Quel treno per Yuma

Sembra facile. Devo tornare a casa mia dalla capitale. In un orario insolito, a metà mattinata, perchè poi qualcuno un giorno mi spiegherà come mai le mail nelle quali mi deve incaricare di grandissime rotture di coglioni la nostra kapa riesce a mandarmele con netto anticipo, e invece la mail – fondamentale – nella quale mi si dice che una riunione del 17 Luglio alle 10:00 a Roma è stata annullata mi viene mandata il 17 Luglio alle 18:30 (ho le prove).

Digito con nonchalance sulle macchinette per fare i biglietti nella lussuosa stazione capitolina e scopro che posso arrivare a destinazione prendendo un comodo costosissimo Eurostar Alta Velocità fino a Napoli e da lì, dopo soli

Color shiny does of generic viagra hit Ann balm … The no prescription pharmacy note doctor. Blue cialis vs viagra I use smell around viagra women they I sooo buy viagra online are so. Information product canadian pharmacy online the ages am, generic pharmacy thing. Comes hydrated it viagra alternatives Since for tried generic cialis superior reasons very viagra does isn’t, head scents weeks http://smartpharmrx.com/generic-cialis-online.php my line knock-off viagra pill I two-quart friends it.

40 minuti di attesa, prendere un meno comodo ma anche più economico Treno Regionale che mi porterà a casa. Sull’Eurostar Alta Velocità, niente da dire: il messaggio è “fammi quello che vuoi, tanto ti sei cavato un occhio per prendermi, ti ho fottuto lo stesso”. Arrivo a Napoli.

Ripartenza da Napoli: ore 14:00

Arrivo con calma, mangio un panfossile con paleoprosciutto gentilmente fornito dalla stamberga bisunta che qualcuno chiama “Snack Bar della Stazione di Napoli” e mi dispongo a verificare il binario della partenza. Alle ore 13:40, il display segna il seguente orario:

Destinazione: Sapri ore 13:50
Destinazione: Benevento ore 13:56
Destinazione: Milano ore 14:03

E che fine ha fatto il mio treno per Yuma delle ore 14:00?
Sempre con nonchalance, vado al container recante la scritta INFORMAZIONI. L’essere mitologico metà uomo e metà sedia ivi collocato non si scompone alla notizia della sparizione del mio treno: con occhio semichiuso, mi informa che il treno, per lavori sulla linea, è soppresso, riprende da Battipaglia, da Napoli a Battipaglia c’è un bus sostitutivo che parte da corso Lucci (e qui fa un ampio gesto sulla mia sinistra che mi invita a scavalcare transenne, paratie in cartongesso, corpi umani, mattoni e polvere di lavori in corso e avviarmi, che è tardi).

Con un filo meno di nonchalance affronto il percorso di guerra sempre con il mio fido trolley al seguito, ponendomi alcune domande, fra cui la principale è: ma quando mai i pullman sostitutivi sono partiti da corso Lucci, che è praticamente il retro della stazione? E infatti, quando ci arrivo, indovinate un pò? non c’è un cazzo di niente, cespugli che rotolano e marocchini che rollano canne, ma di bus manco l’ombra.

Rifaccio all’indietro il percorso, nel frattempo si sono fatte le 13:49 e la nonchalance è sparita quasi del tutto. Nel ripassare esattamente dove ero 10 minuti prima, noto il display del treno delle 13:50 per Sapri: esso, meraviglie della tecnica, fa scorrere una stringa nella quale sono nominate via via le stazioni intermedie.

…. Pompei, Torre Annunziata C.le, Pontecagnano, Salerno, Battipaglia ….

Ricapitoliamo.

C’è un treno diretto da Napoli a casa mia che non riesce ad arrivare a Battipaglia perchè ci sono “lavori sulla linea”, e c’è treno diretto da Napoli a Sapri che a Battipaglia ci arriva tranquillamente. Quasi per sfidare il destino, invece di continuare a cercare un pullmann che forse non troverò mai, che forse è frutto dello stupore alcoolico dell’uomo delle informazioni, salgo sul treno per Sapri.

