Stranieri a casa nostra / 2

Non ne voglio ridere. Mi rifiuto di ridere di questa storia, della quale di giorno in giorno si definiscono i contorni, sempre più precisi, sempre più squallidi, sempre più stranianti. Mi rifiuto di voltarla a barzelletta, anche se le battute fioccano, e alcune sono anche divertenti. Voglio restare indignata, come Giulia Bongiorno, voglio restare incazzata perchè non riconosco più il mondo nel quale vivo, e mi incazzo perchè non me ne ero accorta.

I genitori (e altri parenti, fratelli, ad es.) delle ragazze dell’harem: un altro capitolo dolorosissimo, per me inconcepibile. Le intercettazioni mostrano gente avida di “avere”, di vendita di figlie come mercanzia, perfino di incoraggiamenti, ove qualcuna delle ragazze, recuperando un briciolo di vergogna dimenticato chissà dove, si lamenta col padre (col padre!!!) che durante una di quelle cene gli hanno messo le mani n mezzo alle cosce, e lei lì davanti a tutti non era poi proprio d’accordo, insomma si è un po’ schifata. E il padre (il padre!!!!) che le dice che gli uomini fanno tutti così, che non c’è niente da vergognarsi, “ma poi quanto ti hanno dato?” Perchè se sono 5, si versa l’anticipo per la macchina, se sono 7, ci scappa la tv satellitare. E se poi il rapporto dovesse diventare in qualche modo continuativo, “Magari!” sospira un padre, “Ci sistemiamo tutti, io, tu e anche mamma” sogna un fratello.
Certo.
Se ce l’ha fatta Nicole, perchè dovrebbe essere negato un seggio di un qualunque tipo anche a Barbara o Jessica o Martina?

La nausea monta e non se ne va più. E stavolta non posso nemmeno prendermela con il lavaggio del cervello catodico, perchè qui parliamo di gente intorno ai 50 anni, che non dovrebbe – non dovrebbe – almeno per motivi anagrafici, essere stata così istupidita dal trash montante degli ultimi 20 anni. Allora si vede che era gente stupida di suo, e gli stupidi, come è noto, hanno morali elastiche, quando non inesistenti.

Perchè questi genitori sono così diversi dai miei? è solo un fatto di età? di contesto socio-geografico? e perchè, se il livello morale e della dignità è così basso, le ragazze la prima cosa che fanno quando escono da Palazzo Grazioli è chiamare la mamma? è questo, il dramma: la chiamano come se avessero appena passato un esame all’Università, o visto i quadri dei voti alla maturità. La chiamano perchè per loro E’ TUTTO NORMALE, non percepiscono alcuna distorsione, non c’è nulla di cui vergognarsi, non credono che quello che hanno appena fatto sia qualcosa che la mamma non dovrebbe mai e poi mai venire a sapere. Non c’è nulla di strano, a fare la puttana, a farsi mettere le mani in mezzo alle gambe da vecchi bavosi. Mamma anzi sarà fiera di me, e può darmi qualche consiglio per avere 7, la prossima volta, invece che 5.

Io sono inorridita, e schifata, e nauseata. E ho anche paura.
Perchè forse l’uomo passerà, ma, come giustamente annotava qualche mio commentatore, questa distorsione dell’idea di “giusto” e “sbagliato” non ce la scrolleremo di dosso per lunghi, lunghissimi anni. Ne approfitto per ringraziare fervidamente la Madonna e tutti i Santi per avere i genitori che ho, e per non avere figli.

Leggetevi l’appello di Giulia Bongiorno. A me è piaciuto, anche se non è servito a farmi passare la nausea.

Stranieri a casa nostra

Tutta la mia purtroppo innocua esecrazione vada alle donne del governo Berlusconi.

