General Hospital

Impressioni sparse di una mattinata passata in ospedale a prestare assistenza morale alla mia mamma.

1. quando si incrociano le strade di due donne, ciascuna delle quali è convinta di gestire una fettina ancorchè minuscola di potere, lo spettacolo è avvincente come una lotta fra iguana. Non c’entra l’ospedale, naturalmente, ma è lì che ieri ho potuto assistere senza pagare il biglietto alla breve ma intensa colluttazione verbale tra la sciura, moglie di un pezzo molto noto negli ambienti della formazione, di professione psichiatra, che tenta di far valere (millanta?) una entratura col primario, e la caposala, che la invita – con violenza, lo ammetto – a restare seduta ed aspettare il suo turno senza agitarsi. Il match, sia detto per la cronaca, si è concluso in parità.

2. in una sala d’aspetto ospedaliera tutti i presenti sono lì che aspettano il loro turno per offrire ad Esculapio una dose più o meno ampia di sofferenza. E’ inevitabile, soprattutto in questo pezzo di mondo nel quale abbiamo la ventura di vivere, che questo conduca ad una forma di empatia, e si socializzi. Se il tempo di attesa è lungo, prima o poi vengono fuori conoscenze comuni, o rapporti di vicinato, se non addirittura lontane parentele. E la sofferenza, un pò, si stempera.

3. abbiamo un bell’ospedale, per quanto un ospedale può essere bello. E’ grande, pulitissimo, curato: ieri – nel molto tempo che ho avuto a disposizione per guardarmi attorno – ho notato pavimenti in linoleum tirati a lucido, fiori freschi, pareti ridipinte da poco a colori vivaci, quadri e poster incorniciati e collocati con gusto. Nessun segno di incuria, non un

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graffio, non una scorticatura, non una carta a terra, cestini collocati dove ce n’è bisogno e semivuoti, segno che vengono vuotati spesso. L’aria ha un odore del tutto neutro, un non – odore, lontanissimo dall’odore acido ed angosciante dei disinfettanti, che normalmente si sente in un luogo di cura. Per quello che mi è dato di conoscere, nella ormai quasi decennale trafila materna di cure per un problema serio, non un’appendice infiammata, ho incontrato sempre medici di ottimo livello, personale paramedico paziente, garbato, umano, disponibile alla socialità senza perdere il distacco professionale. Con alcuni di loro posso ben dire di aver instaurato rapporti di amicizia. E comunque, a mia madre hanno salvato la vita.

4. la sofferenza fisica, se pur ridotta al massimo, di una persona a cui vuoi bene, è uno strazio immensamente più grande di quello che si proverebbe se la stessa dose di sofferenza fisica fosse toccata a te. Mi è uscita barocca, la dico più semplice: avrei voluto farlo io, quell’esame, 100 volte, invece che farlo fare a lei e vederla uscire con gli occhi lucidi dal dolore.

La colonna sonora di oggi è offerta da The Boss. Non è in topic, ma mi piaceva l’aura di rabbiosa malinconia e nostalgia che diffonde.

Senza un vero motivo

Solo perchè è la foto più bella del mondo, e perchè ho bisogno di volare. E magari di un abbraccio della mamma, che è la meravigliosa donna ritratta per l’appunto in questa foto. Quella che vola, ovviamente, sono io.

(vi prego di notare l’assenza

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di denti, le piegotte grasse sulle cosce – già allora – e l’espressione di totale beatitudine)

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Agriterapia

Il modo migliore per farsi passare tristezze e paturnie assortite è passare un pomeriggio a fare giardinaggio sul terrazzo di mia madre. L’amatissima anziana signora, infatti, non appena si ritrova nel suo elemento naturale – che non è, come si potrebbe pensare, il consesso umano, ma il mondo vegetale – si anima di un ampio sorriso MA sfodera anche, se ha qualcuno a tiro con cui farlo, il tono autoritario terrore di due generazioni di studenti.

E inizia la tirannia.

L’operazione clou del giorno è trapiantare la yucca (Euphyta Angiospermae). Attualmente la pianta di cui parlo è una bestia più alta di me con un tronco di trenta centimetri di diametro, e temibili foglie allungate dai bordi taglienti come rasoi. Ma quando è stata regalata, circa 30 anni fa, era un’innocua pianticella beneaugurante nota anche col nome di “tronchetto della felicità”. Non so come diavolo ha fatto, considerato che è una pianta tropicale, a sopravvivere a trent’anni di neve, gelo, il terremoto, traslochi, sfighe assortite di varia natura: sta di fatto che ora è un vero albero, e sta in un vaso minuscolo, per cui l’inflessibile mamma ha deciso che è il caso di trapiantarla. Per l’occasione ha acquistato un vaso, un mastello di plastica enorme nel quale potrei comodamente fare il bagno, e 3 sacchi di terriccio che tanto per cominciare il riscaldamento ho portato su io in terrazza a spalle.

