Pensieri del giorno

Pensiero n. 1
Sulla mia scrivania si accumulano lentamente ma inesorabilmente progetti provenienti dai soggetti più disparati, tutte con una sola richiesta: dateci qualche milioncino di euro, e faremo di quell’angolo remoto di regione un Centro! Di! Formazione! coi controcazzi che non ce ne sarà più per nessuno. Se dovessimo esaudire le richieste di tutti, saremmo l’unica regione nella quale i posti aula sarebbero di più della popolazione residente, compresi lattanti e moribondi allettati. A me tocca quasi sempre lo sgradito compito di:
a. leggermi i progetti suddetti, facendomi scendere lo scendibile con le terminologie fantasiose (mai che le cose vengano chiamate con lo stesso nome, o con un nome corrente in italiano, in due progetti diversi)
b. trovare l’errore, cioè capire dove i tecnicissimi manaGGers che hanno redatto il progetto hanno esagerato con le richieste
c. dichiarare che si, il progetto è molto interessante, ma solo se lo fate costare 10 volte di meno, o se lo facciamo in un prossimo futuro, magari nel 2030.

Talvolta anche leggerli è faticoso, o noioso, nella maggior parte dei casi, in casi estremi irritante. Sono paper nei quali è possibile trovare un indice così strutturato:
2.4 – IDEAS FACTORY
2.4.1. Building & Planning
2.4.2 Developing & Testing
2.4.3. Modelling & Launching

😐

Per questo si accumulano. Perchè apro la prima pagina, leggo un indice così composto, e la richiudo subito.

Pensiero n. 2
Non sono soddisfatta del menù per la sera della Vigilia di Natale. Si prospettano paccheri col pescespada, orata e gamberoni al forno, patate novelle, cassata, mandarinello fatto con le mie manine sante. Tutto buono, ma volevo un colpo d’ala, non so, per esempio un raviolo con la crema di noci. Non so perchè questo piatto, che non appartiene nella maniera più assoluta alla tradizione di famiglia, che non ha la componente di pesce minima necessaria a farla dichiarare “piatto di Natale”, mi si è piantato in testa. Perfino le ricette che ho trovato in rete non mi ispirano più di tanto, ma sento che se non lo faccio Natale non sarà Natale, ecco.

E poi, non so, uno sformato di salmone e zucca con aceto balsamico, un carpaccio di qualcosa,  un trionfo di sconcigli su letto di ceci al Campari, insomma una cosa sicuramente vomitevole ma almeno che facesse impressione, quando mi chiederanno “e a Natale che mangiate?”  invece niente. Sono depressa. Se trovo il pecorino fresco faccio le seadas sarde.

Pensiero n. 3
E’ tempo di auguri. Anche e soprattutto istituzionali. Ognuno immancabilmente accompagnato da buffet rustico e dolce e da prosecco per i brindisi. Fra gli auguri delle sfere altissime e quelli della sfere medio alte, sono tre giorni che vaghiamo per le stanze tutti leggermente alticci, che il prosecco a diguno fa questo effetto, pare. Lo stato di leggera ebbrezza ha provocato ilarità  incontrollata, o inizio di risse e strascini sedate dall’intervento della vigilanza. Non un bello spettacolo per l’utenza che ogni tanto gira per i nostri corridoi, nono.

Colonna sonora offerta da quella meravigliosa donna di Annie Lennox. E’ un palese plagio, mi dicono, ma pace, io l’adoro lo stesso.

Non voglio crescere più

Oggi è una giornata così, con le pezze colorate al culo e i piedi nudi.
Una giornata che si ride delle difficoltà, una giornata che si dice la verità, una giornata che  ce la spassiamo in città.

Come ieri sera: tre belle distinte signore sulla quarantina che mangiano la pizza, viste da fuori. Tre ragazzine di 15 anni, viste da dentro, che si rubano le patatine dal piatto, ridono fino alle lacrime di stronzate, come fra i banchi di scuola, e nel frattempo aggiornano un romanzo infinito di gioie e piccoli dolori, di dettagli di vite conosciute così a fondo che se ne potrebbero raccontare a vicenda l’una quella delle altre.

