Storage

Per la modica cifra di 99 USD,  ho comprato una versione deluxe di dropbox.com, il sito che stiva nell'etere i nostri files e li sincronizza per farceli trovare freschi freschi e aggiornati da qualunque postazione li apriamo, perfino dal palmare. Adesso ho un magazzino di 52 GB, un hangar, praticamente, e presa dall'euforia ci ho buttato dentro TUTTI i miei files, ma proprio tutti, comprese tutte le foto e tutta la mia musica. Siccome spesso mi ero portata lavoro e svago da casa all'ufficio e viceversa, all'inizio è stato il caos: cartelle diverse ma con contenuti uguali, files con lo stesso nome ma con contenuti leggermente diversi, cartelle duplicate ma inserite in ramificazioni differenti. Scatoloni e scatoloni hanno riempito l'hangar, e non tutti avevano il nome sopra. A complicare le cose, la mia innata tendenza a conservare (che vale per il files ma non per i vestiti , ad esempio, che regolarmente butto perchè mi paiono vecchi e regolarmente vado a cercare una o due stagioni dopo), e un pervicace bug di cui devo ringraziare i tecnici informatici del mio ufficio, che non fidandosi di me – è evidente – hanno bloccato tutti i files vecchi quando mi hanno fatto il backup da una postazione all'altra, ormai 14 mesi fa. Non avevo l'autorizzazione per gestirli, mi diceva beffardo un messaggio di errore che compariva insieme alla crocetta rossa e a quell'odioso rumore che fa Windows quando vuole dirti che stai cercando di fare una cazzata. Mi sono servite ben quattro telefonate all'ufficio tecnico – spiegando ogni volta daccapo il problema – prima di riuscire a farmi riabilitare a spostare o cancellare i miei files. Se pensiamo che è Agosto, non mi è andata manco male. Poi ho scambiato tre mail con Todd, del servizio clienti dropbox.com, che sicuramente avrà non più di 16 anni ma mi ha aiutato a risolvere altri problemi con una chiarezza invidiabile: fai questo, clicca questo, scegli quest'altro, non ti preoccupare se fa così, però questo dovrebbe risolverti il problema. E infatti.

Per fare ordine ho dovuto aprire un sacco di files il cui nome non mi diceva niente, buttati alla rinfusa nella cartella “personali” nella quale come è ovvio va a finire qualunque nefandezza. A casa avevo addirittura una cartella che si chiamava “varie momentanee” perchè detesto i files sparsi sul desktop e quindi qualunque cazzatina ho prodotto (confronto fra i prezzi degli albergi nell'estate 2007, foto del Tenerone da spedire ad un amico per scherzo, bozze di post, avvisi condominiali, tanto per farvi capire la miscellanea) non è stata buttata, oh noo, ma è andata a finire sotto il tappeto di quella cartella. Potete immaginare che troiaio c'era dentro.

Però alla fine ci sono più o meno riuscita. Tutta la mia vita informatica occupa 26 GB, quindi metà circa dell'hangar, ben ordinata e compatta. La signorina Rottenmeier che è in me è molto soddisfatta, la Bridget Jones che è in me rimugina e non dorme e ritorna su vecchi files che ho dovuto aprire e purtroppo leggere. Post che ho cancellato (e non me lo ricordavo) però ho salvato in formato word. Post che ho scritto in bozza e mai pubblicato. Lettere d'amore di cui avevo dimenticato l'esistenza (alcune spedite, altre no). Ragionamenti fra me e me per cercare di capirci qualcosa, quella volta che ho proprio perso la testa (per la cronaca: non sono mai arrivata a capo di niente, non ci avevo capito un cazzo e la cosa acquista una tale palese chiarezza, vista così a distanza, che non ci posso veramente credere, a quanto scrivevo). Non bisognerebbe innamorarsi mai, si perde troppo il controllo della propria lucidità. Se poi l'amore non è corrisposto, o peggio lo è solo in parte, la lucidità decade definitivamente a favore di allucinazioni bastarde che ci fanno vedere l'acqua in mezzo al deserto, e i vichinghi seduti sulla finestra (questa la capiranno in poche).

Vorrei poterli cancellare, quei files. Ma alcuni di essi, credetemi, sono roba veramente bella, non dovrei dirlo io che l'ho scritta, ma se non mi fanno vomitare dopo due anni e dopo che ho riacquistato il ben dell'intelletto vuol dire che è roba buona. A parte il fatto che mi identificano come una perfetta idiota, naturalmente. Mi faccio anche un bel po' di tenerezza, devo dire, una me stessa tenerella e vulnerabile che mi è piaciuto ritrovare, anche se talvolta penso che se ci fosse stato qualcuno a darmi un bel paio di schiaffi o buttarmi una secchiata di acqua fredda mi avrebbe fatto un gran bene.

