Comunicare in maniera comprensibile per chi ci sta di fronte non è un dono.
E’ un dovere.
Avevo un amico, tempo fa, che usava un suo modo singolarissimo di interloquire. Se gli si scriveva una mail, nella quale si trattava di un argomento, era molto probabile che rispondesse con un’altra mail nella quale l’argomento da trattare era solo lo spunto di partenza per una divagazione, quasi sempre estraniante e del tutto laterale. In sostanza non-risposte, che non centravano mai il punto focale della domanda.
Se io gli scrivevo che avevo fatto un giro in bicicletta, lui mi rispondeva citando la celebre frase di Bartali “gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare“. Oppure dava solo un pezzo dell’informazione, lasciando a me l’onere di intuire il resto. Se io lo invitavo a mangiare una pizza, lui rispondeva che era davanti alla tv, e che era molto tempo che non riusciva più a vedere il TG. Il pezzo mancante, o lasciato al mio intuito, era “nelle scorse sere ho fatto spesso tardi (tanto da non riuscire a vedere il tg di mezza sera): stasera sono stanco e non mi va di uscire”.
Questo suo atroce vezzo si estendeva anche ai suoi familiari e agli amici: gente che diceva “deglutire” invece di “mangiare”, o “livrea fobeica” invece di “paura”.
Il significato che io cercavo, ovviamente, era IMPOSSIBILE da trovare, ma io ci provavo lo stesso, con la forza della disperazione e di un codice interpetativo del tutto inadatto e fuorviante. Con risultati devastanti per le interpretazioni che ne ricavavo, e un pò anche per la mia salute nervosa.
Il mio errore – madornale – per oltre un anno, è stato tentare di applicare le regole di un codice comunicativo ordinario a questo codice comunicativo del tutto distorto. Un errore di decrittazione enorme, come cercare di tradurre dall’aramaico con un vocabolario di greco. Per mesi ho scavato nelle parole, cercandone un significato che mi riguardasse, cercandovi una risposta, un commento, una dichiarazione a tono con le MIE domande, con i miei commenti, con le mie dichiarazioni, che erano sempre precise, senza possibilità di fraintendimenti. Con l’ovvio risultato che sono – letteralmente – impazzita per dare significati sensati a frasi prive di senso, o che ne avevano solo per chi le aveva pronunciate. Nell’esempio della bicicletta, ricordo di aver pensato per giorni che volesse dirmi che avevo sbagliato a fare qualcosa, o che sbagliavo il modo con il quale mi comportavo , o dovevo ricominciare daccapo qualcosa: ma cosa?
Un processo prima irritante poi frustrante, che mi ha generato sconcerto, rabbia, smarrimento, alla fine una autentica sofferenza.
Solo con una improvvisa illuminazione, e riuscendo a guardare le cose con un minimo di distacco, ho capito la fogna nella quale mi ero immersa fino al collo, la destabilizzante perversa meditata volontà del mio interlocutore di deviare sempre il discorso saltando dal mio palo alla sua frasca.
Io scavavo nel senso nascosto delle parole, come faceva Freud con i racconti dei sogni, lui apriva un suo Google mentale per cercare una qualunque informazione che avesse una attinenza anche molto vaga con il tema trattato. E io prendevo quella informazione anonima e collaterale e ci cercavo dentro risposte personali e dirette. Acrobazia impossibile.
Una patologia evidente della comunicazione, le cui motivazioni possono essere ricercate solo nella paura di scoprire un pezzo di sè, o forse – più probabilmente – nel desolante vuoto di contenuti pertinenti da parte sua. Uno che non aveva niente da dire, insomma, e però lo diceva in modo misterioso, convinto di essere ganzissimo perchè scriveva cose che io non riuscivo a capire. E lasciando che io mi torturassi nell’idea che ero io, la cretina.
Mi ero tenuta per me le mie teorie, fino a che non ho letto “Farsi capire” di Annamaria Testa, docente alla Bocconi, esperta di comunicazione. Con mio grande stupore, ho trovato in questo meraviglioso testo, la cui lettura consiglio a chiunque, il supporto teorico a tutto: al corto circuito della mia capacità di decifrare un codice, alla scoperta della inesistenza di un codice, alla crudeltà mentale – nella migliore delle ipotesi – di quello e di altri interlocutori con i quali ho avuto la ventura di scambiare comunicazioni scritte che non comprendevo.
Scrive infatti la Testa:
“Se da un punto di vista funzionale scrivere una cosa che può essere letta ma non capita e quivale a non scriverla, da un punto di vista relazionale il risultato di una comunicazione che non si lascia capire è tragico.
Non si può non comunicare, e qualsiasi comportamento comunica: usare un codice non condiviso è comunque una scelta di comportamento che implicitamente comunica qualcosa. Ed è qualcosa come ‘io non voglio farmi capire / tu non puoi capirmi’. Le implicazioni ulteriori sono tutte, in termini di senso, sgradevoli o offensive: ‘Tu non mi capisci perchè sei stupido. Perchè sei ignorante. Perchè non meriti che io faccia lo sforzo di farmi capire. Perchè devi ubbidire, e basta. Perchè sei in una condizione di inferiorità e ci resti, tiè’. (…)
C’è disconferma quando viene negata la realtà dell’altro in quanto fonte di qualsiasi definizione: quando, qualunque cosa l’altro dica, faccia o senta, nel feedback le sue motivazioni e le sue intenzioni vengono ignorate e il significato che lui assegna alla situazione risulta frainteso, manipolato o cancellato. (…) Sembra che il dare disconferme sia connesso con una particolare mancanza di consapevolezza nella percezione interpersonale, che Lee chiama impenetrabilità. (…) Quanto più non riusciamo neanche a prendere onestamente in considerazione l’idea di poter risultare qualche volta “impenetrabili” nei confronti di qualcuno, tanto più è possibile che l’impenetrabilità sia effettivamente una caratteristica del nostro comportamento.”
(A. Testa, “Farsi capire”, ed. BUR, pagg. 200, 84-85)
Comunicare in maniera comprensibile per chi ci sta di fronte non è un dono. E’ un dovere.
E’ un dovere comunicare in un modo comprensibile per l’interlocutore, in un codice che l’interlocutore sia in grado di decifrare nella maniera più corretta possibile, per poter a sua volta comunicare una risposta, e così via, in un atto creativo ininterrotto che costituisce l’elemento che ci caratterizza, alla fine, come esseri umani.

Ho vissuto sostanzialmente la tua stessa esperienza.
Farsi capire è un dovere, hai ragione
Ti “rubo” il link al libro 🙂
Ciao!