- forse compro un iPad
- è un inverno assurdamente caldo, ha fatto caldo finora ma si guasterà farà freddo e verrà forse perfino la neve esattamente in concomitanza con l'arrivo di mia sorella. Così, giusto per farci stare un po' con le palle in mano
- UDMV si ostina a ignorarmi e a non voler riconoscere che sono io la DDSV. Quando verrai da me piangendo a dirmelo implorandomi di darti un'altra possibilità, sarà troppo, troppo tardi. Sappilo
- ho speso un botto in sciarpe e foulard, quest'inverno: non ci posso fare niente, è una droga, è più forte di me, le adoro, ne ho di tutti i generi prezzi materiali colori fantasie
- ho finito gli acquisti di regali natalizi ben prima di Natale, riuscendo, come mi ero ripromessa, ad evitare le corse disperate dell'ultimo minuto e gli acquisti tanto per
- a Natale mi regalo un iPad. Se trovo risposte convincenti a tutte le domande e se riesco a bilanciare il parere degli entusiasti con quello dei detrattori (Jobs, come è noto, o lo si odia o si ama)
- tutti parlano della timeline di Facebook ma io ho ancora la vecchia versione. Dal che è evidente che Zuckerberg mi odia
- quando avrò l'iPad, mi servirà ancora un BlackBerry? domanda che mette in moto mozioni affettive e quindi non ci voglio pensare perchè va bene le novità, ma i vecchi amori non possono finire così. Mi ha fatto più compagnia lui negli ultimi tre anni di qualunque altro essere umano (no, non lo voglio un gatto, non mi piacciono gli animali)
- stasera c'è vento, tanto vento, una bufera di vento. Io odio il vento, mi innervosisce il rumore delle imposte che sbattono e delle serrande che gemono e delle cose che cadono e rotolano il fischio nelle finestre che non chiudono bene. Stanotte non dormirò e resterò a pensare all'iPad al maltempo a UDMV e al biglietto del Superenalotto che ho giocato e ancora non so se ho vinto (seeehh figuriamoci. Però fino a domani ci posso ancora sperare, e sperare è importante)
- ma mi servirà davvero un iPad?
- stasera ho usato i prodotti che ho comprato ieri – spendendo un altro mezzo botto – nella profumeria di una amica (una di quelle persone che conosci da sempre e poi ritrovi e riscopri così, senza sapere come è successo – grazie sempre facebook e social network vari). Saponi per detergere il viso, cremine idratanti. Ho una pelle da urlo, stasera, sembro Cenerentola la sera del ballo. Bibidibobidibù
- chi siamo? dove andiamo? quando arriviamo? perchè siamo partiti?
- buonanotte, vado a (non) dormire. E a sognare iPad che rotolano portati via dal vento.
Vento e altro (23 novembre, mi pare)
Stasera c’è una bufera di vento, sulla mia città.
Poche cose mi agitano come il rumore del vento che sbatte imposte, persiane, fa tremare vetri e rovescia vasi. E’ un trauma che mi è rimasto da una sera di 28 anni fa. A parte il boato iniziale, l’effetto più immediato del terremoto dentro casa, che mi ricordi, era lo sbattere furioso delle persiane nelle guide, i vetri che tremavano, il rumore di cose fragili, pezzi di casa mia, che andavano in frantumi.
Adesso che sono – si fa per dire – una donna adulta e consapevole, e ho lavorato molto sulle mie paure, riesco a restare seduta più o meno composta mentre tutto intorno sbatte l’impossibile. Mi alzo solo una volta o due per accertarmi che non si siano aperte le imposte, e non si sia rotto niente. Ripenso però con una punta di nostalgia ad una ragazzina di 15 anni che nelle sere di vento e bufera passava anche un’ora a mettere pezzetti di carta ripiegati nelle guide della persiana della camera da letto, per evitare che sbattesse, e si addormentava a fatica solo dopo essersi tappata le orecchie con le mani o col lenzuolo.
Il terremoto fu metafora delle mie paure di sempre: la casa, la cosa più stabile che esista, all’improvviso si mette a ballare. Nessuna certezza è mai stata più tale, per quella generazione. Niente sta mai veramente immobile, questo abbiamo imparato, niente è mai veramente solido sotto i piedi. Non c’è niente su cui puoi contare davvero.
Quella sera scendemmo in strada tutti insieme, dopo 80 interminabili terrorizzanti secondi, mio nonno sorretto da mio padre lungo le scale. Non molti se lo ricordano, ma le scosse furono due, in rapida successione. E il peggio fu quando i muri si fermarono, dopo la prima scossa, e due secondi dopo fu il pavimento a tremarci con un nuovo boato sotto i piedi, più forte che mai. Abbiamo urlato tutti, in quel momento. Ricordo distintamente la faccia di mia sorella livida per la paura, deformata dall’urlo.
Il portone di alluminio e vetro si era scardinato e messo di traverso, dovemmo spaccare i vetri per poter uscire dal palazzo. C’era un silenzio assoluto, irreale, apocalittico. Sembravamo gli unici sopravvissuti. Invece, come topi dalle tane, piano piano strisciarono fuori i nostri vicini di casa, tutti col terrore negli occhi, qualcuno ferito. Mi ricordo il sonno, incredibile, inverosimile, che mi prese intorno alle 11 di sera: non riuscivo a tenere gli occhi aperti, aprii la macchina di mio padre nel piazzale e dormii lì dentro, raggomitolata sul sedile davanti. Adesso so che uno stress fortissimo come il terrore chiede poi in pegno riposo, al corpo, per difesa, e lo costringe a dormire. Ma allora non mi davo pace, per avere quel sonno mortale mentre la radio continuava a dare la conta dei morti, i cognomi di gente dispersa che si cercava attraverso le radio libere, le sirene delle ambulanze.
Poi fu anche un inverno bellissimo, stracarico di neve, nella quale abbiamo a lungo camminato, in assenza di mezzi pubblici funzionanti, da una casa all’altra, in pellegrinaggi natalizi per giocare a carte, ridere insieme ed esorcizzare la paura. Un inverno di totale e sodale libertà, palle di neve davanti a scuola, il pomeriggio a studiare e le serate nella palestra Coni a smistare i pacchi della Croce Rossa, buttare in un mucchio la (molta) roba inservibile di abbigliamento che arrivava dalla generosità, diciamo così, dei nostri connazionali e farci le capriole dentro. Oppure a fare la gimcana a via Pretoria fra i barbacani e i puntelli delle case inagibili, nascondersi in mezzo, dare i primi probitissimi baci ai primi devastanti amori.
Serate intere.
Un inverno da quindici anni.
Vento
Odio il vento forte.
Lo odio perchè fa sbattere le serrande nelle loro guide, producendo un rumore del tutto simile a quello che sentii la sera del 23 Novembre 1980 anche se quella volta le persiane sbattevano perchè sbatteva tutta la casa e di sicuro ci sono stati rumori più devastanti quella sera ma io mi ricordo solo quello.
Per almeno due o tre anni dopo quella data se c’era vento di notte io restavo sveglia con gli occhi sbarrati terrorizzata cercando in tutti i modi di tapparmi le orecchie. Per qualche mese ho anche, nelle sere di vento, passata una buona mezz’ora a mettere pezzetti di carta ripiegata nelle guide delle serrande, nel tentativo di impedire loro il movimento.
A riprova del fatto che pure a 15 anni non è che fossi tanto normale e avevo anche allora le mie brave nevrosi.
E per chiudere in bellezza, una citazione letteraria e/o cinematografica. A volte ritornano.