Dentro ci sono 42 gradi centigradi e il 70% di umidità, quindi la via crucis fino a Battipaglia mi consente di sperimentare il mio nuovo record di resistenza alla disidratazione. L’unica cosa che ricordo con precisione è un tizio che siede di fronte a me e viaggia con la camicia aperta fino all’ombelico, mettendo in mostra peli e crocifisso d’oro di ordinanza. Desiderando una secchiata d’acqua in faccia scendo alla stazione di Battipaglia e dopo una breve colluttazione con gli uomini delle FF.SS. riesco a capire qual è il mio treno. Che non parte subito, però: deve aspettare che arrivi il pullmann da Napoli, che quindi esisteva, ma chissà da dove è partito. Poi finalmente il treno per Yuma si avvia, lento come la morte per inedia, e alle ore 17:45, dopo sole 6 ore di comodissimo viaggio, faccio il mio trionfale ingresso nella stazione della mia città.

Percorso netto: 380 km.
Media oraria: 63,3 Km/ora.
Praticamente un Apecar.

Ancora due giorni …

Fra 48 fetentissime ore ‘sto strazio finisce, grazie a Dio. Siamo qui, raggruppati sotto il bocchettone dell’aria condizionata, che peraltro ci ha rovinato la salute un pò a tutti, ad aspettare le inevitabili modifiche e/o tragedie dell’ultima ora. Nel frattempo disegniamo fiorellini sui fogli di carta da riciclare, e facciamo cose inutili ma perditempo come la correzione ortografica dei refusi, o qualche abbellimento grafico delle copertine.

Abbiamo saputo che il progetto che il Capo non ha voluto svendere è stato comunque consegnato (non il nostro, o almeno così spero, ma finchè non lo vedo ..) e quindi si è verificata una delle due ipotesi che avevo segnalato qualche blog fa, perlomeno salvando la nostra faccia.

Comincio a sentire la stanchezza che si accumula. Ho dormito malissimo stanotte, per via del caldo o forse della pizza con le melanzane, ma anche perchè ho sognato ripetutamente che non riuscivo a scrivere un testo nelle apposite caselle, il testo era enorme e le caselle troppo piccole, tipico incubo di chi sta finendo un lavoro e teme di non fare in tempo, e mi svegliavo di soprassalto, grondante sudore.

Oggi, solo frutta, giuro.

Stay tuned, a dopo

P.S. Io non vorrei infierire, ma una mezz’ora fa è stato pubblicato un intervento su un blog dell’ennesimo poeta incompreso, del quale sarei tentata di riportare il testo, per farne un’analisi strutturale … vabbuò, ho capito, non sono cazzi miei, ognuno pubblica che gli pare.

 

Ferragosto

Oggi, sacrosanto giorno di decompressione per tutti, da trascorrere spaparanzati in terrazza con fetta di cocomero in mano (che odio, ma fa tanto estate) e gialletto in edizione economica, a guardare i miei che fanno le valigie, uno spettacolo degno dei migliori Totò e Peppino (sia detto con tenerezza).

Fa un caldo boia, già a quest’ora sto sudando come una fontana, e siamo pure a 860 metri … comunque, se non fa caldo oggi, quando? Domani e dopodomani, si torna a lavurà, per non chiudere in affanno e prevenire le rotture di coglioni dell’ultima ora. Almeno l’ufficio è climatizzato 🙂

Domani, per il calendario meridionale è San Rocco, santo la cui devozione è fortissimamente sentita dalle mie parti, e per il quale si organizzano sagre e festeggiamenti che come sempre oscillano fra il rituale-magico-ossessivo (processioni “Ohh che giorno beaaato, il cieeeel ci ha datooooo, ohhh che giooorno beatooo, viva Gesuuuuuuu” con statua del Santo portata in spalla, offerte deliranti – bracciali d’oro, stipendi interi, pezzi di arredo – ad impetrare una protezione dal cielo che mi puzza sempre un pò di ipocrita) e il profano-mangereccio-godereccio, giostre, canti balli cavatelli al sugo noccioline fichi secchi e zumpapà.

