Sono cose

“Sappi che se ti buttano fuori, da lì, io sono contento, perchè torneresti a lavorare con me. Contrattiamo stipendio e benefit e io ti assumo domani”.
Queste sono le telefonate che illuminano la giornata.

La colonna sonora di oggi, con cartone animato e

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banalità di musica e testo che illustrano perfettamente la felice regressione infantile di stamattina (riassumo: sono felice come una lattante) è offerta dai mai compianti abbastanza Fab Four.

Pure il Kapo lo sa

Il mio ex capo col quale collaboro ancora saltuariamente si è tenuto a debita distanza in queste ultime settimane. Ieri mi ha cercato sull’interno e dopo i convenevoli lavorativi di rito mi ha chiesto come stavo. Male, ho risposto io. Vedrai che ti passa, ha risposto lui. Mi è venuto da ridere e l’ho accusato di far prevalere l’imprenditore sul simil padre che è stato in questi ultimi 5 anni, e di essere ben felice che io non abbia più in progetto di andarmene. Lui mi ha giurato che non era così, e mi ha detto che se gli consegno in tempo un certo lavoro mi invita a cena per espormi la sua teoria su quanto è accaduto [l’evento avrebbe del miracoloso, visto che di solito fa finta di non avere spiccioli per non pagare il caffè, N.d.A.]. Gli ho risposto che andava bene, purchè mi promettesse che nel corso della serata avrebbe evitato accuratamente l’espressione “Te l’avevo detto io” e tutti i possibili sinonimi e succedanei. Ha promesso.

Gliel’ho detto

Ieri sera non ce l’ho fatta. Lui è stato impegnato tutta la giornata, a me mi è venuta una botta di timidezza e, diciamolo pure, di tristezza. Lui pareva così mogio e così ben disposto nei miei confronti che mi sono sentita Giuda prima del bacio. Mi convinco che lo sa già, e che il mio ritardo nel comunicarglielo sia per lui motivo di dispiacere. Ci ho dormito su, ma stamattina non ho più scuse.

Quando lui arriva, io sono arrivata da dieci minuti. Senza darmi il tempo di pensare, se no addio, lo blocco.

“Dottore, devo parlarle un attimo”.  Lo seguo lungo tutto il corridoio dalla mia stanza alla sua. Il Miglio Verde.

“Cose belle o cose brutte?” esordisce lui ancora prima di sedersi

“Dipende da che parte si guardano”. Vigliacca. Si siede e mi incoraggia a parlare con un gesto della testa.

Abbiamo un problema”. Silenzio. Mette a posto carte, meccanicamente. Mi guarda dritto negli occhi. Mi sento Gulliver nella fase minima.

“L’anno scorso ho partecipato ad una selezione alla Regione per esperti di valutazione e monitoraggio di Programmi Operativi Regionali”.

“E allora?” Lo sapevo, fa finta di non capire. Fetente.

“E allora mi sono utilmente collocata in graduatoria” Oh mamma, e da dove è uscita ‘sta frase da burocrate? Arrossisco, e mi correggo rapidamente:

“Insomma, ce l’ho fatta” prima che mi manchi definitivamente il respiro sotto il suo sguardo indagatore, e prima che possa dire un altro “E allora?” che già gli vedo formarsi in gola, precipito il resto della frase:

“E quindi vorrei modificare i nostri accordi contrattuali in modo da consentire a me di fare quest’esperienza nella pubblica amministrazione e a alla XY Spa di non rimanere di culo per terra, mi scusi la franchezza. So di non essere indispensabile, ma in questo momento il lavoro che sto facendo qui mi piace, e non è mia intenzione andarmene definitivamente. Possiamo trovare un accordo diverso etc. etc. etc.” Mi fermo, senza fiato.

Lui prende la fida stilografica e svita il cappuccio. Buon segno, vuol dire che si predispone a scrivere e quindi che sta riordinando le idee. Fa sempre così quando è messo di fronte ad un problema. Apre un blocco, e schematizza, con inchiostro blu MontBlanc. Mi dice un sacco di belle cose. Che gli dispiace, certo, ma è ben contento ed orgoglioso di me, per questo risultato. Che i nostri rapporti futuri dipendono da me, dai miei progetti di vita, da quello che voglio fare. Che devo essere io a studiare la situazione alla Regione e a proporre a lui il tipo di accordo che dobbiamo raggiungere. Mi dà consigli. Alla fine vorrei abbracciarlo, se la sua rudezza contadina non me lo impedisse.

Insomma, alla fine gliel’ho detto, al Kapo. E mi sento come se fossi dimagrita di dieci chili (vabbè, magari, questo non è successo, purtroppo, ma insomma mi sento più leggera). Un grande Kapo, davvero.

