enigma era stato risolto e la nuova Terra – forse – trovata. Saltatempo, pervaso da una meravigliosa vena di nostalgia canaglia, finiva con il protagonista che decide di iscriversi all'Università, di andare avanti,

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di aprirsi una strada verso il domani. Speranza, futuro.

Stavolta – ripescate a fatica nella trama oscurissima – sono chiare solo due cose: che si parla di dipendenza da psicofarmaci e che si racconta un'esperienza di lungodegenza (un ospedale? una clinica per disintossicazioni? un manicomio?) dalla quale si esce più o meno come prima, ma più tristi, e privati di qualunque speranza, nostalgia, finestra sul futuro. Mi spiace se le esperienze sono state personali, ma no, davvero questo libro non mi è piaciuto. E dopo le semidelusioni di Achille Piè Veloce (non ne ricordo neppure la trama, perdonatemi) e di Pane e Tempesta (gradevole, ma scritto rimasticando personaggi e situazioni già note, un classico “scusate, ma mi scade la rata del mutuo” che però uno non si aspetta dal Lupo), questa discesa negli inferi della disperazione mi ha fatto paura, e messo tristezza. Rivoglio la Luisona, l'egoarca Mussolardi, gli indios guatabaya, Margherita Dolcevita, rivoglio quei meravigliosi giochi di parole e invenzioni di linguaggi che mi hanno cresciuto. Rivoglio Stefano Benni.

Stefano Benni – La traccia dell'angelo – Sellerio Editore

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Libri che ho letto / L’animale morente

PHILIP ROTH – L’ANIMALE MORENTE, ed. Einaudi

Tutto il mondo grida al miracolo, con Roth, e quindi non sarò io – non prima di un seconda rilettura – a fare il bastian contrario. Ad una prima lettura, però, almeno questo libro non mi ha convinto.

David Kepesh è un professore universitario americano che ha deciso di vivere praticando fino alle estreme conseguenze i dettami della libertà totale esplosi negli anni ’60. La regola vale a maggior ragione per ciò che riguarda i legami sentimenali, la coppia, il sesso. Il protagonista sembra non riuscire mai a focalizzare l’idea che tra i due estremi (il sesso amorale e fine a sè stesso, puro sollazzo della carne, e la soffocante tetra prigione borghese della vita coniugale e di coppia in genere) ci possano essere infinite sfumature e variazioni. Per scegliere la prima via, David si è lasciato alle spalle un matrimonio e un figlio severo e rancoroso, destinato a ripetere gli errori paterni senza però il coraggio (omicida) di uscirne.

La nemesi arriva sotto le statuarie sembianze di Consuelo Castillo, giovane studentessa del suo corso, figlia di ricchi esuli cubani, per la quale il maturo professore perde la testa in un modo che non avrebbe mai immaginato e che fa piazza pulita di decenni di relazioni puramente carnali ed insignificanti. Con lei David sperimenta tutte le gioie ma anche tutte le ansie del desiderio di possesso totale ed esclusivo: la gelosia, anche retroattiva, la competizione, la misurazione della differenza di età, l’angoscia della perdita. Con la realistica misurazione della propria età, e dell’pavanzare della vecchiaia, david si rende conto che forse anche lui “non desidera più essere libero”. Sembra un abbozzo di innamoramento, eppure anche stavolta è il corpo, la fisicità, ad essere elemento centrale dell’attrazione: Consuelo non è particolarmente brillante, nè ha qualità degne di nota, se si eccettua un fisico perfetto, con una particolarità che per il protagonista diventa ossessione.

Ed è proprio quell’elemento fisico, alla fine, a segnare l’epilogo tragico della storia. E’ proprio la carnalità, il fisico, ad essere minato, a significare l’opposto della vitalità propria della pratica sessuale. Del resto, amore e morte si sono già incontrate, lungo la storia, al capezzale di un amico che moribondo tenta furiosamente un ultimo approccio fisico con quanti lo circondano, come per un ultimo sussulto vitale. Il sesso è l’unico modo possibile di intendere i rapporti con le donne: pure, andando verso un epilogo che non potrà che essere tragico, David, forse senza neppure rendersene conto, tende ad un riscatto di una vita così anaffettiva e amorale correndo, contro una voce interiore che lo sconsiglia, perchè così “non sarebbe più libero”, a prestare conforto a Consuelo spaventata e sola.

