Coiffeuse

Dopo l’operazione Egitto (o disboscamento), durante la quale vengo informata dall’estetista di tutti i retroscena della prossima esibizione di Arisa nella sua cittadina natale, in un impeto di cura di me stessa che raramente mi prende, decido che voglio sistemarmi i capelli.

Il posto dove vado da vent’anni circa a farmi sistemare la criniera è denso di umanità, il sabato pomeriggio non è il giorno più adatto, in particolare in primavera quando fioriscono cresime, prime comunioni, prime richieste e matrimoni. Ma io non ho fretta, e anzi mi godo il luogo.

La mia parrucchiera ha il suo salone in una sperduta frazione di un paesino vicino al capoluogo: per arrivarci, occorre sapere con estrema precisione la strada, perchè prendere la traversa sbagliata significa vagare per ore nelle mie campagne: uno spettacolo sempre affascinante, ma non se volete essere a casa per cena, e con i capelli a posto.

Le clienti vengono tutte dai dintorni, o dalla frazioncina, o al più dal paesino; poche (come la sottoscritta) si avventurano dal capoluogo. Ne consegue che c’è declinata tutta la rassegnata vitale saggia umanità contadina delle mie radici. E’ possibile analizzare con precisione il salto generazionale negli usi e nei costumi: le giovanissime hanno un cellulare, scarpe di gomma fluorescente, magliettine strette che lasciano scoperto l’ombelico, si fanno tingere le ciocche di viola. Le loro mamme portano jeans e camice sobrie, gonne al ginocchio, scarpe coi tacchi quadrati. Le nonne hanno informi abiti rigorosamente neri, a più strati, abbottonati fino al collo, coperti da grembiuloni a fiori, scarpe da contadine nere, e sempre – sempre – un fazzolettone di cotone pesante che copre loro i capelli, annodato sotto il mento con un unico grosso nodo. Talvolta hanno un bastone, perchè sono venute a piedi, tagliando per le campagne.  In genere sono tutte sovrappeso, soprattutto le più giovani, perchè l’alimentazione da questa parti è semplice e robusta, e le nonne e le bisnonne hanno visto troppa fame per non provare il desiderio di nutrire le nipoti con le mani, con i bocconi migliori, ogni tre ore, come si fa con i poppanti. E le nipoti, nonostante il cellulare, sanno poco di bilancio energetico, e non zappano più la terra, non attraversano più i campi con le greggi, non si svegliano più all’alba per rigovernare galline e conigli: vanno a scuola con lo scuolabus che le viene a prendere casa per casa, hanno il motorino, vengono accompagnate dai genitori in auto. E quindi ingrassano.

Parlano tutte – compresa la parrucchiera, forbici o phon in mano – una densa lingua che somiglia vagamente all’italiano, ma profondamente impastato con il pesante dialetto locale, incomprensibile se parlato stretto, fitto di dittonghi e di espressioni con etimologie soprendenti: addùc’l’ significa “portalo qui” e viene direttamente dall’adducere latino. Una lingua musicale, anche se non leggera, come la musica delle bande di paese.

La stanza non è molto grande, e la meccanica della comunicazione interna segue sempre lo stesso schema: la titolare della bottega fa un commento, o chiede qualcosa, in genere un’informazione su un parente della cliente in quel momento sotto le sue mani, o di quella appena entrata. La risposta genera altri commenti della parrucchiera, che lentamente, come un sasso buttato nell’acqua, si allargano alle altre astanti, acquistano forma corale, con pareri dati a turno, partendo dalle più giovani ed arrivando, dopo qualche giro, alle più anziane, sedute silenziose in un angolo appoggiate al bastone, con espressioni imperscrutabili, come Sitting Bull sotto la tenda mentre presiede il Consiglio dei Saggi. Sono le stesse anziane contadine che, arrivato il loro turno, si toglieranno il fazzolettone, e si lasceranno tingere le chiome di castani scuri o neri violenti, se li lasceranno tagliare ed acconciare in fogge moderne, perchè la vanità è un diritto che si sono conquistate dopo una vita passata a spezzarsi la schiena nei campi e nelle vigne, e domani s’ battezz’ la criatura, ovvero c’è il battesimo del nipote o del pronipote, e non si deve sfigurare.

Ad una certa ora, nel tardo pomeriggio, sul piazzale esterno si ferma un furgoncino carico di frutta e verdura. La porta si apre e un gigante sui trent’anni, la faccia pulita come un bambino, entra abbassando la testa per non urtare il montante, e saluta garbatamente le presenti. Che sciamano fuori, in qualunque condizione abbiano la testa, per vedere che frutta ha portato l’ambulante, quanto costa, lamentarsi dei prezzi, contrattare, alla fine acquistare.

Quando l’opera di taglio e messa in piega è terminata, in una profumata nuvola di spume lacche e spray lucidanti, si paga e si va via, dopo aver salutato tutte le signore. Che – prima o poi – si reincontreranno, nello stesso luogo, con notizie diverse.

