California here we come – 2

San Francisco non è fatta per cuori fragili.

In ogni senso. Innanzitutto per la sua struggente bellezza, adagiata com’è nella sua baia, con le correnti oceaniche che la riempiono di nebbia e le folate di vento improvvise che aprono ogni panorama. Per me che sono autunner nell’anima, la necessaria felpa col cappuccio e i capelli umidi di foschia sono stati accolti con gioia. Quella nella foto è la migliore visuale che siamo riusciti ad avere del Golden Gate Bridge, dopo aver fatto trekking per un’oretta per salire in cima al belvedere. Ma a me ha comunque spezzato il cuore, sarei rimasta lì per sempre.

Servono poi cuori forti (e cosce e chiappe di ferro) per avventurarsi nelle strade del centro, fatte di pendenze assurde e vertiginose se fatte in macchina ma soprattutto se fatte a piedi. Non ho potuto fare a meno di chiedermi, arrancando sull’ennesima salita con pendenze del 30%, cosa potrebbe succedere ad una mamma a cui scappasse di mano un passeggino con un neonato o, meno tragicamente, come fai a recuperare la spesa se si rompe la busta con le mele o le arance. Si deve essere sviluppata una economia del dislivello, visto che anche le serrande dei garage sono costrette ad essere trapezoidali e ci sono scalini e rampe di ogni genere. Eppure ci vivono poco meno di un milione di abitanti, si saranno abituati.

Il giorno che eravamo lì molte strade del centro erano chiuse e super presidiate da forze dell’ordine di ogni grado. Abbiamo poi saputo che “Kamala is in town” come ci ha detto un indigeno sostenitore. Noi intanto ci eravamo sedute in un bar di specialità francesi per un eccellente profiterole con la panna, ad ascoltare chi ci raccontava che in quelle strade avremmo potuto vedere Robin Williams (l’attore, non il cantante) che portava a spasso il cane, prima di essere rapito dai suoi demoni.

Se volete rivedere strade orizzontali, scendete verso la marina, il celeberrimo Fisherman’s Wharf. Lì come in ogni città portuale della California (tutte con nomi di santi) sotto i piloni del molo vivacchiano – grufolando e tuffandosi per poi saltare di nuovo sui piloni – enormi trichechi e otarie di svariati quintali che sono ormai drogate da quello che gli buttano i turisti. Noi, le orecchie congelate, ci siamo regalati una clam chowder, la zuppa a base di vongole, patate e pancetta servita in una panelluccia di pane opportunamente scavata, che ci ha restituito l’uso delle estremità, con il suo benefico calore.

Una città viva, multietnica nel senso più estremo della parola, che a me è sembrata anche accogliente e tollerante. Ma un giorno solo certamente non può bastare. Aspettami, San Francisco, io tornerò.

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