La chiave del mistero

Qualunque altro posto sarebbe andato bene.
Potevo attaccarmela al collo con un moschettone, come facevo fino all’anno scorso.
Potevo infilarla nei lacci delle scarpe e annodare stretto, come mi suggeriva la fastidiosa praticità americana di mia sorella.
Potevo, al limite, infilarla nel reggiseno, lì c’è un sacco di posto, al massimo la tiravo fuori un pò umidiccia.

E invece ho voluto fare la strafiga e l’ho infilata nell’astuccio dell’i-Pod. Che poi ho agganciato al pantalone tecnicissimo. Dietro, sempre per fare la strafiga. Poi tutta tranquilla, sono partita per 5 km. di corsa sotto il sole di un bel sabato primaverile. Corso, ansimato, sputato, camminato per recuperare il fiato. 5 Km. Stretchato al punto giusto i muscoli.

Ero pronta per andarmene. Metto la mano alle chiappe e OH! MERDA. il fottutissimo i.Pod è ancora lì – e d’altra parte, ho ancora la musica nelle orecchie. La chiave della macchina, invece, non c’è più. Il triste seguito è a base di rifacimento dei 5 km. con gli occhi a terra per cercare la stramaledetta chiave, constatazione amichevole con me stessa della circostanza che in macchina – chiusa – c’è TUTTO (borsa, cellulare, felpa, soldi), umiliante elemosina di una telefonata dal cellulare di un passante per per fare una umiliata telefonata a papy e farlo venire a prendermi con doppione dell’auto.

Il giorno dopo scopro che rifare la chiave della mia comunissima utilitaria giapponese costa 60,00 euro. E mi dice culo che è una comunissima chiave, senza antifurto, senza chiusura a distanza, senza un cazzo di niente, chiave e basta, se no dovevo farmi un mutuo, credo.

 

Coffee time

Nel nuovo ufficio le stanze sono in fila. E Stelvio e io abbiamo da una parte la maga dei computer, dall’altra la responsabile del personale dipartimentale.

La signora – uno gnomo tondo con i capelluzzi ricci biondi – ama il caffè. Il caffè con la moka, per il quale disdegna schifata la macchinetta automatica del terzo piano (oddio, magari fa bene). Ma – mi direte voi che abitate a Varese – e come si fa ad avere il caffè della moka in un ufficio, per di più pubblico?

E che problema c’è. Per sciacquare e rimpire d’acqua il serbatoio della moka, c’è il bagno. Poi. La signora ha disposto i mobili della sua stanza in modo tale che vi sia un angolo un pò nascosto dietro il fax e la stampante, non ben visibile dalla porta, dietro il quale ha piazzato un tavolino, una piastra elettrica, e tutto il necessario per fare il caffè: la moka, ovviamente, un barattolo di zucchero, uno di caffè Kimbo, bicchierini di carta, cucchiaini di plastica. E – tocco da maestro – un foglio A4 elaborato in Excel nel quale ci sono i nomi di tutti gli abitanti del piano, i mesi dell’anno, e il contributo versato da ciascuno per le spese di zucchero e caffè. L’abbonamento ha un importo modicissimo: 2,00 Euro al mese. Ma si può contribuire in natura, portando, che so, cioccolatini, cornetti mignon, o una crostata fatta dalla mamma, o una fetta di dolce avanzato dal compleanno. Il trasporto della moka dal bagno alla stanza della collega avviene mediante un innocente sacchettino di carta plastificata rosso, tipo confezione regalo, con scritto fuori “Gioielleria Manzoni”.

Due euro al mese per avere un bicchierino di caffè dalla moka – e magari un cioccolatino, se vi dice culo – ogni volta che la collega lo fa, il caffè. E come si fa a saperlo, direte voi. Per chi lavora – diciamo così – nelle immediate vicinanze, è facilissimo: basta seguire l’odore di caffè. Per chi sta più lontano, funzionano il telefono interno, la voce che si sparge, l’orario (la collega si fa venire la voglia ad orari più o meno fissi).

Le colleghe che prendono il caffè a gruppetti di 4 o 5 ovviamente chiacchierano fra loro. Tutte donne, quasi sempre. Un paio hanno una voce che trapana i muri e Ballarò e Porta a Porta e Amici e L’Arena hanno ormai insegnato che non conta il valore dell’argomentazione, conta chi riesce a urlare più degli altri, riuscendo a mantenere la concentrazione per ripetere sempre la stessa cosa finchè l’altro non si tace.

Stamattina il tema era: è giusto attendere l’assenza di figli adolescenti per frugare nei loro armadi e buttare via tutti gli indumenti che a giudizio della mamma non sono più mettibili? Al momento in cui scrivo, la discussione è ancora aperta.

E’ lecito da parte mia augurare loro una morte lenta, soffocate da un cucchiaino di plastica?

And the winner is…

La notizia è circolata sulle mail sui cellulari sui telefoni: contratto rinnovato. Una delibera “solo camicia” “fuori sacco” – tecnicamente corrispondente ad un agguato vietcong – approvata ieri all’unanimità alle ore 13:00, quindi anche “fuori orario”.

Dovremmo essere contenti, e un pò lo siamo, per questi altri 18 mesi di ossigeno. Però il deprimente messaggio che il prezioso documento porta con sè è: ve lo abbiamo dato perchè lo avete chiesto – taluni di noi hanno perfino implorato, mostrando foto di bambini – non perchè riteniamo che ve lo meritaste. Tutti hanno voluto essere un pò pregati: la segreteria generale del Presidente, il Presidente, l’Ufficio del Personale, l’Ufficio Legale.

Normale? Può darsi. Ma sempre deprimente rimane.

Solidarnosc

Se io e Stelvio avessimo potuto avere 1,00 euro per ogni collega che ci ha detto “Ma non vi preoccupate!” di fronte al nostro pessimismo per il rinnovo del nostro contratto, avremmo i soldi per pagarci un anno di far niente.

Molto gettonata anche la variante “E che problema c’è?” detta con la noncuranza di chi ha il culo al caldo del proprio contratto a tempo indeterminato da venti anni.

Poi però passano a parlare d’altro. E nel frattempo, ad ogni buon conto, il Grande Puffo ci evita accuratamente. In compenso tanti ci hanno scritto  inverosimili mail di solidarietà che ai miei occhi significa che puzziamo già di cadavere.