Anche le sciampiste si montano la testa

Prima di Natale ho avuto le geniale pensata – ad una bionda francamente non si può chiedere di più, come dice una mia amica francese – di andare a darmi una ritoccata ai capelli, che mi facevano sembrare lo spaventapasseri del Mago di Oz. Da circa un mese una mia amica mi martellava la salute chiamandomi apposta per incoraggiarmi ad andare da suo figlio, che aveva appena aperto con sfarzo di lustrini e rullo di tamburi un salone di parrucchiere firmato, a sentir lei niente di simile in tutto il centro sud.
Fino ad oggi e oramai da circa 15 anni sono cliente di una simpatica coetanea di campagna, che ha aperto un saloncino nel garage di casa sua in mezzo a ettari di campi coltivati a grano e raggiungibili solo con la jeep; a parte il panorama, il vantaggio della mia fidata coiffeuse è che costa 8 euro per un taglio onesto e duraturo e una messimpiega che si camuffa benissimo come cittadina.
Sfinita dalle insistenze, ho ceduto e un pomeriggio nevoso ho tradito la via vecchia e sono entrata nel megasalone firmato. Prima di poter fare questo, ho dovuto telefonare e contrattare a lungo per un appuntamento, un’ora del prezioso tempo del giovane mago sembrava irraggiungibile come una ecografia alla ASL, e alla fine per generosa concessione (“vabbè, arriveremo un’ora prima”) ho fissato l’appuntamento.
Il megasalone è vuoto. A presidiarlo, un giovanotto coi capelli lunghi e due ragazzine di 27 chili ciascuna.
La prima scoperta già mi suona male: in realtà il figlio della mia amica è il fidanzato della parrucchiera, che è una delle due giovani anoressiche; l’altra è la “responsabile del settore lavaggi”, (?? la sciampista, vorrai dire); lui è il p.r., e infatti non sta zitto un secondo, scassandomi gli zebedei dopo i primi 3 minuti, mi fa vedere il locale, mi fa sedere, mi offre il caffè, mi accende un minuscolo televisore dove sfilano giovani nordiche con i capelli acconciati da un tappezziere ubriaco, mi porge una rivista, mi fa domande, mi rimprovera amorevolmente perchè non ho specificato che volevo i colpi di sole, ma ho parlato di tinta (“eh, eh, la prossima volta, eh, ricordati, colpi di sole”), mi gira intorno, e finalmente si accuccia in un angolo a rispondere a telefono.
La maga del capello, che sembra  aver appena finito di giocare con la Barbie, mi si avvicina e comincia e coprirmi di capelli di una poltiglia bavosa che poi copre con la stagnola. Mi accende un casco rotante e mi lascia lì, con le nordiche in passerella. Il locale intanto continua ad essere drammaticamente vuoto. Lui sembra cogliere il mio sguardo interrogativo e mi rassicura: prendiamo gli appuntamenti uno per volta, per essere sicuri di fare le cose per bene. Mi verrebbe da chiedere come mai allora ci sono circa 20 poltroncine, bastava un loculo monouso, ma ho paura della prolissità della risposta.
La piccola coiffeuse approfitta dell’attesa per criticare con voce flautata i miei colpi di sole precedenti, lodando viscidamente il colore naturale dei miei capelli. Mi spacchetta e mi invia alla responsabile del settore lavaggi, che mi sciampa con essenze al timo giamaicano e mi scamazza il cuoio capelluto mentre il p.r. cerca di convincermi che lei ha studiato la conformazione del cranio umano, ed è per questo che fa massaggi così speciali.
E’ il momento del taglio. La ragazzina mi guarda per alcuni minuti nello specchio, con uno sguardo così assente che temo si stia per sentire male. Invece mi sta studiando. Prende le forbici, e dopo altri 5 minuti di meditazione taglia una ciocchetta di qua, una di là, tre capelli sopra, tre sotto. Poi, spossata dallo sforzo creativo, attacca il phon. Cerco di dirle che sono venuta perchè intendevo anche aggiustare il taglio in modo un pò più deciso, e che se volevo togliermi tre doppie punte sapevo farlo da sola, ma lei mi abbassa la testa con un gesto da boia e inizia ad asciugare. Ho gli occhi e la bocca pieni di capelli, e il p.r. ne approfitta per massacrarmi definitivamente gli zebedei chiedendomi ogni tre secondi “come va”.
Alla fine, ho una faccia diversa, lo ammetto. I capelli mi spiovono sulla faccia, e sono più biondi che mai. Sembro uno scopettone stinto con la candeggina. Mi avvio, poco convinta, alla cassa. Il p.r. sta facendo i conti. 15 euro la messimpiega, 30 il taglio, 15 il trattamento (l’essenza di timo giamaicano, suppongo) e 40 euro i “colpi di luce”. Totale, 100 euro tondi tondi. Impallidisco, e vengo sorretta dalla responsabile del settore lavaggi mentre i suoi complici mi riempiono le tasche di campioncini, legacci per i capelli, biglietti da visita e prezzari (eh già ..)
Maledico mentalmente la mia amica, e riabilito in un solo colpo il mio ginecologo, che almeno per depredarmi i suoi 120 euro ha dovuto prendersi una laurea, una specializzazione e vincere un concorso come primario di un’Azienda Ospedaliera. La stronzetta ha 22 anni, la terza media, e ha fatto un corso a Milano di tre mesi con altre fottute sciampiste come lei. Ha lavorato su di me per 50 minuti, e il prezzo delle materie prime, compreso il volo dalla Giamaica, può essere al massimo di 20 euro, ma è grasso che cola.
Una settimana dopo, mi lavo i capelli a casa, e torno ad essere come per magia lo spaventapasseri del Mago di Oz. Con una differenza: ora sono anche incazzata come una iena