Godetevi il mare, io arrivo fra poco.

La fase della follia

Siamo ormai alla follia totale. Le alleanze politico – istituzionali si fanno e si disfano nel giro di due ore, quello che era acclarato ieri sera stamattina è già cambiato, di poco o di molto dipende dalle circostanze. Tutti cercano di accaparrarsi la propria fetta di potere e/o di finanziamenti comunitari, e per farlo non badano ad amicizie, alleanze, comunioni di intenti e dichiarazioni di guerra fatte solo poche ore prima.

Noi, i tecnici, che dobbiamo preparare i Piani di Sviluppo Locale, documenti fondamentali, complicatissimi, di oltre 150 pagine ognuno (e ne abbiamo pronti 4, per altrettante aree territoriale della regione) passiamo da un’area all’altra a rifinire e limare a seconda dello sciogliersi e del riformarsi delle alleanze. Ogni paio di ore il telefono squilla e l’Architetto, con gli occhi spiritati e la barba dritta, ci annuncia il colpo di scena del momento e il cambio di guardia conseguente.

Alla fine però abbiamo capito una cosa: la battaglia la vincerà chi avrà i PSL pronti. E noi li abbiamo, sacrosanti e battezzati, frutto di tre mesi di lavoro intensivo di 3 persone che ormai si capiscono al volo, per codici, quando parlano.

Proprio perchè noi abbiamo i lavori pressochè finiti, e tutti lo sanno, si moltiplicano i tentativi di spionaggio industriale, facendo spesso ricorso, vista la piccolezza dell’ambiente e della città nel suo complesso, ai rapporti personali. La qual cosa mi schifa anche abbastanza, e dall’altra mi appassiona. Senza contare che questo è un implicito (molto implicito, me ne rendo conto) complimento al nostro lavoro e alla nostra professionalità.

Siamo tutti molto stanchi, da tre giorni non esistono più orari nè pause per mangiare, a stento per andare in bagno; il caldo sta aumentando di nuovo, però siccome ingegnere e signora e sorella sono in ferie, abbiamo preso possesso della stanza climatizzata e lì bivaccheremo fino al 20.

Vi lascio, il dovere mi chiama

PZ – NA A/R

Una riconciliazione come si deve presuppone un incontro ravvicinato del IV tipo. E quindi eccomi alle 8:30 del mattino sull’autostrada più disastrata del mondo in solenne marcia con la mia 500 SX 1100 azzurro Ischia, ovviamente priva di qualsivoglia forma di aria condizionata o climatizzazione, se si eccettua l’aria tiepida che esce dai bocchettoni (bocchettoni, mò … bocchettini). Per oggi la SPLP può aspettare, anche se do per scontato che ci saranno quelle due o tre tragedie incombenti ed emergenze incalzanti proprio durante la mia giornata di assenza.

I primi 50 km sono bellissimi. Siamo ancora in montagna, l’aria è frizzante e profuma di resina di pini, la strada è in discesa, 4 corsie, ben tenuta, pochissimo trafficata da montanari tranquilli e camion di pomodori senza fretta di diventare pelati. Registro comunque che alle ore 9:00 del mattino, che con il sole per via dell’ora legale sono in realtà le 8:00, ci sono già quei 27-28 gradi.

I secondi 50 km fanno capire all’ignaro utente perchè si dice che la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. Siamo sulla famigerata A3, sulla quale incontriamo nell’ordine: a. cantieri chiusi di lavori in corso con deviazione a doppia S;  b. deviazioni  senza la benchè minima traccia di cantieri; c. mezzi dell’ANAS che potano gli oleandri della mezzeria senza ALCUNA segnalazione; d. gentiluomini che si immettono sull’autostrada stracatafottendosene di chi sta arrivando a circa 120 km. orari (ebbene sì, la mia belva arriva fino a 120. Poi, fonde);  e.  uscite intasate con coda che deborda sull’autostrada occupando la corsia di destra ma ANCHE quella di sinistra. Come Dio vuole arriviamo a Salerno.

