Per almeno due anni papà mi ha chiesto, soprattutto nei fine settimana ma non solo, di andare a fare giri in macchina. Di guidare non se la sentiva più, guidavo io e lui affianco. In silenzio, andavamo su e giù per le nostre strade preferite. Il silenzio non mi pesava affatto, ma ogni tanto lo rompevo per fare domande. In che epoca è stato costruito questo quartiere? E prima com’era? Cosa c’era al posto di via Mazzini? Mi racconti di nuovo la storia di quella che scappò all’estero con il grande amore della sua vita, e non tornò più? Era bella?Le risposte con mia sopresa non erano laconiche, nello stile di mio padre. Erano racconti. Erano favole della buonanotte. Erano forse il suo addio alla sua sua città, alle sue strade, alle persone che aveva conosciuto, alla vita che aveva fatto. Sei mesi prima di andarsene smise di uscire di casa, si reggeva in piedi a fatica e si vergognava del catetere, anche se avevamo trovato il modo di nasconderlo – non senza incidenti, che pesarono in modo definitivo sulla sua decisione di non uscire più.
“Torniamo a casa, idu'”. C’era sempre una punta di tristezza in queste tre parole. Non avevo bisogno di chiedere. La casa alla quale tornavamo era vuota, vuota soprattutto per lui che lasciavo in piazzetta mentre io andavo a parcheggiare in garage, per non costringerlo a fare una rampa di scale che non ce la faceva più a fare se non con enorme fatica. Entrava quindi a casa prima di me, aprendo con le chiavi e trovando solo il buio e il silenzio.
Lo stesso che trovo io ora, tornando nella stessa casa. Non ci si abitua se non con grande fatica, e quella punta di tristezza ora l’ho ereditata io. Stasera ho fatto un giro in macchina come lo facevo con lui, e per un attimo, fugace e prezioso, mi è sembrato di sentire la sua voce che raccontava la storia del pallone di cuoio arrivato dall’America. Mi manchi, papà.