Memento

La tragedia de L’Aquila di domenica scorsa mi ha ricordato cose che credevo sepolte, buttate in un angolo polveroso di cose che è meglio dimenticare. Quelle facce impolverate e insanguinate, lo sguardo fisso nel vuoto, che cercano di seppellire l’orrore di quei secondi senza riuscirci, perchè il rumore e la sensazione di assoluta impotenza ti restano dentro, e scavano come un’unghia.

Il “nostro” terremoto, quello del 23 novembre 1980, è durato in tutto 90 secondi, articolato in due scosse principali, o almeno così me lo ricordo io.

Sembrano pochi, 90 secondi, un minuto e mezzo, un soffio di vita, un angolo infinitesimo di una giornata. Ma provate a contare lentamente fino a 90 ed immaginate che intanto la casa vi balla attorno, il pavimento ondeggia sotto i piedi, i quadri sbattono contro il muro e alla fine cadono, spaccando cornici. Gli armadi si aprono e vestiti, giacche, maglioni precipitano sul pavimento come vomitati, cadono i soprammobili e i libri dagli scaffali, il frigorifero saltella sui suoi piedini fino al centro della cucina, strappando la presa dal muro, i muri si inclinano così tanto che in bagno esce acqua dall’apertura superiore dello sciacquone.

Cadono i barattoli di marmellata dallo scaffale nel ripastiglio, colando a terra il loro contenuto. Quel bellissimo portasigarette a forma di pagoda, di smalto rosso, che bastava premere un bottoncino e si apriva, mostrando gli scomparti con le sigarette, mentre un carillon suonava il tema di Lara dal dottor Zivago: lo vedi cadere dall’ultimo piano della libreria e schiantarsi in mille pezzi, e note di carillon smembrate e stonate si sovrappongono per un attimo al rombo della terra, per poi tacere definitivamente.

Ti pare di sentire il gemito del ferro nei muri che si piega, e preghi che resista, perchè da quello dipende la tua vita. Dopo, vedrai le lacrime su 1.000 volti, le stesse che vedi oggi, e saprai che talvolta il ferro non ha retto, o forse non c’era. E ringrazi Dio che tuo padre, anche se non è stato un grande imprenditore, era almeno un uomo onesto, o forse erano tutti onesti 40 anni fa, chi lo sa, e di

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ferro in quei muri ce ne ha messo a quintali.

Un memento vecchio ma sempre valido: la registrazione, avvenuta per caso da un microfono di radio privata rimasto aperto, del rumore del terremoto. Sentitelo, e cominciate a contare fino a 90.

Vento e altro (23 novembre, mi pare)

Stasera c’è una bufera di vento, sulla mia città.

Poche cose mi agitano come il rumore del vento che sbatte imposte, persiane, fa tremare vetri e rovescia vasi. E’ un trauma che mi è rimasto da una sera di 28 anni fa. A parte il boato iniziale, l’effetto più immediato del terremoto dentro casa, che mi ricordi, era lo sbattere furioso delle persiane nelle guide, i vetri che tremavano, il rumore di cose fragili, pezzi di casa mia, che andavano in frantumi.

Adesso che sono – si fa per dire – una donna adulta e consapevole, e ho lavorato molto sulle mie paure, riesco a restare seduta più o meno composta mentre tutto intorno sbatte l’impossibile. Mi alzo solo una volta o due per accertarmi che non si siano aperte le imposte, e non si sia rotto niente.  Ripenso però con una punta di nostalgia ad una ragazzina di 15 anni che nelle sere di vento e bufera passava anche un’ora a mettere pezzetti di carta ripiegati nelle guide della persiana della camera da letto, per evitare che sbattesse, e si addormentava a fatica solo dopo essersi tappata le orecchie con le mani o col lenzuolo.

Il terremoto fu metafora delle mie paure di sempre: la casa, la cosa più stabile che esista, all’improvviso si mette a ballare. Nessuna certezza è mai stata più tale, per quella generazione. Niente sta mai veramente immobile, questo abbiamo imparato, niente è mai veramente solido sotto i piedi. Non c’è niente su cui puoi contare davvero.

Quella sera scendemmo in strada tutti insieme, dopo 80 interminabili terrorizzanti secondi, mio nonno sorretto da mio padre lungo le scale. Non molti se lo ricordano, ma le scosse furono due, in rapida successione. E il peggio fu quando i muri si fermarono, dopo la prima scossa, e due secondi dopo fu il pavimento a tremarci con un nuovo boato sotto i piedi, più forte che mai. Abbiamo urlato tutti, in quel momento. Ricordo distintamente la faccia di mia sorella livida per la paura, deformata dall’urlo.
Il portone di alluminio e vetro si era scardinato e messo di traverso, dovemmo spaccare i vetri per poter uscire dal palazzo. C’era un silenzio assoluto, irreale, apocalittico. Sembravamo gli unici sopravvissuti. Invece, come topi dalle tane, piano piano strisciarono fuori i nostri vicini di casa, tutti col terrore negli occhi, qualcuno ferito. Mi ricordo il sonno, incredibile, inverosimile, che mi prese intorno alle 11 di sera: non riuscivo a tenere gli occhi aperti, aprii la macchina di mio padre nel piazzale e dormii lì dentro, raggomitolata sul sedile davanti. Adesso so che uno stress fortissimo come il terrore chiede poi in pegno riposo, al corpo, per difesa, e lo costringe a dormire. Ma allora non mi davo pace, per avere quel sonno mortale mentre la radio continuava a dare la conta dei morti, i cognomi di gente dispersa che si cercava attraverso le radio libere, le sirene delle ambulanze.

