Una settimana da donne

Vado con Enrica a prendere un caffè alla solita macchinetta. Alla fotocopiatrice poco distante una collega fotocopia forsennatamente un plico di una certa consistenza. La collega in questione ha un sorriso gentile, e a parlarle dà sempre la sensazione che consideri gli elfi, le fate e Babbo Natale come interlocutori verosimili. Saluta Enrica dicendole “ciao, Renata” e fra il 2004 e il 2007 chiese a me e Stelvio i nostri nomi circa una volta a settimana, ogni volta che ci incontrava nei corridoi.

Ci chiede se abbiamo avuto la nostra copia del plico che sta riproducendo a ritmo industriale. Ce ne passa uno e ci rendiamo conto con orrore che si tratta di una pubblicazione il cui ricavo da vendite serve a sostenere una associazione per i diritti delle donne e tutte le campagne ad essa collegate. Mentre lei ci spiega con grande convinzione come quel libro costi veramente troppo, a volerlo comprare, e quindi di come lei ritenga suo preciso dovere farne copie, e per tutte le colleghe, perchè “è un libro bellissimo”, e ci illustra come pensa di fare copie anche del dvd collegato al libro, io realizzo che chi parla con le fate non è sempre innocuo, e può essere del tutto impermeabile al concetto di “morale”.

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Giovedì scorso sono andata a cena con un’amica che non vedevo da 35 anni, e precisamente dall’ultimo giorno delle scuole elementari. Il che ha del misterioso, se si pensa che ambedue abbiamo continuato a vivere più o meno nella stessa città, che non è Nuova Delhi, quanto ad ampiezza e densità di popolazione. Ambedue siamo rimaste pressochè identiche a come eravamo, nei lineamenti. I 35 anni ci hanno stirato facendoci pieghe disposte in maniera leggermente diversa, ma sempre pieghe sono, non ce ne siamo fatte sopraffare, e ne siamo state contente, come quando la maestra ci chiedeva le tabelline a raffica e a raffica rispondevamo. C’è stato – e c’è ancora, credo – un che di straniante, nel parlare di due donne dopo il parlare delle due bambine che eravamo: un fosso enorme, 35 anni, che ha richiesto un paio di bicchieri di Aglianico, per essere saltato. Alla fine, solo due signore di

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45 anni, che si prendevano gioco del cameriere, con una confidenza ed una intimità difficili da spiegare agli amici. E’ stato bello, vi dirò.

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Se non ora, quando? ADESSO!!!
C’ero anche io, il 13 Febbraio 2011, a gridarlo in piazza.
Ho notato tre cose, e spero non si arrabbi nessuno.

1. una età media della piazza molto alta: è l’eta media della città, o forse le ragazze se ne sono fregate, non siamo riuscite a spiegare loro quanto era importante. Un fosso, pure questo, scavato proprio dalla mia generazione, temo, e di cui mi sento colpevole.
2. la presenza di uomini in numero pari o forse addirittura superiore a quello delle donne. Come leggere questo dato? Solidarietà? Vittoria? Accodamento? Controllo (“andiamo a vedere, ancora la manfestazione degenera in rissa sessista“)? Casualità? Sostanziale menefreghismo delle donne, oltre che delle donne giovani?
3. devo propendere per l’ultima ipotesi, purtroppo, se racconto che l’organizzazione, nel tentativo di non imporre nulla a nessuno e forse di rivangare fasti di metà anni ’70, non aveva predisposto un palco, ma solo un furgoncino con gli amplificatori sul tetto e un microfono. La piazza stretta e lunga consentiva solo a quelli in primissima fila di sentire le poesie, le canzoni, gli slogan, le letture di Susana Chavez, Alda Merini, Elsa Morante, preghiere di suore e pensieri di studentesse. Due metri, tre metri, quattro, cinque metri più dietro il chiacchiericcio aveva il sopravvento, ciao come

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stai, anche tu qui, il lavoro, la scuola, è un sacco che non ti vedo e così via. Una piazza sempre più disinteressata quanto più si andava indietro, una bella metafora ma anche, purtroppo, la realtà. C’era, in sostanza, gente che passava per la via dello struscio, vedeva l’assembramento e si fermava con lo spirito del “toh, andiamo a vedere che succede”.
Meglio di niente, ma poco più che niente, però.