Come glielo dico?

Sono giorni che giro intorno alla stanza del Capo cercando il modo migliore per dirglielo.

La notizia non è ancora ufficialmente stampata sopra un Bollettino Ufficiale, però è sicura: ho vinto una selezione per la Regione, cercavano 11 esperti di fondi strutturali e Piani Operativi Regionali e io sono la 6° in graduatoria (a proposito, grazie Saya ).

Ora.
Ci sono stati giorni nei quali avrei volentieri impalato il mio capo al tronco del ficus benjamin della sua stanza. Ci sono stati innumerevoli cazziatoni, solo il 20% dei quali giustificati. Ci sono state palesi distrazioni di incarichi e anche premi in denaro a favore dei due rampolli, una dei quali assolutamente incapace. C’è stata una micragneria senza precedenti rispetto non solo ad eventuali premi di produzione – mai avuti – ma anche rispetto al pagamento degli stipendi, sempre uguali nell’importo (bassissimo) ma variabilissimi nella date di erogazione.

Però c’è stata anche una inespressa ma palese stima nei miei confronti, intere serate passate a pianificare strategie, fare e rifare conti, impostare battaglie professionali. Ci sono state chiacchierate personali, consigli umani, atteggiamenti paterni. Ci sonpo stati viaggi di lavoro, in auto, in treno, in traghetto, densi di discussioni sui massimi sistemi, sulla vita e sulla morte, sulla famiglia e sulle coincidenze. Ci sono stati occhi chiusi di fronte ad assenze, permessi, orari strani, libertà varie. C’è stata, soprattutto, una crescita professionale della sottoscritta senza precedenti, la possibilità di capire, esserci, partecipare, assimilare, crearsi una fitta rete di contatti.

Come glielo dico, adesso, che me ne vado?

Aggiornamenti

1. Squilla il telefono, la mia collega risponde, si allunga per prendere un documento e l’apparecchio telefonico si suicida spettacolarmente (suicidio istigato, per la verità). Succede ogni giorno, ma oggi deve avere battuto la testa (l’apparecchio, non la collega) perchè entra in coma vigile e non funziona più. I tentativi di aggiustarlo trasformano le nostre scrivanie in banchi della Scuola Radio Elettra. Alla fine, con una tecnica di intervento tipicamente femminile (ne abbiamo smontato un altro funzionante e abbiamo visto in che ordine stavano i pezzetti colorati) il nostro apparecchio si riprende. Mi pare funzioni meglio di prima 🙂

2. il G.C. ha sbollito l’arrabbiatura, anche grazie ad un paio di buone notizie giunte nel frattempo, e si è reso conto della vergognosa crisi isterica da cui si è fatto prendere il giorno 7 Gennaio. Ora striscia circospetto nei corridoi in cerca di sguardi amichevoli, ha preso la prima della valanga di carte posate sulla sua scrivania, in ottemepranza ai suoi ordini, e ha potuto appena mormorare “Non so se questa possiamo spedirla, mi sembra un attacco diretto al Direttore Didattico del Master…” prima di finire sepolto da un provvidenziale cedimento strutturale della suddetta pila di carte. Lo faremo cuocere nel suo brodo ancora un pò, prima di perdonarlo.  “Mai sottovalutare la capacità delle donne di farti schiattare in corpo” diceva memorabilmente una mia amica ..

3. ho ricominciato a studiare, avevo due appelli (anzi tre) fra il 7 e l’8 Gennaio ma voleva dire studiare nelle vacanze di Natale e ci mancava solo questa. Ho incontrato una matricola attempata come la sottoscritta a lezione di Inglese – ci riconosciamo e facciamo gruppo, come i fuorisede calabresi a Roma – che mi ha chiesto se avevo dato l’esame X.
No, ho risposto.
E l’esame Y?
Nemmeno, ho continuato.
Ehi, ma insomma! Ti stai un pò lasciando andare!! 
Come diceva Luciana Littizetto, “Trenitalia informa i signori passeggeri che a Courmayer funziona una seggiovia che porta direttamente aff*****”