Colonna sonora della serata offerta da Gary Jules. Triste quanto basta.

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We are the world

Per almeno due motivi.

Perchè era l’inverno ’84/’85 e io e Ross lasciavamo il caldo sicuro rifugio della provincia e della famiglia e delle sicurezze  per tuffarci nella metropoli tentacolare, nella vita adulta, nelle prove da affrontare da sole, senza il paravento del liceo con il busto amico di Quinto Orazio Flacco, del banco, degli amici, della famiglia. Stare attente a non farsi scippare, a non arrivare tardi, a farsi bastare i (pochi) soldi, a studiare, a non farsi male. Alzarsi al buio il lunedì mattina, uscire nel gelo, prendere il pullmann, e all’arrivo il caffè da Mexico, borsoni in spalla, e via andare. E non può non rimanerti impresso, un inverno così.

Perchè era la prima volta che si faceva una cosa del genere, e restammo tutti incantati di fronte a voci così diverse e personalità artistiche così imponenti e multiformi che si fondevano con tanta eleganza. Poi c’era la beneficenza, l’Africa, ammazza ‘sti americani se sò forti.

E mi dispiace per la buonanima, ma a me continuano a rizzarsi i peli sulle braccia quando entrano Bruce Springsteen, o Cindi Lauper, o Bob Dylan o Ray Charles, e non quando entra lui. 

Rest in peace, Michael. Sono sempre i peggiori che se ne vanno per primi.

L’elastico spezzato

Facebook, come ha detto qualcuno, molla l’elastico teso delle nostre vite, e le fa tornare bruscamente indietro, riavvolgendo il tempo, chiudendo cerchi. Talvolta con esiti rattristanti.

F. lo conosco da quando avevamo 14 anni, abitavamo a 100 mt. di distanza, facevamo parte dello stesso gruppo di adolescenti del parco, in cerca di mattoni per costruirci quello che sarebbe venuto dopo. Alto e snello, fico, una bella faccia, un incisivo accavallato che aggiungeva fascino al sorriso. Una montagna di ragazzine ai suoi piedi, me compresa, ovviamente. Solo che a quei tempi ero molto meno spudorata, e credo lui non l’abbia saputo mai. Mi giocavo la carta dell’amicizia, eravamo spessissimo insieme.
Spianare la terra battuta di un ex cantiere dietro casa per ricavarne un campo da pallavolo in mezzo a putrelle di gru abbandonate. Gare di bob rossi nella neve, a coppie, lui davanti, tutto il peso a valle, io dietro che spingevo i concorrenti per farli deragliare o cappottare (la correttezza olimpica non era proprio fondamentale, a 15 anni). Andare a tornare insieme da scuola in autobus, in motorino, talvolta a piedi. La gita scolastica a Venezia. Scrutare insieme i nuvoloni compatti, d’inverno, intravedere il colore rossastro del cielo a neve e sognare che 5 metri compatti potessero cadere tutti insieme, di colpo, sploff, e tutto sparisce, e domani usciamo di casa dai balconi.

Intorno ai 18 anni ci siamo persi di vista, era fisiologico. L’Università fuori sede, amori adulti che cancellano le infatuazioni da ragazzini, un fiume che scorre e trascina via.

Lo ritrovo qualche mese fa. E – shock violento – non è più lui. Non somiglia manco un pò al ragazzo che era, a cominciare dalla foto. Non è solo questione di invecchiare, è scavato dentro, mostra al mondo una facciata di solitudine amara e cattiva e tristissima, che non riconosco. Si difende da qualcosa, la paura, forse, ma in modo patetico ed isterico, con armi spuntate. Praticante ai limiti del beghinaggio. Apparentemente estremista di destra, offensivo quando si parla di politica, ma in modo infantile e superficiale, come fanno i bambini. Ora leggo che è

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sulla via del ripensamento, in nome di un’etica individuale che non riesce nemmeno bene a chiarire, in omaggio a principi interiori che sicuramente hanno a che fare con le cose che gli sono piovute addosso, alcune anche devastanti, che giustificano – per carità – molto del suo atteggiamento.

E infatti il punto non è che non lo riconosco, che non scorgo più neppure un barlume del mio amico F. delle corse in bob. Il punto è avere sotto gli occhi il modo violento con il quale il tempo e le esperienze negative possono deragliare e schiantare vite, senza che il mondo intorno se ne accorga. Percepire con la chiarezza di un teorema matematico che se lasci qualcuno al punto A quando vai a riprenderlo al punto B dopo 25 anni di silenzio puoi trovare un altro. Con un’altra faccia, un altro modo di pensare, che ti è del tutto estraneo.

Un altro.
Solo con lo stesso nome.