Mi è piaciuto abbastanza lo stile in cui il libro è scritto: in particolare, mi è piaciuto che il testo sembri registrare in presa diretta i pensieri del protagonista, i suoi dialoghi interiori, l’andirivieni delle opinioni discusse con sè stesso; e ho trovato interessante la ricostruzione del clima della liberazione sessuale negli ambienti universitari americani negli anni ’60. Per il resto, l’ho trovato un guazzabuglio deprimente e cupo, che non lascia spazio alla speranza e alla pulizia, e che non mi ha entusiasmato.

Libri che ho letto / Trilogia Millennium

STIEG LARRSON – LA “TRILOGIA MILLENNIUM”

Ok, l’ho letta tutta e mi tira un pò di considerazioni, forse slegate e confuse ma sono stanca, portate pazienza.

1. il più bello dei tre pezzi della trilogia è il secondo, a mio immodesto parere.  Il primo è ancora troppo concentrato su Mickael, personaggio non eccezionale, ed è a tratti lento e noioso; il terzo è un pò troppo arrivano i nostri su bianchi cavalli, tutti i pezzi vanno a posto troppo facilmente, troppi cattivi fanno una brutta fine, troppa gente si sveglia dopo 25 anni di vergognosi affossamenti e seppellimenti di coscienze e mortadelle sugli occhi;

2. trovo veramente degno di attenzione – anche se non so ancora dire se mi piace o no –  il modo analitico, perfino maniacale con il quale Larrsson si concentra sui dettagli, in particolare i dettagli alimentari. E’ veramente utile ai fini della storia sapere che Lisbeth scese a fare la spesa e comprò un litro di latte, pane nero e formaggio, pagandoli con la carta di credito? o che Mickael si preparò una caraffa di caffè e 4 tramezzini con salmone e cetrioli? descrizioni del genere sono ogni mezza pagina: che mangiano, che bevono, che hanno addosso, che comprano al supermercato tutti i molti personaggi della vicenda. I percorsi che fanno: ok, questi sono già più utili alla storia, ma svoltò in Sundagatan, attraversò il sottopassaggio, prese la metropolitana e scese alla seconda fermata, poi risalì a piedi lungo Olof Palme Strasse e avanti così per tre righi: e scrivere invece uscì di casa, e dopo un quarto d’ora era a Olof Palme Strasse? era tanto orribile? non so se mi affascina o mi irrita, tutto ciò: in ogni caso, fa venire voglia di visitare Stoccolma con una mappa coi cerchietti rossi, e di questo suppongo l’ufficio del turismo svedese sia ben contento;

3. Lisbeth Salander è un personaggio meraviglioso, uno dei più affascinanti che abbia mai incontrato in un libro. Non vi dico altro, scopritevela da soli. Mi sto andando a rileggere il primo volume della trilogia solo per il piacere di rileggere la sua entrata sulla scena.

4. come forse saprete, Larsson è schiattato giovane e quindi la trilogia non avrà seguito. Si favoleggia di bozze per un quarto volume nel suo pc, ma niente di certo, ed in ogni caso una quarta puntata mi parrebbe operazione veramente molto tristemente commerciale, dal sottotitolo: sono l’erede di Larsson, e mi scade la rata del mutuo. Oltretutto mi pare che pure se fosse vissuto il Nostro stava già un pò raschiando il fondo del barile, troppi agenti segreti deviati, troppe complicazioni, alla fine forse pure troppi personaggi (io i poliziotti e i magistrati li ho tutti un pò confusi fra loro, alla fine). A meno che non fossero buttati tutti lì per essere poi sviluppati nei volumi successivi. Come se avesse scritto un libro, il primo, e poi si fosse fatto prendere un bel pò la mano, con arguzia nel secondo volume, con ansia ed esasperazione nel terzo. Magari mi sono fatta suggestionare, ma mi pare che partendo dalla prima pagina del primo volume e andando verso l’ultima del terzo il ritmo incalzi, diventi vorticoso e ansiogeno, si affastellino fatti e persone e avvenimenti, come se l’autore si fosse reso conto che il tempo stringeva;

5. ad ogni modo, la catarsi c’è, e fa sentire bene, leggere come i cattivi più cattivi vengono puniti. Perfino con crudele creatività (uccidere un uomo inchiodandogli i piedi al terreno con una sparapunti industriale è veramente un gran colpo di genio horror, chapeau);

6. infine, particolare non trascurabile, i tre volumi sono mattonazzi che fanno salire il rapporto quantità / prezzo: perfetti per lunghi noiosi viaggi in treno, serate di pioggia, notti insonni. Se pensate che più o meno allo stesso prezzo potete ottenere immense cagate adolescenziali di 100 pagine, le 800 e passa di ciascun volume di una trilogia gialla ambientata in Svezia e molto ben scritta vi parranno un buon acquisto.