E’ impossibile separare le tre signore da quelle ragazzine che tornavano a casa col motorino cantando a squarciagola e ridendo, in giornate di autunno iniziate con la nebbia e finite con il sole splendente e terso di Ottobre. Una sorta di anossia dovuta alle grandi aule blindate tutta la giornata, allo sforzo di capire e partecipare (all’epoca non era un delitto, stare attente in classe) ci rendevano euforiche e predisposte alla ridarella, quando poi uscivamo all’aria aperta e il cervello si inondava di ossigeno.  Una selvaggia voglia di vivere, che non è calata di un millimetro.

Colonna sonora di oggi offerta da Fiorella Mannoia & Enrico Ruggeri.

 

Una cena al buio

Trenta persone, divise in gruppi, vengono accompagnate ai tavoli attraverso corridoi sempre più bui, tenendo le mani l’uno sulle spalle dell’altro, come i sette nani. La cena è servita da camerieri ciechi o ipovedenti, nel buio più assoluto, lasciando spazio a sensi diversi dalla vista.

La percezione dello spazio è diversa, il lontano sembra vicino e ci soffoca, il vicino sembra lontano e irraggiungibile. Sembra fare più caldo di quello che è veramente.

Io adoro il buio totale. Accoccolata come in un utero nel buio vellutato, ascolto distratta i discorsi dei vicini di tavolo, tanto non li vedo in faccia, posso guardare altrove, fare smorfie, appoggiarmi con la testa sullo schienale della sedia e cedere per qualche minuto al sonno.

Il cervello regredisce ad uno stadio selvaggio ed infantile, nel quale è lecito usare le mani per mangiare, per capire cosa hai nel piatto, dopo aver annusato, come un uomo di Neanderthal. Riscopro il gusto di leccarmi le dita, e mi chiedo come facciano i ciechi a contemperare la necessità di sapere cosa hanno nel piatto, usando gli stessi mezzi miei, con la buona educazione.

Uso olfatto, tatto e e gusto per capire cosa sto mangiando, e ho alcune clamorose defaillances. Devo avere un problema che riguarda gli agrumi, perchè scambio le fragole nel risotto per arancia, e davanti al piatto con frutta a pezzettoni riconosco senza problemi l’anguria, il

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melone, il kiwi, ma di fronte alla fettina di arancia il mio cervello mi dice che conosco quella roba un pò stopposa che sto mangiando, ma non me ne suggerisce il nome. Penso di avere riempito il bicchiere e invece ho messo due dita di vino, la volta dopo penso di aver messo due dita di vino e invece l’ho fatto quasi traboccare. I sensi ingannano, se non li si

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ascolta concentrati. Speck o pancetta affumicata? fragole o arancia? maionese o philadelphia? vicino o lontano? spazio grande o concentrato?

Quando si riaccendono le luci, dopo un countdown stile Capodanno, tutti tengono le mani sugli occhi per qualche minuto, è un trauma come nascere, come essere tirati fuori dall’utero, nella cruda fredda luce invece del morbido caldo buio protettivo, nel quale sei stato, per alcune benedette ore, un feto felice, solitario e selvaggio.

Quando rientro a casa, l’aria della notte profuma di erba tagliata e di rimorso.

Pure il Kapo lo sa

Il mio ex capo col quale collaboro ancora saltuariamente si è tenuto a debita distanza in queste ultime settimane. Ieri mi ha cercato sull’interno e dopo i convenevoli lavorativi di rito mi ha chiesto come stavo. Male, ho risposto io. Vedrai che ti passa, ha risposto lui. Mi è venuto da ridere e l’ho accusato di far prevalere l’imprenditore sul simil padre che è stato in questi ultimi 5 anni, e di essere ben felice che io non abbia più in progetto di andarmene. Lui mi ha giurato che non era così, e mi ha detto che se gli consegno in tempo un certo lavoro mi invita a cena per espormi la sua teoria su quanto è accaduto [l’evento avrebbe del miracoloso, visto che di solito fa finta di non avere spiccioli per non pagare il caffè, N.d.A.]. Gli ho risposto che andava bene, purchè mi promettesse che nel corso della serata avrebbe evitato accuratamente l’espressione “Te l’avevo detto io” e tutti i possibili sinonimi e succedanei. Ha promesso.