Colonna sonora gentilmente offerta da Zucchero ed Eric Clapton.

Il pino della piazzetta

L’avviso era appeso al tronco già da tre giorni, quindi non posso dire che non lo sapevo.
Il gigantesco pino che sorge al centro della piazzetta di casa mia deve essere abbattuto, è secco da parecchi anni ed è pericoloso.
Stamattina arrivo di corsa nella piazzetta, in tuta e guanti, per fare il solito giro intorno al pino, è una specie di rito propiziatorio della giornata, i condomini che per caso sono affacciati alla finestra penseranno che sono pazza, e del resto forse lo sono, quindi che problema c’è?
Mi devo bloccare di colpo, le nuvolette di vapore che mi escono a sbuffi regolari dal naso.

Nella piazzetta ci sono i pompieri, e si stanno già arrampicando con scale e montascale su per i 30 metri e passa, armati di seghe e saracchi.

Resto a lungo a guardare l’enorme chioma scheletrita e annerita, che si staglia nel cielo azzurrissimo come se fosse dipinto. Tento di fotografarlo con gli occhi, poi da casa lo farò anche con la digitale, anche se dal balcone si vede solo la cima e la fotografia che ho fatto con gli occhi è più bella. Quando mi sono trasferita alla casa nuova, in un caldo luglio di 28 anni fa, quell’immenso gigante fronzuto e verde mi sembrò un buon auspicio contro la tristezza di aver lasciato un quartiere, amici, abitudini, negozianti che mi conoscevano da neonata. E raccogliere la tonnellata quotidiana di pinoli che produceva furono il mio primo passatempo di quei giorni, forse una delle ultime cose da bambina che ho fatto. A settembre di quello stesso anno un pirata della strada investì mia nonna mentre attraversava la strada, e lei morì sul colpo, sotto i miei occhi. Credo che quel giorno l’infanzia sia finita.

Addio, pino della piazzetta. Ho archiviato la foto, tranquillo. E da domani farò un giro intorno alla radice, in tua memoria.

Riccione

E per la cronaca, Shel è a Riccione da tre giorni per un corso di specializzazione di nuoto subacqueo.
In giorni feriali, ovvio.
Riccione a Novembre deve essere allegra come un cimitero sotto la pioggia coi cani che ululano. Shel e qualche viados a Viale Ceccarini.
Io invece l’ho vista e passeggiata alle 6 di un mattino di tarda primavera, ed era bellissima. Sono passata vicino al porto ed era tutto così fresco e pulito che pensavo non me lo sarei scordato.
Era dieci anni fa, però.

Che post del cazzo.

A whiter shade of pale

We skipped the light Fandango
Turned cartwheels ‘cross the floor
I was feeling kind of seasick
But the crowd called out for more
The room was humming harder
As the ceiling flew away
When we called out for another drink
The waiter brought a tray

And so it was that later
As the Miller told his tale
That her face, at first just ghostly
Turned a whiter shade of pale

She said there is no reason
And the truth is plain to see
But I wandered through my playing cards
And would not let her be
One of sixteen vestal virgins
Who were leaving for the coast
And although my eyes were open
They might just as well’ve been closed

And so it was that later
As the Miller told his tale
That her face, at first just ghostly
Turned a whiter shade of pale

And so it was…

Procol Harum, A whiter shade of pale

 

Ischia portrait

Mio nonno materno faceva il direttore amministrativo di un ente di beneficenza chiamato Pio Monte della Misericordia, a Napoli. Il Pio Monte aveva una sede a Casamicciola, sull’isola d’Ischia, nella quale era possibile per i napoletani piu’ indigenti fare cure termali a spese dell’Ente, che “riciclava”, per così dire, le profumatissime rette che pagavano, per fare le stesse cure, gli ospiti della I Classe. Mio nonno veniva mandato in missione a Casamicciola nei mesi estivi, e con la missione medesima poteva permettersi di portare in vacanza li’ la sua famiglia, affittando una casetta.

Il Pio Monte a Casamicciola, un gigantesco edificio di tufo, oggi e’ un rudere semi abbandonato di cui si conserva a stento la facciata, e la targa di marmo, imponente: il resto e’ invaso dai rovi, dalle erbacce, semi cadente, sfondato, dimenticato.

