Old Potenza Pride

Va bene, lo ammetto: mi sono divertita.
Anzi, no: mi sono divertita MOLTISSIMO.

La scena di tanto entusiasmo è la piazza principale della mia città natale. Domani è la festa del Santo patrono e i festeggiamenti, come d’obbligo, iniziano qualche giorno prima e si concluderanno qualche giorno dopo. Ieri sera, musica (popolare) in piazza. E’ quell’aggettivo chiuso tra parentesi che dà il senso a tutto il divertimento.
Tutti i meridionali riconoscono come proprio il ritmo della taranta, il battere ritmico ossessivo delle tammorre e dei tamburelli. E’ musica popolare la pizzica salentina, e tutti ballano, ma il Salento è molto lontano da qui. Sono musica popolare i canti d’amore della provincia, bellissimi, ma appunto, della provincia.

Poi arriva la star della serata, un cantante popolare di cui francamente sapevo molto poco, tranne qualche vaga eco del nome.
E canta canzoni popolari della MIA città. Sono suoni e ritmi e parole che richiamano la cultura del centro contadino che eravamo, e che forse siamo ancora, anche se imbellettato dal modernismo. Suoni ritmi e parole sentite all’alba della mia vita, in feste e sagre e aie dimenticate. Suoni ritmi e parole che non sentivo più da molti, ma veramente molti anni. Era legittimo che me le fossi dimenticate. E invece, dal profondo dell’infanzia tutto riemerge lucido e intatto. Scopro che sono perfettamente in grado di cantare insieme al cantante, tutte le strofe della melodia popolare, nel giusto ordine. E intorno a me stanno cantando e ballando TUTTI, compresi i ragazzini di vent’anni, che secondo me non dovrebbero averle mai sentite, quelle canzoni. Mi è parso un momento (raro) di coralità popolare, un riconoscersi nelle proprie radici, in una identità, in un inno cittadino sepolto da forme forse più raffinate di musica, pur popolare anch’essa, salentina o foggiana o campana.

Foss’ mort’ tata e lo lu ciucc’
lu ciucc’ ggia a ddegna e

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tata nona (*)

Rusina si Di’ vol’, uhè Rusina si Di’ vol’
l’ann’ ca ven’ gn’amma spusà,
mustazzuoli n’amma magnà (**)

A contribuire alla mia commozione e divertimento, la consapevolezza che erano un pò di anni che la festa si era opacizzata, forse per modernizzarla, forse per cambiarla. E invece stasera c’è tutta, proprio tutta la declinazione della festa di paese: le luminarie colorate, le bancarelle (di extracomunitari, beh, almeno questo) che vendono cianfrusaglie di ogni genere, i banchetti che vendono palloni, girandole, animaletti a pila e a molla per i bambini; un lungo bancone in piazza presidiato da molti giovani allegri, i “portatori del Santo”, tutti con la stessa maglietta, che offrono per una modica offerta pane, salsiccia, pecorino, vino rosso. E la gente, tanta: in piazza ci si accalca, si balla l’uno sui calcagni dell’altro, senza che nessuno se la prenda. Bambini sulle spalle dei genitori per vedere meglio il palco. Carabinieri baffuti e bonari che sorvegliano la baraonda.

Sono tornata a casa a notte fonda, le orecchie fischianti e intronate dalle megacasse che sparavano a milioni di decibel le tammorre e i cupa-cupa, le gambe molli dalle tarante ballate insieme a tutta la piazza.

Tutta nostra, la festa, per una volta.

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(*) Meglio fosse morto mio padre, e non l’asino
l’asino trasportava legna, mio padre no

(**) Rosina, se Dio vuole, oh Rosina, se Dio vuole,
l’anno prossimo ci sposeremo
e mangeremo mostacciuoli
(dolcetti tipici del matrimoni contadini lucani)

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