I terzi 50 km la situazione diventa degna di Holer Togni. La strada si allarga a 6 corsie per circa 500 metri, poi si restringe di colpo a circa 2,5 corsie per due km, e avanti così con questo andamento “a calza smagliata” per il quale si richiedono riflessi prontissimi e auto capaci di assottigliarsi come nei cartoni animati. Miracolosamente in nessuno di questi 100 km ho trovato incidenti, a riprova del fatto che gli indigeni ormai si sono abituati. Da non dimenticare, naturalmente, le famose immissioni a tagliola, vecchie di circa 100 anni, praticamente perpendicolari all’autostrada. La Madonna di Pompei osserva benevola le automobili affacciarsi timidamente,  e poi partire bruciando in 20 metri tutte le marce, nel disperato tentativo di prendere velocità prima che arrivi il TIR tedesco a tranciarle in due.

Gli ultimi 30 km sono per gli amanti del brivido (caldo, la temperatura è salita a 38 gradi e l’umidità all’80%, perchè siamo sulla TANGENZIALE DI NAPOLI. Niente paura. C’è solo da stare attenti alle immissioni selvagge, alle code improvvise in galleria, ai sorpassi a destra e POI a sinistra (o viceversa), ai lavori in corso che restringono la carreggiata, ai motorini con sopra padre in bermuda, madre in prendisole, bambino in costume, borse di paglia e cocomero sul portapacchi.

Sono arrivata, il resto della giornata di riconciliazione me la tengo per me.

Poi sono ripartita. Tutta la strada descritta, al rovescio.

Poi dice che vivere al Sud è rilassante.

Piazza Garibaldi, Napoli, Italia

Piazza Garibaldi è un inferno ribollente e umido di gente sporca. Siamo tutti sporchi, l’afa fa colare il sudore a fiumi impregnando gli abiti, la pelle e pure la biancheria intima. Sul sudore si apppiccicano la polvere, lo smog, i gas di scarico dei pullmann e delle centinaia di auto ferme, in movimento, ingorgate, strombazzanti. La luce è opaca, come filtrata da un vetro unto.
In mezzo alla piazza, a ridosso delle paratie metalliche che delimitano la corsia di posteggio dei taxi, un cumulo di cartoni, stracci, bottiglie di plastica spremute, lattine, vetri rotti; sopra, barboni in bivacco. Il bivacco è lungo quanto tutta la paratia, cento metri e più.  Un paio di zoccole (nel senso di mus norvegicus, pantegana da fogna) fanno capolino dai cumuli, infastidite dal chiasso, penso.

Il marciapiede da cui partono gli autobus straripa di gente, accaldata, per lo più nervosa ma con uno strato di rassegnato fatalismo che deve essere il risultato dell’intossicazione dai gas di scarico, visto che tutti i pullmann hanno il motore acceso. Per l’aria condizionata, suppongo. Intossicarsi prima per poter respirare poi.

Assisto alle operazioni di scarico di passeggeri e bagagli da un pullmann appena arrivato e alla quasi contestuale operazione di carico di gente e bagagli per la ripartenza in direzione opposta. E’ fatale che 100 persone (50 sono arrivate, 50 devono ripartire) messe a fare queste operazioni in totale anarchia intorno ad un solo pullmann finiscano per fare, diciamo così, un po’ di confusione. Volano parole grosse, qualche spintone, misti al pianto di una ragazzina che non è stata abbastanza svelta a scaricare e ormai la sua valigia giace sotto mezza tonnellata di zaini militari caricati per la ripartenza.  Gli autisti intanto fumano all’ombra qualche decina di metri più in là, tranquilli e freschi come rose.