Un assaggino del clima, con il trailer del film in uscita in Svezia tratto dal primo volume (me lo vedrò, quando arriva, ma speriamo bene).

 

Libri che ho letto / La verità è che non gli piaci abbastanza

“LA VERITA’ E’ CHE NON GLI PIACI ABBASTANZA” di Greg Behrendt e Liz Tuccillo, Salani ed., 8,00 euro

copt13Se un uomo desidera una donna, probabilmente le permetterà di capirlo; se così non è, si nasconde dietro mille scuse. E se non ci pensa lui a giustificarsi, purtroppo ci pensano le donne, arrovellandosi, ossessionando le amiche, sprecando lacrime e sonno: “Forse non vuole rovinare la nostra amicizia”, “Non è colpa sua, ma della sua famiglia”, “È troppo preso dal lavoro”, “Ha paura di soffrire ancora”.

Questo piccolo grande libro, consigliatomi da mio fratello, che quando si tratta di prendermi a sberle per il mio bene non ci pensa due volte, vuole insegnare a riconoscere le giustificazioni vere da quelle false e a non perdere altro tempo con inutili illusioni.

Gli autori, due sceneggiatori della serie televisiva Sex and the City, insegnano come riconoscere le giustificazioni vere da quelle false: un botta e risposta fra donne in crisi e l’esperto, consigli, rivelazioni (“Gli uomini sanno come funziona un telefono”), divieti, aneddoti personali ed esercizi pratici, per non perdere altro tempo e smettere di farsi illusioni.

Un piccolo grande manuale per smascherare le scuse che le donne si autoraccontano, e purtroppo, talvolta, si autobevono.

Libri che ho letto / Non avevo capito niente

NON AVEVO CAPITO NIENTE – Diego De Silva, ed. Einaudi, 2007

In una Napoli non perfettamente riconoscibile, perchè assolutamente non oleografica, uno spiantato avvocato del foro partenopeo trascina le sue giornate fra improduttive attività forensi e la crisi personale che lo attanaglia in quel momento, essendo stato di recente lasciato dalla moglie. Su questa base si innestano le due direttrici del romanzo, quella personal / sentimentale, con le amare – ma esilaranti – considerazioni del protagonista sull’amore infelice come metafora della perdita della dignità, e quella lavorativa, con l’incursione nel penale e nelle abitudini che regolano i rapporti della bassa manovalanza camorristica con la legge, i tribunali, i giudici, gli avvocati.

A fare da sfondo e collante al tutto, una serie di situazioni e personaggi improbabili eppure così concreti e vivi da poterli toccare, e una lunga serie di interpretazioni sbagliate di comportamenti altrui, sia in

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positivo che in negativo, che porteranno l’avv. Malinconico (nomen omen) alla sconsolata considerazione che fa da titolo al romanzo.

Non si smette quasi mai di ridere, nè di pensare.

VOTO: 8/10

Libri che ho letto / Io non ricordo

IO NON RICORDO – Stefan Merril Block, Ed. Neri Pozza, 2008

Una donna che giorno dopo giorno dimentica le cose più elementari, i visi dei familiari, i nomi, le operazioni più semplici, procedendo a ritroso diretta verso l’infanzia per tornare al nulla.
Un uomo che ama disperatamente una donna che non può appartenergli, finendo con il vivere con lei a contatto più stretto del suo stesso marito.
Un ragazzino sveglio e complessato che non si rassegna all’ineluttabile e lotta almeno per ricostruire la storia familiare di una malattia, l’Alzheimer precoce, che condanna sua madre.
I legami familiari, quelli emotivi e scoperti, quelli genetici e occulti, che legano tutti i protagonisti, vero filo conduttore della storia.
Su tutto, la favolosa leggenda di Isidora, luogo fantastico ed irraggiungibile nel quale “non si possiede nulla, e quindi nulla si può perdere“, memoria compresa, una metafora dell’oblio che ci renderebbe tutti meno infelici, anche se probabilmente meno umani.

Una bella prova di esordio di un giovane scrittore americano, avvincente, scorrevole, appassionante.
Consigliatissimo.

VOTO: 9/10