Poi fu anche un inverno bellissimo, stracarico di neve, nella quale abbiamo a lungo camminato, in assenza di mezzi pubblici funzionanti, da una casa all’altra, in pellegrinaggi natalizi per giocare a carte, ridere insieme ed esorcizzare la paura. Un inverno di totale e sodale libertà, palle di neve davanti a scuola, il pomeriggio a studiare e le serate nella palestra Coni a smistare i pacchi della Croce Rossa, buttare in un mucchio la (molta) roba inservibile di abbigliamento che arrivava dalla generosità, diciamo così, dei nostri connazionali e farci le capriole dentro. Oppure a fare la gimcana a via Pretoria fra i barbacani e i puntelli delle case inagibili, nascondersi in mezzo, dare i primi probitissimi baci ai primi devastanti amori.
Serate intere.
Un inverno da quindici anni.

 

Non si muore, alla fine

Con i favolosi guadagni consentitimi (ehe, che grammatica ardita) da un anno di impiego pubblico ancorchè precario, ho fatto un regalo alla mamma e, visto che i vecchi si stavano silenziosamente sbriciolando e lasciavano passare i passeri, ho fatto installare ben due nuovi infissi a casa mia. Uno in camera sua, uno in camera mia. E’ quella stessa finestra che prima sbatteva quando c’era vento, terrorizzando le mie notti adolescenziali perchè il rumore era identico a quello del terremoto che avevo sperimentato di persona solo qualche mese prima.

Adesso non sbatte più. Stento a crederci, mi manca, quel rumore. O forse mi manca quella ragazzina che passava un’ora a mettere zeppe di carta nelle guide della serranda per impedirgli di sbattere.

Da un mese circa sul viadotto dopo la galleria prima di P. hanno alzato e rinforzato le paratie esterne. Barriere frangivento, dicono. Barriere tese a scoraggiare il suicidio, penso io. Sì, Fratello, è proprio QUEL viadotto. Un viadotto dal quale si sono buttate almeno 10 persone negli ultimi 7 anni, forse perchè è un posto bellissimo, alto il giusto per essere sicuri di restarci secchi, silenzioso, poco trafficato, che affaccia su bosco e campagna, falchi in volo, insomma il posto ideale per salutare il mondo. E magari qualche volta anche per decidere – senza pensarci, istintivamente – che NIENTE può essere così terribile da voler rinunciare per sempre a tutto il resto.

Ogni volta che ci passo saluto mentalmente quelle due o tre persone che conoscevo pure io, che si sono buttate da lì. E saluto mentalmente quella che è stata lì lì per farlo.

Vento

Odio il vento forte.
Lo odio perchè fa sbattere le serrande nelle loro guide, producendo un rumore del tutto simile a quello che sentii la sera del 23 Novembre 1980 anche se quella volta le persiane sbattevano perchè sbatteva tutta la casa e di sicuro ci sono stati rumori più devastanti quella sera ma io mi ricordo solo quello.
Per almeno due o tre anni dopo quella data se c’era vento di notte io restavo sveglia con gli occhi sbarrati terrorizzata cercando in tutti i modi di tapparmi le orecchie. Per qualche mese ho anche, nelle sere di vento, passata una buona mezz’ora a mettere pezzetti di carta ripiegata nelle guide delle serrande, nel tentativo di impedire loro il movimento.
A riprova del fatto che pure a 15 anni non è che fossi tanto normale e avevo anche allora le mie brave nevrosi.

E per chiudere in bellezza, una citazione letteraria e/o cinematografica. A volte ritornano.

Terremoto / 2

Come dice mio fratello, vabbè che stai incazzata, ma far venire il terremoto due volte nel giro di 20 giorni mi sembra eccessivo. Stavolta però non mi sono svegliata neppure io. O meglio, ho aperto gli occhi ad un certo punto della notte con la sensazione che il letto si fosse mosso e il cuore che mi rimbombava fra le costole. Un sogno, ho pensato. E dopo 10 secondi netti dormivo di nuovo.

Ogni giorno, una lotta nuova, come Rambo nella giungla della periferia americana. Lottare per non soffrire. Ma, come è stato già detto, soffrire serve a capire che siamo ancora vivi. E cazzo se sono viva, io.

Terremoto / 1

Svegliarsi in piena notte con il letto che balla, i mobili che scricchiolano e i muri che gemono, e il solito cupo rumore di fondo significa che è in atto una scossa di terremoto. Io ho fatto un salto dal letto che mi ha proiettato direttamente nel corridoio, e come ho fatto non lo so, novella Tiramolla sono riuscita contemporaneamente ad accendere la luce sul comodino.

E’ un fenomeno con il quale dalle mie parti abbiamo imparato a convivere. Non mi aspettavo però che la mattina dopo molti mi confessassero di non essersi neppure svegliati

Stelvio mi ha detto di non aver sentito nulla (pausa) però di essersi svegliato di colpo alle 6 del mattino. Ho cercato di convincerlo che l’essersi svegliato a quell’ora, essendo passate ormai 4 ore dalla scossa, non aveva alcuna attinenza col terremoto, ma non mi è sembrato convinto. Mi ha detto che lui è uno che prende le cose con calma.

Ieri nel mio solito tour quotidiano a piedi sono passata sotto ad un balcone, al quale avevano appena appeso il bucato ad asciugare. L’odore del detersivo mi ha colpito come una frustata, evidentemente la signora che stendeva i panni usa lo stesso detersivo che usavo io, in una situazione che mi sembra lontano anni luce, quando avevo ancora intatte tutte le mie illusioni. All’improvviso quel posto e quel detersivo e quella lavatrice mi sono mancati ferocemente, e il dolore mi ha piegato in due, lì, mentre continuavo a camminare. Signore, se fa male.