Ho passato una bella serata, ieri.
Mi sono offerta – non so quanto consapevolmente – di raccontare la mia storia di stalking ad un uditorio misto, persone molto conosciute, altre molto meno.
L’ho letta, dopo aver passato tre giorni a rimettere insieme gli appunti sparsi in tutti questi anni di spurgo.
Non mi ricordo molto bene come è andata, tranne che cercavo di dominare il tremito delle mani mentre abbassavo il volume delle casse che avevano fatto andare qualche battuta di quel pezzo che odio, e le facce sgomente, i corpi immobili e gli occhi lucidi degli astanti, psicologa compresa. Nessuno osava muoversi, mentre sciorinavo il rosario della mia sofferenza, e i motivi per i quali penso ancora che un pezzo non piccolo del guasto fosse dentro di me, che sono stata in modo impercettibile ma decisivo carnefice di me stessa. E di come alla fine quello che ha prevalso è stato l’istinto primitivo di sopravvivenza, quello sepolto nell’amigdala, la lotta disperata del topo per sgusciare fuori dalla saettella che si riempie d’acqua, non il ragionamento razionale dell’homo sapiens.
Mi ricordo bene però alcuni abbracci stretti, dopo, diversi, di gente che sa tutto di me eppure non mi aveva mai abbracciato così. E i molti complimenti per lo stile della scrittura, che aveva reso bene, credo, quella lotta disperata.
Mi devo decidere a pubblicarlo, quel racconto.
Colonna sonora gentilmente offerta da Mariella Nava.