Ho dato due occasioni al ristorante Marrakesh, una in un giorno feriale, una nel fine settimana. Mi spiace, il voto resta 5 e 1/2, ma perchè sono magnanima. L’ambientazione è carina, forse eccessiva ma è così che uno se la aspetta: tessuti damascati alle pareti, molto rosso, molto tessuto in doppio e triplo strato. Ma le mille e una notte, che per definizione richiamano opulenza e lusso orientale, finiscono qui.
Le porzioni sono – ad essere generosi – bilanciate, nel senso che sono fatte con il bilancino: 1 pezzo di carne, 3 ceci, 2 pezzi di carota, 2 di zucchina, 1/2 foglia di insalata. Il portavasetti con le salse contiene 3 salse, ognuna nella quantità di mezzo (mezzo) cucchiaino, tanto che perfino raccoglierle dal contenitore e trasferirle nel piatto comporta difficoltà da gioielliere.
Ho preso in 2 serate 5 piatti diversi. La sensazione è che in realtà nelle cucine venga cucinato un unico piatto, un pentolone di brodo dove ci sono carni varie, carote, zucchine e ceci. E che a seconda del piatto che si ordina si aggiunga un dettaglio: due olive, la semola del couscous, le patatine fritte del kebab. Tutto è bollito, scondito, dal sapore vago.
Dettaglio finale di non secondaria importanza: l’odore di marmittone carne e verdure impregna i vestiti dei commensali con un tipico afrore da mensa universitaria, e dovrete lavare tutto.
Non ci siamo, ragazzi. Dove sono le spezie, gli aromi forti, i sapori decisi e piccanti della cucina nordafricana? E’ mai possibile che il kebab del mio amico Roberto sia più buono – e più ricco, soprattutto – di quello fatto da nativi? E se bollito deve essere (perchè alla fine magari sono io che ho una idea distorta della cucina marocchina) non se ne può avere in quantità umane, e fatto con qualità di carni migliore? Perchè poi alla fine la cena si paga, non esageratamente ma comunque troppo, per la delusione rispetto al sogno di Casablanca che avevo.