Finalmente arriva anche il mio, di pullmann. Fortunatamente pochi vogliono andare dove vado io, e quindi la tregenda non si ripete. Partenza prevista per le ore 20:15.

Dalle 20:00 l’autista sta parlottando fittamente con due tizi in borghese. Sale con faccia preoccupata sul pullman e ne scende con una pacco di documenti, che i tizi esaminano con calma. Risale per chiedere a quelli di noi seduti nelle prime file i biglietti, che sono biglietti di Trenitalia, visto che quello è un pullmann che fa servizio sostitutivo in concessione sulla tratta Napoli – Metaponto. Li mostra ai tizi.

Ore 20:20: il parlottamento continua, l’autista allarga le braccia desolato, si attacca al cellulare, continua a parlamentare con la faccia sempre più viola. Il motore del pullmann è acceso, ma niente aria condizionata. I pochi viaggiatori scendono e si informano. I due tizi sarebbero poliziotti, qualifica della quale dubiterò fino alla fine, e vogliono l’autorizzazione di Trenitalia alla ditta di pullmann per fare quel servizio. Intanto, già che ci sono, controllano tutto l’ambaradan di tachigrafo, carte di circolazione, assicurazioni, dotazioni di sicurezza e via così.

Ore 20:30: i “poliziotti” chiedono di poter scaricare e controllare i bagagli. Il gruppetto di passeggeri si rifiuta compatto e comincia a rumoreggiare sentitamente per il ritardo. I “poliziotti” non insistono (??)

Ore 20:40: terminate le contrattazioni, l’autista risale sul pullmann e si predispone a partire. Gli hanno ritirato il libretto di circolazione del mezzo, perché la famosa autorizzazione non è saltata fuori e i “poliziotti” non gli hanno dato credito (lui assicurava un fax entro un’ora). Intanto alle spalle dei “poliziotti” un barbone beve una birra, e spacca la bottiglia sulla paratia metallica, lasciando i cocci a terra. Poi si gira e piscia contro le stesse paratie.

L’autista accende l’aria condizionata e parte, bestemmiando e inveendo contro la Polizia, il Governo, sé stesso e raccontando ad alta voce, a nessuno di preciso, quello che è successo, tornando a bestemmiare e ad inveire, almeno fino a Torre Annunziata, confortato e sostenuto da tutti i passeggeri.

Un’altra bella domenica meridionale è finita.

Un mercoledì da leoni

Stamattina mi sono svegliata con un umore che va dal bulldog col mal di denti allo squalo digiuno. E’ partita male già da ieri sera, quando mi sono ramazzata inutilmente nel letto fino alle due del mattino senza riuscire a prendere sonno (per inciso, approfittando dell’insonnia, mi sono vista un film italiano molto carino, credo mai passato sugli schermi cinematografici, intitolato “In barca a vela contromano” o qualcosa del genere con un accattivante Valerio Mastandrea). Risultato: stamattina mi sono svegliata di colpo con circa un’ora di ritardo sulla solita tabella di marcia e sono stata presa da quella che dalle mie parti si chiama ” ‘nziria ‘e suonno”, ovvero uno stato lamentoso-infantil-nervoso per il quale qualunque cosa anche minimamente storta fa andare su tutte le furie.

E infatti.

Mi fiondo sotto la doccia e lancio un urlo. L’acqua, che sovente nei freddissimi mesi invernali diventa gelida perchè la caldaia “va in blocco” (misterioso malessere che può dipendere anche dal troppo vento, ci disse un tecnico spiritoso, ma senza scherzare), l’acqua dicevo, era bollente come avessi dovuto farci il tè. Purtroppo la mia vetusta doccia, per un eccesso di modernità anni ’70, epoca della sua installazione, non ha i due rubinetti, ma un unico manopolone graduato altrimenti detto miscelatore. Abbasso disperata la leva del manopolone fino a 12 gradi: macchè, l’acqua mi pare più calda di prima. Chissà che cazzo è successo dentro al miscelatore dagli anni ’70 a oggi, penso fumante. Lancio un urlo agli altri abitanti della casa, nel sospetto che abbiano aperto l’acqua fredda a manetta sottraendola alla sottoscritta, ma è un sospetto infamante ancorchè infondato. Mi rassegno a farmi la doccia ustionante. Risultato: uscita dalla doccia, per reazione comincio a sudare come una fontana, reazione fisica che odio con tutte le mie forze. Non ho ancora a smesso, a distanza di due ore dalla bollitura.

