Una sera, al telefono, un amico molto (ma molto) preoccupato mi racconta di essere stato partecipe di un progetto finanziato con fondi comunitari, di averlo faticosamente condotto in porto, e che alla fine del progetto le carte sono state ispezionate da inflessibili controllori ministeriali che hanno tagliato (nel suo caso) l’80% circa della spesa. Se non verranno presentate ferree controdeduzioni ai tagli, sono soldi che devono essere restituiti. Un’onda abbastanza alta di soldi, che rischia di travolgere altri progetti, anche di vita, importanti.
Mi chiede una mano.
E figuriamoci se mi tiro indietro.
La saga ha inizio. La racconterò fase per fase, senza sapere, ad oggi, quale sarà l’esito. Credo abbia un senso, raccontarla, perchè, come dice il mio amico, la pubblica amministrazione italiana ed europea oggi è un mondo perverso, nel quale si comincia con il curriculum in formato europeo e si finisce in un gorgo nel quale non ha mai contato la qualità reale di un progetto, ma solo la precisione di carte inutili, facilmente falsificabili, e che quindi per essere autenticate richiedono altre carte, in un giro vizioso che si avvita su sè stesso, fino al collasso.
Per prima cosa, insegnano Confucio e Von Clausewitz, occorre rendersi conto del contesto, del teatro di guerra, della giungla vietcong. Occorre parlare con l’interlocutore pubblico che ha erogato i soldi, e che NON coincide, si badi bene, con quella che ha effettuato i tagli.
Siamo in una regione costiera, in una città di mare.
L’ufficio nel quale entriamo è un palazzo nato come civile abitazione, ci scommetterei la testa, e solo dopo adattato ad ospitare una pubblica amministrazione. Scale a due rampe, pianerottoli, due porte a pianerottolo. Dentro, pare sia in corso un immane trasloco, o uno sgombero di macerie. Per arrivare dal nostro uomo si attraversano corridoi ingombri di sedie rotte, scatoloni accatastati, scrivanie zoppe, tastiere di computer spaccate, faldoni ingialliti da cui spuntano carte a brandelli. C’è un disimpegno nel quale questo ciarpame arriva fino al soffitto, e sembra sul punto di crollare da un momento all’altro addosso all’ignaro visitatore. La stanza dove siede il nostro uomo è uno degli ambienti di lavoro più tristi che ho visto in vita mia dai tempi del Pio Monte della Misericordia dove lavorava la buonanima di mio nonno: buio, le scrivanie di tre colleghi che quasi si toccano, non
lasciando spazio nè per passare nè – ma quando mai – per far sedere un utente. E infatt non ci sono sedie, per gli interlocutori.
Armadi di ferro grigio con le ante scorrevoli. E ho detto tutto.
L’impiegato è grigio più o meno come l’armadio, negli occhi una rassegnata malinconia in fondo alla quale si scorge, lontano e indistinto come un fuoco nella steppa di notte, un segno di vita, un guizzo di ribellione, una scintilla di rabbia subito soffocata dai faldoni coi lacci accatastati sulla scrivania. Perchè è giovane, è gentilissimo, e del tutto impotente ad aiutarci, e questo mi mette ancora più tristezza.
Andiamo poi a parlare coi partner(s). Il pezzo più notevole della collezione umana che incontriamo è la commercialista del gruppo. E’ secca come una stampella, con vezzoso tailleur a volant nero, calze e scarpe altissime color violaciocca. Sigaretta, che mi stupisco fumi senza bocchino dorato, cappellino anni ’20. Ha le occhiaie più o meno dello stesso viola delle calze, che le arrivano sotto al mento. Le ispettrici che hanno visionato le carte ed effettuato il drammatico taglio sono descritte con particolari gotici che ad ogni nuovo giro diventano più horror. Ad ora di pranzo sono diventate belve coi canini appuntiti stillanti sangue, mannare puzzolenti ed assatanate avide solo di timbrare carte e segare via spese. I complimenti, come è ovvio, si sprecano: “incompetenti” resta presto confinato nell’aere delle buone intenzioni, sostituito da seri giudizi di disvalore sulle loro facoltà intellettive fino ad arrivare ad accenni a mestieri infamanti svolti dalle genitrici.
Sarà dura.
Ma sono fiduciosa.
E chiudo con un paio di chicche che testimoniano, ove mai ce ne fosse bisogno, del mio amore tormentato con le FF.SS. italiane.
Stazione di Potenza Superiore: il marciapiedi che separa il binario 2 dal binario 3 è strettissimo. Ma non sia mai che i solerti uomini delle FF.SS. rinuncino alla sicurezza. Il codice prescrive una “riga gialla” dalla quale l’utente prudente deve allontanarsi all’arrivo del treno? E la riga gialla c’è: però anzichè essercene due, una per il binario 2 ed una per il binario 3, ce n’è una sola, al centro del marciapiede, per evidenti motivi di spazio. E quindi “allontanarsi dalla riga gialla” significa fare un passetto verso il binario 3, se il treno arriva sul binario2; e fare un passetto verso il binario 2, se il treno arriva sul binario 3. Se arrivano due treni in contemporanea, state fermi SULLA riga gialla e non muovetevi, per carità.
Il treno per Foggia è composto di soli due vagoncini: una supposta iper riscaldata, che va a velocità di carrozzella, e si ferma in TUTTE le stazioni. Allegra, però: carica quasi esclusivamente universitari lucani pendolari. Le due ore passano fra frizzi e lazzi e racconti di esami e professori che mi mettono di ottimo umore.
Stazione di Foggia, avviso all’altoparlante: “Il treno regionale 2233 proveniente da Manfredonia viaggia con 30 (trenta) minuti di ritardo”. Poichè Manfredonia dista da Foggia circa 30 chilometri, è ragionevole ipotizzare che il treno non “viaggi”, ma sia ancora fermo nella stazione di Manfredonia.
La supposta iper riscaldata, al ritorno, parte da Foggia al binario tronco n. 4. E’ buio, è autunno, c’è una fitta nebbia: le luci della supposta che si avvicina al binario tronco comparendo nella foschia all’improvviso non hanno nulla da invidiare (mutatis mutandis) alla motonave Rex di Fellini che sbuca dalle nebbie riminesi. I lucani in procinto di tornare a casa la accolgono con la stessa commozione: per molti minuti, abbiamo avuto la sensazione che saremmo rimasti in eterno lì, sul marciapiede del binario tronco, ad aspettare nella nebbia.

Ma che faremmo noi fans senza di te??!!
Teso’, abbi pazienza un momento e spiegami, fatto tutto questo quadrettto terrificante del funzionamento e amministrazione di questi progetti (vedi paragrafo 2), e delle condizioni di lavoro (nessuna delle due cose e’ molto diversa che dalla cittadina di mare ci spostiamo a quella di montagna in cui vivi e lavori), come fai a dire e ribadire che ami il tuo lavoro? :* xxxxx
ma perchè amo le sfide appassionanti 🙂
sono un torero: che senso avrebbe entrare nell’arena e affrontare una mucca? così, almeno, non mi annoio mai (e ho materiale per il blog)