Ve la faccio breve: per poter togliere il vaso vecchio, una volta constatato che era praticamente diventato tutt’uno con le radici, e quindi era necessario tagliarlo, siamo ricorsi nell’ordine a:

  1. trincetto (sseeehhhh, vabbè)
  2. forbice (spaccata)
  3. cesoia da giardino (bene, ma si procedeva alla velocità di un millimetro ogni quarto d’ora circa)
  4. coltello da macellaio seghettato (rischio annesso: squartamento umano, abbandonato)
  5. coltello elettrico (schiantato)

Quando finalmente a furia di sbuffare spaccarsi le mani i piedi le ginocchia siamo riusciti a fare a pezzi il vecchio vaso, per mettere quello nuovo e per alzare il tutto in piedi mi sono partite un paio di ernie del disco. E non è finita qui. Operazione collaterale: aggrapparsi come una scimmia alla yucca per tenerla dritta, mentre la mamma versava vezzose palatine di terra nel vaso dall’altra parte.

Vi tralascio per pietà il dettaglio di tutte le altre operazioni di puro facchinaggio che al grido di “una volta tanto che sei qui, e disposta ad aiutarmi”  la cara ma sempre arzilla genitrice è riuscita ad impormi: mettere nastro isolante sui tubicini dell’irrigazione, che perdono; alzare barriere contenitive nelle fioriere, se no perdono acqua dal bordo; spruzzare insetticida anti vespe (questo l’ho fatto con somma gioia, avvelenarne una per punirne cento); caricare e scaricare vasi, sottovasi, sacchi di terriccio; innaffiare lottando con una pompa che ha la tendenza a strozzarsi nei punti dove io non posso vederla, però la vede mia mamma e libera la strozzatura senza che io me ne accorga, in modo che l’acqua trovi il modo di schizzarmi in faccia mentre guardo il tubo per capire perchè l’acqua non arriva, proprio come nelle comiche di Stanlio e Ollio; spostare piante (“questa la mettiamo qui”, e dopo mezz’ora “mah forse però stava meglio lì” e dopo un’ora “alla fine la rimetterei dov’era, tu che ne pensi?”)

Io non penso più, ormai: sono schizzata di fango e terra fino agli occhi, bagnata fino alle mutande e ho graffi di rose e yucca e di ogni forma verde del pianeta dovunque. La dolce genitrice finalmente ne ha abbastanza, si siede a contemplare il suo regno e sospira: “Ahhhhhh ABBIAMO fatto un bellissimo lavoro, vero?”

Family ties

Un pomeriggio piovoso, e umido.
Sentimenti difficili da raccontare, così stratificati che non è più possibile capire dove finiscono e dove iniziano, sai solo che quello dominante è la tenerezza, e l’istinto di protezione.

Abbiamo lottato, mamma, ancora una volta tutti insieme.
Abbiamo vinto, forse, papà. Ci basta un pò di fortuna, e avremo vinto.
 
Io sono rimasta qui, e mi prendo tutto il bello e anche tutto il brutto di essere qui, le angosce trattenute, le preoccupazioni strette fra i denti, le difficoltà a costruirmi un futuro, va tutto bene ma anche no, la stanchezza che mi prende quando taglio un qualunque traguardo, e il sollievo nel pensare – oggi per la prima volta – che per vivere meglio, alla fine, basta non fare sogni troppo più grandi di me.
 
L’immagine che mi rimane di questo difficile pomeriggio sono due vecchietti un pò curvi, coi capelli bianchi che si allontanano nella penombra a braccetto, ancora una volta insieme contro il mondo, scendendo per la milionesima volta le stesse scale, come nella poesia di Umberto Saba, ancora uniti, ancora insieme contro il mondo, come da quasi 50 anni a questa parte.

Io riesco solo a pregare che campino ancora 200 anni, e bene, più di me, più di tutte i dolori le rinunce le umiliazioni le sofferenze.