A queste becere puttane che per la telecamera che le inquadra in tailleur e Manolo Blahnick e immancabile cartelletta sotto il braccio quando escono da Palazzo Chigi venderebbero la madre, e per intanto si sono vendute ben altro. Alle igieniste dentali di 25 anni che siedono nei banchi del consiglio regionale lombardo insieme a decerebrati ignoranti come il Trota.  Alle sottosegretarie al Ministero degli Interni, che da sole si alzano in un mese uno stipendio che è 2 volte quello che io prendo in un anno.  E tutto per aver speso un pezzo della loro vita in ginocchio, e non per pregare, come diceva Marylin Monroe.  Al Ministro della Pubblica Istruzione, che dice sotto l’egìda e palesemente diffida dell’istruzione come i gatti dell’acqua ed in altri tempi sarebbe stata cacciata da tutte le scuole del Regno e avrebbe finito i suoi giorni facendo la segretaria in una fabbrica di tubi di piombo del varesotto. 
Il Ministro per le Pari Opportunità!
Io non ci posso pensare.
Con quella faccia da lepre inquadrata dai fari del TIR – come dice Luciana Littizzetto – che si affanna a dare miseranda credibilità alle campagne antistalking, e intanto non dice mezza parola – anzi purtroppo la dice, ed è una parola in difesa del vecchio maiale – su queste ragazze scelte e portate con la macchina al compratore come fossero pizze, cresciute in un mondo di Amici e Uomini e Donne, educate all’idea che una borsa di Gucci val bene una trombata, e che questo è un lavoro come un altro, anzi meglio, perchè porta notorità, visibilità, successo, le serate in discoteca, le feste VIPs.  Un ragionamento identico a quello dei ragazzini reclutati dalla camorra – pensateci, cercando di non farvi venire i brividi – viene intercettato fra i tanti di questi giorni: perchè mi dovrei spaccare la schiena a fare l’impiegata per 1.000 euro al mese, quando ne posso guadagnare 2.000 in una sola serata?

Ripeto parole già dette, ma è questo il guasto mostruoso provocato da 17 anni di berlusconismo e da lavaggi del cervello catodici continui, esasperanti, sempre più volgari e laidi.

Sono stata nella saletta d’attesa di una estestista e per pura noia ho sfogliato una rivista che era sul tavolino, un fiore all’occhiello dell’editoria periodica tipo Chi o Diva&Donna. Mi sono spaventata. Non conoscevo neppure UNA delle persone ivi menzionate, delle quali si raccontavano gli amori persi, ritrovati, i figli, le carriere, le storie. Ma dove vivo? Ma dove vivono tutti gli altri? Chi ci renderà conto di questo straniamento, di questo sentirci stranieri a casa nostra?

Dovrei viaggiare più spesso

Forse dovrei andare un po’ di più in giro. Quando viaggio, incontro umanità che nelle mie routine quotidiane non incontro mai.

Salgo sul FrecciArgento Salerno – Roma, ieri. Quando raggiungo il posto che il cervellone di Trenitalia mi ha assegnato, la scena che mi si para davanti agli occhi è questa. Il mio posto è vicino al finestrino, e fa parte di quelli a salottino, 4 posti messi a due a due di fronte, con tavolino in mezzo. Il controllore – giovane, pallido, serio – è in piedi vicino al tavolino, sfoglia carte che non promettono niente di buono. Il posto di fronte al mio è occupato da una signora anziana, il prototipo leviano della dignitosa e pulita contadina calabro lucana a me tanto cara: ossuta, alta, completamente vestita di nero, capelli bianchi tirati in una crocchia sulla nuca fermata con le forcine, occhiali con la montatura di metallo, piccoli orecchini antichi, rughe di sole e di espressione, viso pulito e pallido. Molto pallido. Ha gli occhi chiusi e tiene un braccio allungato sul tavolino. Il polso di quel braccio è saldamente nelle mani di una donna che le siede di fronte, e che quindi occupa il mio posto. Descrizione della donna: più vicina ai 50 che ai 40, miniabito nero molto scollato aderente con cinturone in vita, calze autoreggenti con balza in pizzo, stivaloni di camoscio nero tacco 12 di quelli da bucaniere, alti fin sopra il ginocchio e più alti davanti che dietro, neri capelli fluenti. Stando seduta, protesa verso la vecchietta, il miniabito si è alzato scoprendo la fascia di pizzo delle autoreggenti, e dall’alto, posizione mia ma anche del controllore, visto che siamo entrambe in piedi, la scollatura è ben più che generosa. Questi dettagli hanno infatti iponotizzato il solerte uomo delle FFSS, che non accenna a muoversi nè a fare alcunchè di costruttivo.

Faccio timidamente notare la mia presenza e con garbo notifico che il posto occupato dalla figlia sexy del Corsaro Nero sarebbe il mio. Il capotreno mi fulmina con lo sguardo, la vamp non mi guarda nemmeno, la vecchietta ha ancora gli occhi chiusi. “La signora si è sentita male – mi spiega l’uomo FFSS – e la dottoressa le sta sentendo il polso”.