Sto per uscire, lo sguardo mi cade su una busta intestata della mia banca. Ho richiesto una carta di credito da dieci giorni, hai visto mai che mi è arrivata a casa? Le speranze si infrangono di fronte ad un misero foglietto sul quale c’è scritto, più o meno testualmente: “Egregio cliente, bla bla bla, la informiamo che il tasso creditori ha subito una variazione (rigo di sotto, in evidenza) DA: 0,125% (lussuoso tasso di interessi attivo che mi ha permesso di vivere senza problemi finora, solo lucrando sui miei principeschi depositi) A: INFR.

A INFR.?? E che cazzo significa? La mia vita non cambierà, per la miseria, ma posso almeno sapere in un italiano comprensibile a quanto mi avete abbassato il fottuto tasso di interessi attivo? CHE VUOL DIRE INFR.???

Mi precipito in banca, che è sullo stesso pianerottolo dell’ufficio (l’ho scelta solo per quello, per il resto fa cagare) e chiedo lumi. Mi fanno attendere ad un bancone informazioni per circa dieci minuti, mentre l’impiegata addetta ha il naso chino sulle carte 5 metri più in là e fa finta di non vedermi. Fermo quello che poi si rivelerà essere l’usciere e chiedo a lui. Mi guarda come se gli avessi chiesto di misurarmi con un metro da sarto la distanza fra la Terra e la Luna e mi dice che – ma pensa un pò – devo chiedere alla “collega”. Dopo altri dieci minuti mi rompo le palle, entro a passi di carica nel retrosportello, rischiando di passare per una kamikaze norvegese – vabbè, mediorientale non posso sembrare – e piazzo l’ormai ciancicato fogliettino sotto il naso della “collega”, visibilmente colta di sorpresa. Guarda, legge, rilegge, passa al “collega” seduto di fronte, che legge, ripassa alla “collega”. Il foglio fa il giro degli impiegati, suscitando nell’ordine: 1. ilarità; 2. perplessità; 3. disappunto, ma nessuno straccio di spiegazione. Quando sta per ritornare a me, come nel gioco del telefono senza fili, guardo il “collega” e gli dico: “Niente, eh? Allora senta, facciamo così: ve lo lascio. Attaccatelo al muro, poi ripasso fra un paio di giorni e magari mi fate sapere. Grazie!”

E infilo dignitosamente il tornello di uscita.

In ufficio l’Archtetto è entrato nella fase efficientista e mi sta martellando la salute da circa un’ora con ipotesi di variazioni minime ad un testo redatto da me, che non cambieranno il senso generale del testo, ma faranno perdere circa tre ore di tempo.

Ho paura di sapere come andrà a finire, ‘sta giornatina ….

La lunga estate calda (e innamorata)

Nonostante l’infelicità della situazione, stare a picchiettare su una tastiera di pc una lunga lettera d’amore in un rovente pomeriggio  di domenica di una interminabile estate calda, al buio o quasi, per limitare al massimo le fonti di calore, può avere un suo fascino.

Soprattutto se una mail è l’unico modo che hai di comunicare con un uomo, il tuo uomo, affidare le tue parole ad un doppino telefonico e sperare che lo raggiungano senza intoppi, che lui le veda e – miracolo – possa pefino risponderti.

