Spazi immensi

Quando i pionieri sono arrivati in questa terra benedetta, la prima cosa di cui si sono resi conto e' che avevano a disposizione spazi IMMENSI. E si sono dati da fare per occuparli, da Est verso Ovest. Beh, non l'hanno fatto bene, o non l'hanno fatto fino in fondo, per la fortuna dei posteri. Qui tutto e' sconfinato, soprattutto se si lasciano i grandi centri urbani e ci si inoltra nella provincia. Campi di granturco a perdita d'occhio, sulla Route 55 fra Chicago e St. Louis, ma anche piu' a nord, verso il Minnesota. Non una montagnella, una collina, un rialzo del terreno ad interrompere la schiacciante e un po' angosciante piattezza infinita. Pero' provo ad immaginare cosa debba significare veramente vivere in una delle farm che puntinano le immense distese di verde del granturco, e mi viene un senso di oppressione, invece che di liberta'.

Poi si arriva in citta', e qui lo spazio diventa motivo di devastante invidia. Campi da golf, parchi e parconi, con boschi, laghetti, panchine e soprattutto curatissime piste per il jogging e la bici lunghe decine di chilometri, tutte immerse nel verde. Correre nel parco e' per tutti una possibilita' quotidiana a portata di mano, o di automobile, ma basta davvero girare l'angolo. I prati fra un bosco e l'altro sono curati, falciati, puliti, offrono al depressissimo turista italiano la possibilita' di allungare lo sguardo e vedere solo verde intorno a se'.  Fra l'altro, rarissime le salite, e perfino le curve sono disegnate ad arte. Per me, che per praticare una specie di pista in mezzo ai gas di scarico che sia piu' o meno adatta a correre devo fare venti minuti di auto e attorno vedo pochissimo verde, e anche sporco per di piu', e' una specie di miracolo e vivrei qui solo per questo. Se avessi i soldi per mantenermi senza lavorare, beninteso.

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Agriterapia

Il modo migliore per farsi passare tristezze e paturnie assortite è passare un pomeriggio a fare giardinaggio sul terrazzo di mia madre. L’amatissima anziana signora, infatti, non appena si ritrova nel suo elemento naturale – che non è, come si potrebbe pensare, il consesso umano, ma il mondo vegetale – si anima di un ampio sorriso MA sfodera anche, se ha qualcuno a tiro con cui farlo, il tono autoritario terrore di due generazioni di studenti.

E inizia la tirannia.

L’operazione clou del giorno è trapiantare la yucca (Euphyta Angiospermae). Attualmente la pianta di cui parlo è una bestia più alta di me con un tronco di trenta centimetri di diametro, e temibili foglie allungate dai bordi taglienti come rasoi. Ma quando è stata regalata, circa 30 anni fa, era un’innocua pianticella beneaugurante nota anche col nome di “tronchetto della felicità”. Non so come diavolo ha fatto, considerato che è una pianta tropicale, a sopravvivere a trent’anni di neve, gelo, il terremoto, traslochi, sfighe assortite di varia natura: sta di fatto che ora è un vero albero, e sta in un vaso minuscolo, per cui l’inflessibile mamma ha deciso che è il caso di trapiantarla. Per l’occasione ha acquistato un vaso, un mastello di plastica enorme nel quale potrei comodamente fare il bagno, e 3 sacchi di terriccio che tanto per cominciare il riscaldamento ho portato su io in terrazza a spalle.

Ve la faccio breve: per poter togliere il vaso vecchio, una volta constatato che era praticamente diventato tutt’uno con le radici, e quindi era necessario tagliarlo, siamo ricorsi nell’ordine a:

  1. trincetto (sseeehhhh, vabbè)
  2. forbice (spaccata)
  3. cesoia da giardino (bene, ma si procedeva alla velocità di un millimetro ogni quarto d’ora circa)
  4. coltello da macellaio seghettato (rischio annesso: squartamento umano, abbandonato)
  5. coltello elettrico (schiantato)

Quando finalmente a furia di sbuffare spaccarsi le mani i piedi le ginocchia siamo riusciti a fare a pezzi il vecchio vaso, per mettere quello nuovo e per alzare il tutto in piedi mi sono partite un paio di ernie del disco. E non è finita qui. Operazione collaterale: aggrapparsi come una scimmia alla yucca per tenerla dritta, mentre la mamma versava vezzose palatine di terra nel vaso dall’altra parte.

Vi tralascio per pietà il dettaglio di tutte le altre operazioni di puro facchinaggio che al grido di “una volta tanto che sei qui, e disposta ad aiutarmi”  la cara ma sempre arzilla genitrice è riuscita ad impormi: mettere nastro isolante sui tubicini dell’irrigazione, che perdono; alzare barriere contenitive nelle fioriere, se no perdono acqua dal bordo; spruzzare insetticida anti vespe (questo l’ho fatto con somma gioia, avvelenarne una per punirne cento); caricare e scaricare vasi, sottovasi, sacchi di terriccio; innaffiare lottando con una pompa che ha la tendenza a strozzarsi nei punti dove io non posso vederla, però la vede mia mamma e libera la strozzatura senza che io me ne accorga, in modo che l’acqua trovi il modo di schizzarmi in faccia mentre guardo il tubo per capire perchè l’acqua non arriva, proprio come nelle comiche di Stanlio e Ollio; spostare piante (“questa la mettiamo qui”, e dopo mezz’ora “mah forse però stava meglio lì” e dopo un’ora “alla fine la rimetterei dov’era, tu che ne pensi?”)