E a fine di questa giornata, pure bestemmiare perchè non riesco a inserire nel fottuto blog le strafottute slides è un modo di rilassarsi. Alla fine ci sono riuscita, grazie Giancarlo, anche se non nel modo perfetto che avrei voluto, maledetta me e le mia sete di misurazione con asticelle sempre troppo alte, ma ci sono riuscita.
Ci vuole tanta pazienza, per vincere, vero, papà?

C’è qualcosa che non va

Ecco, oggi ho qualcosa da scrivere.

Sono reduce da una discussione con mia madre e non vi annoio con i dettagli, quello che mi resta dentro sono due stati d’animo che non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro, però inquietano (nel senso che sono inquietanti) entrambi:

1. la mia non è una mamma complice, e meno che mai una mamma rifugio. Quando ho un problema personale devo stare bene attenta a tenerlo nascosto, perchè lei non si sognerebbe mai di aiutarmi a risolverlo, o di consolarmi, ma si torturerebbe soltanto, trovando sempre un modo per fare ricadere su di me la colpa del mio problema, e aggiungendo al problema un problema minore, cioè tirare su lei di morale. Quindi, non ho potuto raccontarle nulla dei difficilissimi dieci mesi passati ad aspettare che finisse un ricatto, non posso raccontarle nulla dei miei dubbi attuali sulla mia situazione e personale e di coppia.

2. ovviamente, mia mamma ha ragione. Anche se non le dico nulla, lei percepisce in maniera quasi paranormale (se no che mamma sarebbe) quello che mi tormenta e me lo spiattella crudamente davanti, costringendomi, per via del punto 1., a negare decisamente pure l’evidenza. E intorcinandomi gli intestini, perchè il subconscio non è fesso e sa perfettamente che quello che ho negato è esattamente quello che penso anche io.

E quello che mi tormenta è che da un pò ci siamo fermati, io e lui, intendo. Non c’è più costruzione, non c’è più guardare avanti, non c’è più progettazione. Solo un insieme di abitudini e frasi ripetute delle quali comincio a stancarmi, oltretutto sto diventando ossessiva, mi sembra di dire sempre le stesse cose ad un muro di gomma che mi rimanda sempre ad un dopo difficilmente quantificabile. Ormai guadagno abbastanza da poter fare alcune delle cose che ho in testa da sola, però che delusione, ragazzi. E poi ci sono altre cose che non posso fare da sola, e lui non vuole fare, non so perchè.

Mi ritrovo a sospettare che lui voglia vivere per sempre così, un piede in due scarpe, nulla di definito e di definitivo. Che voglia rimanere a questo stadio superficiale – che dura da anni, ormai – fatto solo di regali costosi, cenare fuori, fine settimana stratosferici, l’ebbrezza della trasgressione. Mi tornano in mente alcuni dettagli della nostra storia, e sono costretta ad ammettere che se non ci fossero stati un paio di eventi traumatici, per lo più riconducibili all’essere stati scoperti insieme, non saremmo nemmeno a questo punto al quale siamo ora.

Mi rendo conto che c’è una sorta di pudore da parte sua nell’affrontare determinati argomenti con persone che fanno parte di un’altra vita, nella quale io non sono riuscita finora nemmeno a spiare dal buco dal buco della serratura. Io non esisto, per quell’altra vita. Però anche per me non è stato facile fare accettare la situazione ai miei genitori, che saranno le persone più aperte del mondo ma speravano come tutti i genitori che io mi fidanzassi con  Alberto di Monaco o un suo succedaneo, coetaneo e libero. Mi rendo conto anche che con ogni probabilità entrare in quell’altra vita sarà per me fonte di nuove e dolorose e cocenti umiliazioni, o comunque dispiaceri, ma questo fa parte del gioco e penso di poterlo affrontare.

Rimanere nel limbo, no.

Maternità

La mia amica buddista ex compagna di stanza sta combattendo con ostinazione ed infinita pazienza orientale una dura lotta. Una battaglia silenziosa ma ferocissima contro sè stessa, da una parte il suo immane desiderio di diventare madre e dall’altra il suo corpo e l’infida madre natura che non sembrano voler collaborare molto. Il suo corpo minaccia aborti, e il suo desiderio di maternità la fanno stare immobile a letto, senza lavorare, senza fare nulla, quasi senza respirare. Una lotta fra i venti di tempesta che abbattono foreste e l’immobile silenziosità del ghiacciaio. Uno scontro fra gli eserciti di Sauron e Gandalf il Grigio. Una battaglia fra le astronavi di Darth Vader e Yoda nella sua caverna.

Che la Forza sia con te, amica mia.