Verbale di riunione

Il giorno 7 del mese di Gennaio dell’anno 2004 alle ore 10:30 si apre la riunione periodica del personale della XY Spa. Sono presenti i signori: Grande Capo, Figlia del Grande Capo, Architetto, Buddista, Segretaria e Lavoratrice (a)tipica. Punto unico all’o.d.g.: cazziatone periodico che il Grande Capo deve fare, con grande spreco di voce e di coronarie, ai suoi aff.mi dipendenti se no non stanno abbastanza sulla corda. Apre la riunione per l’appunto il G.C., che inizia chiedendo con voce flautata a ciascuno dei presenti se sono stati elaborati un centinaio di documenti, il 98% dei quali assolutamente inutili. Alle risposte negative – corredate di debite ancorchè superflue spiegazioni – di tutti i presenti, il G.C. alza la voce di un’ottava e comincia una lunga filippica che si può riassumere come segue:
1. sono stufo di lavorare per mantenervi
2. siete dei mangiapane a tradimento che pensano solo ai fatti propri
3. se questo progetto non pensiamo noi a gestirlo non ci penserà nessuno, quindi è inutile dire “lo sta facendo l’altro partner”
4. siete solo capaci di inventarvi scuse per non lavorare
5. NON SONO STATO IO a dire di non fare questo, di non scrivere quello, di lasciar perdere quell’altro
6. sono stufo di lavorare per mantenervi

(così il cerchio si chiude)
Qualunque tentativo di interruzione per giustificarsi, controbattere, argomentare, negare, ha come unico effetto l’innalzamento di voce di ottave successive, fino a che anche il parrucchiere che lavora sullo stesso piano del nostro ufficio si affaccia per vedere che succede. Ormai il G.C. è paonazzo, l’ossigeno non arriva più al cervello e quindi partono le più efferate minacce, compresa quella di licenziamento in tronco senza liquidazione e quella di citazione per danni.
La riunione – diciamo così – prosegue in un imbarazzato silenzio, nella consapevolezza della inutilità di infierire su un arteriosclerotico, silenzio rotto solo dall’ansimare del G.C. che tenta di ridarsi un tono, e dalle controdeduzioni isteriche – con annesso tremito nella voce – della Figlia del Capo, l’unica nei confronti della quale tutte le accuse e le minacce sono giustificate, visto che è presente in ufficio il 40% delle ore dedotte in contratto, adducendo motivazioni le più fantasiose, tutte legate ad un incolpevole infante che starebbe benissimo anche senza senza la mamma, però è pagata per il 100%, e anche in quel 40% non fa un cazzo.
Non essendovi altro da discutere, la riunione si chiude alle ore 13:40.

Perchè lavorare ad Agosto?

Non è tanto umano, diciamo la verità. E poi è Sabato, e fuori si sta d’incanto, aria frizzante a ricordarti le bufere notturne e solicello tiepido a ricordarti che tutto sommato è ancora estate. E pensare che quando ero piccola questo era già il secondo giorno di mare, avevo già fatto amicizia coi bambini delle villette/bungalow/tende vicine e di sicuro mi ero già ustionata nonostante i chili di Coppertone che mia mamma mi spalmava con la pala ed ero già costretta a fare il bagno con la maglietta. Invece l’ufficio dentro è sempre uguale, del tutto impermeabile alle stagioni se non fosse per i già noti fatti relativi alla temperatura aziendale.

Ci siamo solo io, l’Architetto (rimasto solo dopo che moglie e figlie sono partite per il mare) e il Capo, che fosse per lui lavorerebbe anche la notte di Natale, tagliando a mezzanotte un panettone col tagliacarte. Ha provato a farsi il caffè da solo, stamattina, per dare prova di non dipendere poi totalmente dalle sue impiegate/figlie, e nell’ordine:

1. ha ignorato la spia gialla lampeggiante che comunica al mondo che la macchinetta del caffè, come la maggior parte degli esseri viventi, ha bisogno di bere con regolarità;

2. ha infilato la cialdina e spinto l’apposito sportellino-levetta, e non è successo niente. Ovvio. Senz’acqua, la umile ma intelligente macchinetta si blocca, dal momento che l’acqua è guarda caso una delle due indispensabili materie prime necessarie a fare un caffè;

3. ha messo l’acqua brontolando e cominciando a lanciarmi sguardi imploranti;

4. la cialdina, però era ormai stata inghiottita. Recuperarla con mezzi meccanici (tagliacarte, unghie, righelli et similia) può avere due soli risultati certi, e cioè frantumarsi uno o più falangi e scassare uno o più attrezzi di cancelleria, oltre alla macchinetta, ovviamente. Esiste un modo per il recupero, e la mia fronte portava la scritta IO LO SO MA NON TE LO DICO mentre l’implorazione era diventata vocale, con totale perdita della dignità.

Sospirando, della serie “questi uomini non sanno fare nulla ed in più se sono Capi questo interferisce anche sulla loro credibilità professionale” ho provveduto alla realizzazione del miracolo (basta spingere con una seconda cialdina, anche usata, e la prima cadrà nell’apposito cassettino, e potrà essere recuperata) e ho fatto il caffè.

L’ingrato si è lamentato che faceva schifo lo stesso, ma è stato solo per recuperare la suddetta dignità.

Vi bacio, non vi divertite troppo.