L’Eredità / 1 – (di venerdì 17) –

Essere chiamati a sostenere un provino per partecipare al noto quiz a premi televisivo, 5 (e dico cinque) anni dopo aver, in un momento di scazzo, mandato una mail per chiedere di partecipare, può solo voler dire che stanno veramente raschiando il fondo del barile dei possibili concorrenti e quindi insieme a me avranno chiamato l’Uomo Salsiccia e la Donna con Tre Capezzoli.

Ad ogni modo, chi sono io per negarmi il piacere di curiosare un pò nel dorato mondo della TV? E quindi eccomi in partenza per Roma alle ore 5:10 del mattino, di Venerdì 17. Ricordate la data, perchè ci tornerà utile, in seguito.

Come pure vorrei provare a non farvi dimenticare lo sciopero nazionale totale assoluto di qualunque mezzo di trasporto pubblico su ruote, rotelle, pattini e pedali. Il primo tassista a cui mi rivolgo, fermo al parcheggio, si rifiuta di portarmi, adducendo la strepitosa motivazione che c’è troppo casino e lui è già stressato.

Il secondo è più ragionevole. Digita sul navigatore satellitare la via dell’albergo dove si svolge il casting (“provino” lo dicono solo gli sfigati, sappiatelo) e parte. Dopo circa 35 minuti sotto una pioggia via via sempre più battente e il panorama che si fa inquietantemente sempre più periferico, il tassista svolta trionfalmente in un viottolo di campagna, nel quale ci sono solo un’enorme pozzanghera, fango, una baracca di lamiera. Potrebbe volermi violentare, invece si mortifica, e da quel bravo ragazzo che è, comincia a telefonare a  chiunque per venire a capo del mistero. Che consiste in questo: a Roma esistono DUE strade con lo stesso nome, una è privata (il viottolo di cui sopra), una è una comoda larga abitata strada in periferia sì, ma non nella fanga & lamiera da film dell’orrore come quella dove siamo finiti noi. Il motivo per il quale il navigatore satellitare ne porta una sola, e sia quella SBAGLIATA, non è dato sapere. Comunque alla fine il bravo giovine mi porta a destinazione, dopo aver perfino fermato il tassametro ed essersi scusato in tutte le lingue.

La procedura a cui vengo sottoposta una volta entrata nella sala della “redazione” si può riassumere nelle parole “gentile tritacarne”. Un folto numero di ragazzini intorno ai trent’anni, che fanno questo da anni, a giudicare dalla velocità,  chiedono, smistano, fanno firmare liberatorie, fanno rifirmare, spiegano – con lo stesso tono a cantilena delle hostess quando ti fanno vedere come si allaccia il giubbotto salvagente – alla fine ti mettono in mano un foglio con un test di “cultura generale” e ti scaraventano in un’auletta con sedie e ribaltine.

Ho modo finalmente di sfoggiare il mio sterminato inutilissimo nozionismo: vogliono sapere giorno mese e anno della presa della Bastiglia, a quale stato appartiene la Groenlandia, in quale regione vivono i lucani (beh, questo è culo), a quale sport di riferisce il Torneo Sei Nazioni, in quale continente non si sono mai svolte Olimpiadi, cose così. Una volta consegnato, ciondoliamo un pò fuori dalla sala. L’umanità è varia: ragazzine con minigonna, facce da idraulico, da impiegato postale, maschi col gel, femmine con scollature. Molti sopra le righe, che fanno battute allo staff del casting per fare i simpatici. Quelli ridacchiano come dementi ma si capisce benissimo che è per contratto, in realtà hanno già dimenticato tutto appena smettono di ridere. Mi colpiscono due persone anziane, lui ha di sicuro più di 80 anni, mi chiedo perchè siano lì, senza riuscire ad articolarmi una risposta.

Poi i giovinotti ci chiamano a gruppi ad un colloquio. Danno a tutti del tu e chiamano tutti per nome di battesimo, compresi i nonni. Il colloquio consiste in questo: un’altra giovinotta con videocamera turistica mi fa domande e intanto mi riprende, seduta, in piedi, di lato. Quando sto cominciando a divertirmi il colloquio finisce, con la signorina che fa la faccia incredula quando le spiego che lavoro con un collega che ho conosciuto al liceo. “Ma ddai! Ma davero!” esala. Vorrei spiegarle che la città è piccola e non è poi così assurdo, ma già è entrato il pezzo di carne successivo.
Ok, finito, me ne posso andare. Novanta minuti scarsi, di cui settanta di ciondolamento.