I pensieri che mi rotolano in testa, a questo punto, posso riassumersi più o meno cosi:

ok, l’abito non fa il monaco, e ognuno di noi si veste come meglio gli aggrada, soprattutto fuori dal contesto lavorativo. Però poi succede che è il contesto lavorativo che ti viene addosso, sotto forma di una vecchietta calabra che si sente male e di un capotreno che chiede “c’è un medico a bordo?” e il giuramento di Ippocrate ti spinge ad intervenire, anche quando stavi andando in vacanza a Marbella o forse ad un meeting di cubiste over 40. E quindi finisce che ausculti la pressione ad una signora anziana scoprendo la balza di pizzo delle autoreggenti, forse destinate a diversi e più produttivi sguardi che non a quelli del capotreno (e di mezzo treno, in verità, che con la scusa di informarsi sulla salute della nonnetta viene in realtà a guardare la dottoressa dei suoi sogni, quando da adolescenti si giocava al dottore e all’ammalato con la vicina di casa).

Segue la solita trafila che già conosco: il capotreno che chiede all’anziana signora se vuole che venga chiamato il 118, la signora che dice di no e si rifiuta di scendere dal treno, il capotreno che compila e fa firmare a nonnetta e dottoressa una serie infinita di fogli, con esibizione di documenti vari, tutti tesi ad esonerarlo da qualunque anche minima reponsabilità. Intravedo – senza volerlo, giuro – la carta di identità della dottoressa e scopro che ha un nome di battesimo assurdo, tipo Artabana o qualcosa del genere. Un nome, un destino di originalità. Mi siedo affianco alla scosciata, appena il capotreno se ne va, e mi rendo conto che a dispetto dell’abbigliamento, la dottoressa è molto brava: ha capito che il problema della nonnetta è soprattutto psicologico, e continuando a tenerle il polso la costringe a parlare, le fa prendere delle medicine, si fa raccontare tutto il quadro clinico, la fa bere, le fa raccontare in breve la sua vita e quella della sua famiglia. La nonnetta sta andando al nord – estremo nord – per andare a trovare il figlio, viaggia da sola, deve fermarsi 4 ore a Roma prima della coincidenza – marò – è in ansia e depressa per le sorti della sua famiglia sparsa ovunque sul territorio nazionale. In breve la situazione è sotto controllo, la signora anziana riacquista colore e calore e si appisola, dietro consiglio della dottoressa. Arrivati a Roma rifiuta con energia di essere aiutata per scendere, rifiuta

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qualunque offerta di compagnia, limitandosi a ringraziare con solenni benedizioni la vicine di posto (me compresa, che l’ho tenuta d’occhio per il resto del viaggio), il capotreno e soprattutto la dottoressa, vero angelo custode, ancorchè in abiti da Ruby. Spero che sia arrivata, sana e salva, e che il figlio si prenda cura di lei.

Il resto della giornata scorrerebbe più o meno come nelle previsioni. Scorrerebbe, perchè senza alcun preavviso l’ultimo tratto del mio apparato urinario decide di non avere sufficienti risorse immunitarie per combattere un banale assalto batterico, e si risveglia – dolorosamente – con tutti i sintomi di una violenta cistite. L’apice viene raggiunto quando sono sul treno del ritorno, l’ormai caro e casalingo ETR9360 Roma – Taranto. Considerando che io mi farei fare l’anestesia totale pure per tagliarmi le unghie, se ne può dedurre quanto sia alta la mia soglia di resistenza al dolore. Intercetto l’omino che spinge il carrello delle bibite, compro due bottiglie di acqua (so che bisogna bere molto in questi casi, per diluire la carica batterica) e facendo gli occhi di Bambi chiedo se per caso può procurarmi un antidolorofico, un antinfiammatorio, un Aulin, un’aspirina, o anche una mazza da baseball per farmi perdere conoscenza (flap, flap). L’occhione languido fa ancora il suo porco effetto: l’omino pianta il carrello in mezzo al vagone e corre a prendermi un antidolorifico dalla sua scorta personale. Lo prendo, e va meglio. Mi assopisco.

Vengo svegliata di soprassalto dalla sensazione che il treno stia deragliando e stia cadendo in una discarica dove vengono vuotati solo portacenere. Affianco a me, con un tonfo che ha fatto sussultare tutto il vagone, si è seduto un altro passeggero, e mi basta un’occhiata di traverso per capire che Dan Brown non si è inventato niente.

Descrizione del mio compagno di viaggio: 2 metri di altezza per 150 chili di peso. Un bestione, con delle enormi manone. ALBINO. Con i capelli bianchi lunghi raccolti in un codino. Deve aver fumato 10 nazionali senza filtro prima di salire sul treno, ha un odore di ciminiera che mi viene da vomitare. Per fortuna pure lui è insoddisfatto della collocazione, e visto che il treno è mezzo vuoto si alza e si colloca altrove, passando il resto del tempo a guardare un film su un lettore DVD portatile. Ne vedo il riflesso sul vetro, e così a occhio non mi pare Biancaneve e i sette nani.

Per fortuna prosegue oltre la mia fermata.