Io non penso più, ormai: sono schizzata di fango e terra fino agli occhi, bagnata fino alle mutande e ho graffi di rose e yucca e di ogni forma verde del pianeta dovunque. La dolce genitrice finalmente ne ha abbastanza, si siede a contemplare il suo regno e sospira: “Ahhhhhh ABBIAMO fatto un bellissimo lavoro, vero?”

Bradanica interna

La strada è una ferita grigio chiaro nella enorme natica verde smeraldo di una collina ricoperta di grano appena spuntato. Intorno, altre natiche tonde, tutte ricoperte allo stesso modo, in maniera continua e uniforme. Solo, di tanto in tanto, spuntano in mezzo al verde i resti di case coloniche calcinati e sbiancati dal sole feroce delle estati pugliesi. Di solito in cima alle natiche. Il cielo è blu, c’è il sole, l’aria odora di finocchietto selvativo che spunta a quintali ai bordi delle strade. La strada è la Statale 96 bis Bradanica interna, che cercherete invano sulle mappe. E’ una delle strade più affascinanti che io abbia mai percorso, e l’ho percorsa moltissime volte.

Innanzitutto è isolata e pochissimo trafficata, quindi davanti a voi e dietro, nello specchietto, vi può capitare di vedere la ferita grigia che si stende dritta e solitaria, senza altri percorrenti. Poi corre in mezzo al grano, come ho detto. Un grano totale. Senza un cane, una figura umana, un asino, niente. Se avete visto Io non ho paura, che è stato girato pochi chilometri a nord di qui, potete capire di che parlo. I falchi pellegrini, in alto, graffi nel cielo azzurro, planano seguendo le correnti e poi all’improvviso SBAM!! scendono in picchiata a ghermire l’ignaro topolino di campagna.

Nelle notti di Luglio, le colline inondate di giallo sono solcate da luci. Sono i trebbiatori, che lavorano di notte perchè di giorno fa troppo caldo. Falciano, con le mietitrebbia con i fari. 

E a metà del tragitto, il capolavoro: Borgo Taccone. E’ un borgo rurale di forse 6 case e 15 abitanti, nato dall’occupazione delle terre degli anni ’50. Spunta in mezzo al grano come un’apparizione, da un lato della strada. Dall’altro, la stazioncina di Borgo Taccone, rossa, minuscola e completa di tutto, con le sue tettoie, la biglietteria, la pensilina, il binario, unico, che le passa davanti, sul quale passano trenini rossi e gialli che sembrano provenire direttamente dal paese dei balocchi, trenini monovagone, minuscoli, leggermente sopraelevati rispetto al grano, in tutto e per tutto simili ai trenini Rivarossi. Non sembrano provenire da nessuna località e non essere diretti da nessuna parte.

Peccato che la fermata di Borgo Taccone sia stata soppressa, e la stazioncina, agghindata come una sposa del secolo scorso, si impolvera nel vento aspettando un treno che non arriverà mai più. 

 

Primavera in Basilicata

Il paesaggio rurale della mia selvaggia bellissima terra mi riserva anche quest’anno il miracolo della primavera.

E’ difficile da capire, se non l’avete mai visto, passando in pullman o in auto.

Il terreno agricolo, seminato a grano, foraggio, cereali vari, si ricopre in questi giorni di una peluria verde smeraldo, una moquette brillante del tutto inusuale che spicca fra il bruno della terra smossa, il grigio dell’argilla, gli alberi ancora rinsecchiti. Prima timidamente, poi con uno slancio vitale il verde tenero prende possesso del territorio, e in pochi giorni è tutto sfolgorante come se fosse stato dipinto da Van Gogh. Dura poco, perchè poi prende il sopravvento il verde scuro delle foraggere o il giallo di grano e altri cereali, e proprio perchè dura così poco è uno spettacolo da non perdere: per la sua bellezza cromatica selvaggia, e poi perchè ha un che di stonato, di forte, di fuori posto, un verde così squillante e chiassoso in una terra dominata dal senso arcaico della riservatezza propria dei contadini, dal silenzio, dal fuori dal mondo.

Come notava giustamente Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli, anche lui – Levi – affascinato come me da questo spettacolo urlato e repentino, il verde brillante della primavera sui monti fa lo stesso effetto del rossetto sulle labbra e le facce cotte dal sole e dalle intemperie e dalla fatica delle contadine: un contrasto stridente, irriverente e forse perfino un pò patetico, che dura il tempo di una festa di paese.