C’è qualcosa di sacrale e speziato nel sedersi davanti al pc, in abiti leggeri, e cominciare a pensare a quello che vorresti dirgli, scriverlo e rileggerlo per sentire che effetto fa. Anche il suono del cellulare che ti avverte che è arrivato un messaggio, provoca un minuscolo tuffo al cuore, e temporeggiare, cincischiando col telecomando della tv, invece di precipitarsi a leggerlo, è un modo come un altro per godere. Per non parlare poi dell’avviare la connessione, riconoscere come una preghiera i misteriosi rumori del modem, vedere in basso a sinistra comparire il noto simbolino della Posta in arrivo, e poi vedere la SUA cartella che si grassetta, e il garrulo pc avvertirmi che c’è “n° 1 messaggi da leggere”.

Tutto questo mentre il sudore scorre a fiumi, non essendo la postazione del mio portatile messa in un punto particolarmente fresco. Ma anche quello viene offerto come un obolo al contenuto della mail in arrivo, che è sempre tenera, sempre commovente, sempre riesce a spremermi una lacrima, una sola, dall’occhio sinistro in genere, che scivola via e si mescola al sudore.

Un giorno tutto questo finirà, e credo che un pò mi mancherà.

Il caldo ammoscia

Stamattina cazzeggio, facendo l’equivalente informatico del disegnare fiorellini sui blocchi degli appunti ad una conferenza, mentre siamo tutti in calda e afosa attesa del verdetto finale per l’ormai mitica SPLP: Scadenza Progetto Leader Plus. Ci giochiamo ai dadi le due possibili opzioni: 8 Agosto, un rinvio del cazzo per il progetto ma perfetto per le vacanze, e il 21 Agosto, con caratteristiche inverse. Chi verrà a lavorare Sabato 16 Agosto?

I vacanzieri incalliti hanno già messo un muso lungo un chilometro. Io me la rido, perchè la mia situazione personale e sentimentale difficilmente mi consentirà – che culo, eh? – di andare in vacanza, e quindi ecco trasformata una sfiga cosmica in un’opportunità di fare la stakanovista e dare ad intendere che sono IO quella che lavora più di tutti qua dentro, ipotesi che mi fa ridere anche solo a vederla scritta. E poi ieri, con un colpo di teatro degno di Eduardo De Filippo, ci è stato accreditato lo stipendio di Giugno, quindi non abbiamo molte scuse per non lavorare indefessamente fino al 20 Agosto, quando presumibilmente ci verrà accreditato lo stipendio di Luglio.

La stampante principale dell’ufficio, che fa cose che voi umani non potete neppure immaginare, è andata misteriosamente in blocco, o meglio, non funziona più il collegamento di rete che la unisce con cordone ombelicale informatico ai nostri terminali, per cui da qualunque stanza vogliamo stampare fronte/retro a 2.000 pagine al secondo le nostre cazzate, possiamo farlo. Potevamo farlo. Oggi ci tocca accontentarci delle stampantine personali, che pure abbiamo sontuosamente in dotazione, peraltro anch’esse tutte in rete, quindi la regola che ne viene fuori è che ognuno stampa su qualunque stampante gli giri, purchè non sia la propria, così ha una scusa per alzarsi e andare in un’altra stanza.

Le scorte alimentari, che d’inverno riempiono cassetti e armadietti nascosti, e che sono altra motivazione sufficiente per migrazioni verso altre stanze più fornite (“hai qualcosa da mangiare?” è la frase che apre ufficialmente un break) tendono curiosamente verso la carestia; nel frigo c’è solo acqua e uno yogurt aperto scaduto il mese scorso. Ho messo su un CD con canzoni degli anni fra il 1974 e il 1977, per ricordarmi che pure io ho avuto estati di un’adolescenza passabilmente felice, se non altro perchè totalmente priva di brufoli ed herpes, per una fortunata alchimia ormonale, che purtroppo si è vendicata regalandomi quei 10 chili di sovrappeso che non sono mai più riuscita a seminare (“cerco di perdere peso, ma lui continua a trovarmi”, diceva una scritta su un ciappino americano per i tegami ).

E su questa musica d’antan aspettiamo che il telefono squilli e ci dica esattamente di quale morte dobbiamo morire …