Mondo, giorno

Ma è solo un momento, appunto.

Poi mi rendo conto che non sono libera di passare la domenica con l’uomo che amo e risprofondo nella depressione. Ho anche paura di volare, e invece fra una settimana prenderò ben due aerei di cui uno intercontinentale per un totale di quasi 12 ore col culo per aria che è una cosa innaturale perchè se Dio avesse voluto farci volare ci avrebbe fatto spuntare le ali, no?  per andare da mia sorella, udite udite, portandomi dietro mamma e papà.

Sarà un disastro da cui non mi riprenderò se non a forza di pillole grigie il cui nome finisce in -tox o -ina.

Tristezza rosso sangue

Ecco, ci risiamo.

La data attesa passa, e non c’è altro da fare che aspettare, spiarsi, fare e rifare i conti, fare e rifare ipotesi, farsi venire i nervi, cercare di farseli passare perchè tutti dicono che bisogna stare calmi. Piangere un pò, desolate, rendendosi conto che a 38 anni non si è ancora pronti, non si ha ancora una casa, non si ha ancora un uomo che possa essere considerato proprio. Cominciare a pensare come la prenderanno i miei, se è il caso di fare le valigie per il Canada o pensare piuttosto ad una lettera scarlatta da ricamarsi sui vestiti. Dirlo alle amiche, che suggeriscono – guarda un pò – di stare calmi. Figuriamoci io, che sono l’impazienza fatta persona, se riesco ad aspettare così, senza fare niente.

Cassetti, si butta tutto per aria, si trova quello che si cerca per poi constatare che è scaduto da sei mesi. Farmacia, si fa la richiesta sottovoce ad una farmacista assonnatissima del turno di notte, tanto per complicarsi un pò la vita, che sicuramente avrà pensato “Ma non puoi aspettare domani? non è mica una bombola di ossigeno, quella che mi hai chiesto!” Andare a casa, leggere per benino tutte le istruzioni come un mantra portafortuna, anche se ‘sti affari funzionano tutti esattamente allo stesso modo e non c’è pericolo di sbagliare. Rileggere soprattutto la parte dove sono descritte le percentuali di attendibilità. Andare in bagno, chiudendo la porta con un sospiro. Fare tutte le operazioni sporcandosi ovviamente le mani e solo dopo venti secondi rendersi conto che si è smesso di respirare e si sta diventando paonazzi. Fissare con un misto di sgomento e rammarico la finestrella che resta desolatamente vuota.

Rimane abbastanza tempo per spaventarsi per i giorni passati, facendo tutte le ipotesi residuali, dalla banale infezione fino al tumore alle ovaie. Snervare sè stessi e gli altri. Meditare di rifare tutto l’ambaradan farmaceutico, per avere un’ulteriore conferma. E poi una notte afosa, finalmente, dopo 7 – dico SETTE – giorni di ritardo ci si sveglia tutta sudata e si constata che si è sciolta la gloria. Sollievo. Un insopprimibile dispiacere, che resta in un angolino ma non sparisce.

Eh no, non sono incinta.

Meglio così.

Davvero?

Domeniche da ricordare

La giornata di ieri, paradigma di uno strazio che va avanti da fine Aprile 2003. Prendo la macchina, punto verso il centro. In Tangenziale piove a dirotto, avrei già una mezza intenzione di fare dietrofront ma proseguo imperterrita come un cane da tartufi. Via Partenope è chiusa al traffico, ci metto venti minuti per fare 200 metri, comunque dove devo andare io alla fine c’è poco casino e parcheggio tranquilla. Via dei Mille è umida, negozi sbarrati, triste, o forse sono io ad essere triste. Registro la presenza di diverse decine di altri esseri umani, a coppie, a famiglie, anche da soli ma con l’aria di stare andando da qualche parte. Io invece non lo so, dove sto andando. Le porte girevoli del gigantesco megastore Feltrinelli a piazza dei Martiri mi forniscono un abbozzo di risposta. Giro per gli scaffali, medito di comprare qualcosa di appena uscito, ma l’editoria è in crisi e pretende di rifarsi con me, le nuove uscite hanno prezzi non inferiori ai 25 euro. Al piano di sotto c’è la sezione Gialli e Polizieschi. Mi faccio tentare da Lucarelli, irresistibile quando ambienta le sue storie negli anni ’40, e da un autore fortemente promozionato da una persona che mi sta antipaticissima. Lo compro per avere modo di poterla stroncare.

Esco.

Fuori non è cambiato niente, è sempre tutto triste, per di più il passeggio tende ad esaurirsi, quindi il senso di vuoto e solitudine si accentua. Passo davanti all’imbocco della strada dove lui abita, mi ci fermo un minuto, mi fa tremare le mani l’impulso di farmi la salita di corsa e bussare al citofono urlando “TUTTI FUORI, STA CROLLANDO IL PALAZZO!!!” per poterlo stanare e rapirlo con un’azione da commando brigatista, nel quale potrebbero pure scapparci sette o otto raffiche di mitra, mirate.

Ho vissuto questa situazione – temporanea, temporanea, devo ricordamelo recitando la parola come un mantra – come un rifiuto. Mi sento rifiutata, da lui, dalla città, dai pochissimi passanti rimasti per strada. Mi identifico con la badante ucraina seduta da sola sulla panchina davanti al Liceo Umberto, fra le mani una busta di plastica spiegazzata, che guarda la scuola dove la figlia non potrà mai entrare, i palazzi dove non potrà mai abitare, le vie che la vedranno curva sotto il peso di lavori ingrati con vecchi miliardari biliosi e rincoglioniti, che i figli non hanno voglia di sopportare.

Entro nella pizzeria affianco al Liceo. Ci sono stata una volta con lui, l’ambiente è accogliente, i camerieri simpatici. Mi leggo mezzo Lucarelli mentre aspetto la pizza, che poi, complice l’influenza che sento incubare da due o tre giorni, mi resterà interamente sullo stomaco per le 24 ore successive. Quando esco, la desolazione è totale. Sento il rumore dei miei passi sul selciato mentre mi avvio verso la caffetteria in piazza, un barbone con tre cani al guinzaglio mi guarda comprensivo, forse intuisce quello che mi ribolle dentro, più di tanti altri. Il caffè è buono, la panna meno, è solo schiuma di latte. All’improvviso non mi tollero più, guardo l’orologio e penso che se faccio una corsa posso prendere il treno precedente al mio, è un Eurostar, potrò leggere in santa pace al caldo e forse mi sentirò un pò meno fuori posto. La corsa è proprio una corsa, la Matiz noleggiata sbanda sotto la pressione dei pistoni, ma ce la faccio. Quando il treno si muove, ecco, lo sapevo, che incoerenza totale, sento di nuovo quella pressione calda sotto lo sterno, umida, che qualche volta ho chiamato nostalgia, che mi fa rimpiangere il lasciare questa città magica, dove ho amato come mai in vita mia, dove c’è quella strada e quell’uomo, che forse – forse – tra qualche giorno potrebbe tornare ad appartenermi, potrebbe tornare nella nostra casa, tornare ad essere mio. Forse.

L’autore consigliato da quella che mi sta antipaticissima mi acchiappa totalmente, mi immergo nella lettura con autentica goduria, e l’impossibilità di stroncarlo come avrei voluto mi toglie l’ultima soddisfazione della giornata. Domani è lunedì, si ricomincia.