Il bello, però, topolini all’ascolto, deve ancora venire.

Mi dirigo nel piazzale pullman di Roma Tiburtina, per tornare a casa. La situazione di partenza è veramente molto simile a una che descrissi già tempo fa, pur se quella era in altro contesto ambientale. Accanto a me, un uomo più o meno della mia età, in giacca e cravatta, che mi rivolge la parola come se mi conoscesse. Fa battute sul ritardo del pullman, come se mi conoscesse. Mi si siede di fronte, come se mi conoscesse.
Ora.
O mi conosce davvero, ma il cielo mi fulmini se so chi è, o è un tacchinaggio particolarmente disinvolto. Mi fissa, apertamente, mentre fa finta di leggere Topolino. Avete capito bene, Topolino. Comincio ad avere paura.
Seduta affianco a me, celeberrima magistratessa spedita nella capitale per impedirle di nuocere, o almeno così si legge negli atti. Non per questo tacerà, durante il viaggio, e anzi talvolta farà anche considerazioni apertamente moralistiche e politiche, che io al posto suo mi sarei evitata. Ma vabbè.

Partiamo.

Siamo appena usciti da Roma che il traffico è fermo: mega incidente con ribaltamenti di TIR e smoccolamenti vari di tutti. Per fortuna la stazione di servizio è vicina, ci approdiamo e possiamo almeno prendere un caffè, e fare la pipì. Il tacchinatore risale nel pullman con una bambola tipo Barbie, ben avvolta nel suo guscio di plastica. Mi guarda e – sempre come se ci conoscessimo da tempo – mi chiede: “Che dici, andrà bene?”
“Se è per te, no” rispondo io “ti serviva più grande. Magari gonfiabile”. Il tacchinatore diventa purpureo, la magistratessa ridacchia senza ritegno.

Viene sbloccata l’autostrada. Si riparte, abbiamo perso un’ora. Stiamo quasi tutti dormendo, quando dal fondo del pullmann si levano le voci inconfondibili di un alterco serio. Motivo: una ragazzina si è alzata dal suo posto lasciando sul sedile l’I-pod, quando è tornata ha trovato solo le cuffiette. L’I-pod è sparito, e lei accusa il suo vicino, un bue grasso che si difende, con pochissima convinzione, in verità. I passeggeri si dividono subito in innocentisti e colpevolisti, si apre un regolare tribunale, con arringhe a difesa e di accusa. Nessuno però ha il coraggio di chiedere al bue di svuotare le tasche.
Vedo gli occhi della magistratessa avere un lampo e percepisco con chiarezza che si proporrebbe volentieri per interrogare professionalmente il bue, che alla fine fa la cosa più stupida del mondo: approfittando del buio, e del fatto che la ragazzina si è allontanata per ottenere una torcia dagli autisti, rimette l’ I-Pod dov’era, sperando di far passare la ragazzina per imbecille e sè stesso per vittima. Non ci crede nessuno: gli innocentisti tacciono, i colpevolisti esultano. Il bue spera solo che arrivi presto la meta, e si mimetizza con il sedile per il resto del viaggio.

Rimane solo il tempo per un incidente sfiorato per un pelo con un automobilista che si è infilato contromano in una strada cittadina, e anche il difficile viaggio, il mio casting in TV e ‘sto Venerdì 17 possono considerarsi conclusi.

Update: il tacchinatore si rivela alla fine essere un compagno di liceo di mia cugina, che si ricordava di me, e ci  ha tenuto a farmi sapere che è separato con un una bambina piccola (da qui il Topolino e la simil Barbie). E quindi che non è pazzo, ho pensato io, cosa che forse si era letta con troppa insistenza nel mio sguardo. Non che la rivelazione mi abbia fatto accendere chissà che lampadina, io a stento mi ricordo i miei, di compagni di scuola, figuriamoci quelli di mia cugina.