 
Ho passato una mattinata intera a girovagare fra i ruderi che, come e’ noto, sono tra l’altro una mia passione personale. E’ difficile raccontare l’emozione che ho provato a salire le stesse scale, a toccare le stesse porte, a calpestare gli stessi basoli che deve avere calpestato mio nonno, ogni estate per 15 anni, piu’ di 40 anni fa. Ho provato ad immaginare come doveva essere il palazzo quando aveva ancora i suoi stucchi, i suoi intonaci, quando i portoni erano lucidi e incorrotti, come doveva essere camminare per quelle stanze, che dovevano essere strutturate a meta’ fra il sanatorio – ospedale e l’ostello – collegio, visto che i candidati alle cure avevano diritto anche a vitto ed alloggio. Ho provato a sentirmi una di loro, una pensionante, a spasso per quei cortili dopo aver fatto fanghi curativi e inalazioni, a passeggio per quella via la sera, dopo aver messo il vestito buono ed essersi assicurate di avere con se’ un ventaglio.

L’edificio è interamente ricoperto di ponteggi, il che farebbe ben sperare per una qualunque ristrutturazione verso un qualunque riutilizzo, stazione termale, ostello della gioventu’, grande albergo. Ho fermato un indigeno e l’emozione si e’ fatta nodo alla gola quando gli ho spiegato perche’ ero li’ e perche’ chiedevo spiegazioni, e lui – il mondo e’ davvero piccolo – mi ha dichiarato di essere il figlio dell’ex custode del complesso, e di ricordarsi perfettamente di mio nonno. Neppure lui, pero’, ha saputo dirmi cosa vogliono farne, del vecchio e malandato Pio Monte: pare che il Comune avesse avuto fondi sia per Italia 90, sia per il Giubileo, ma non ha saputo o voluto utilizzarli. I ponteggi, non si faccia illusioni, signora, sono li’ da almeno dieci anni.

Mio nonno e’ morto nel 1985 e il suo mito di uomo buono e colto, esperto enigmista, che mi teneva sulle ginocchia insegnandomi i nomi delle cose mentre lui risolveva le sciarade (10 lettere, Mi sembra il Dio bifronte = Parmi Giano), che scriveva lettere su una enorme Olivetti e fogli di carta velina con la carta carbone in mezzo, ha aleggiato su tutta la mia infanzia felice.

E poi mia madre: mia madre in quegli anni e’ stata adolescente. Ho ripercorso la stessa passeggiata che doveva fare lei la sera, quando andava a prendere il gelato da Calise, in Piazza Marina, con quei vestiti stretti stretti in vita e la gonna larga, a campana, i tacchi a spillo, il seno bene in vista (“la Sophia Loren dei poveri” la chiama quella irriverente di mia sorella dopo aver visto le foto di mia mamma a 17 anni), la borsetta col manico corto. Mi saro’ seduta nelle stesse sedie da bar? Avro’ preso il sole sullo stesso pezzetto di spiaggia? Avro’ guardato gli stessi panorami? Il passato mi affascina, mi attira, mi ricorda chi sono e da dove vengo.

E non e’ una fortuna da poco.
Dunque, ritorno da Ischia.

L’Isola Verde, culla vulcanica di acque termali.

La prima cosa che ti colpisce a Ischia sono gli odori. Che sono essenzialmente tre, spesso si mescolano fra loro ma non tanto da non poterli distinguere:

 gelsomini. Una nuvola, una valanga di gelsomini avvolge l’isola e fa sì che all’improvviso vi giunga, soprattutto nelle ore serali e notturne, un odore speziato, dolce, antico, che vi avvolge e impedisce di pensare.
 fichi, per lo più caduti da alberi incolti, spiaccicati ai bordi delle strade e quindi fermentati. Un odore vinoso, mostoso, dolciastro, ma tutto sommato non sgradevole, se non si pensa alle mosche che banchettano sopra alle poltiglie appiccicose scure semidisciolte
 purtroppo, merda, a causa probabilmente di un sistema fognario dalla ventilazione non impeccabile. Ad ogni angolo di strada, è sempre in agguato la zaffata mortale, che guasta fatalmente la poesia dell’angolo di paesino, il muro di tufo a secco, la glicine, gli aranci e i limoni che circondano la chiesetta di campagna.
C’è poi per tutta l’isola un vago sentore di agrumi, una nota secca e amarognola carica di promesse non mantenute, di quello che l’isola potrebbe essere e non è.

Per esempio, potrebbe essere un posto dove puoi fidarti ciecamente di quello che ti viene detto, e affidarti agli isolani che gestiscono i servizi, tutti i servizi ai turisti. Sarebbe bello, ma non è così. Insieme ai microtaxi, sui quali mi dilungherò in seguito, è sempre in agguato la microfregatura, mai troppo grossa tanto da chiamare i Carabinieri, mai tanto piccola da potertene dimenticare.

Un piccolo campionario:

 decido, in un impeto di autoerotismo, di voler fare un ciclo di massaggi antistress-riattivatori della circolazione-curativi dei dolori alla cervicale. Chiedo quanto costano, e una gentile signora mi dichiara: 18 euro a massaggio. Quando pagherò, alla stessa gentile signora, scoprirò che c’è un sovrapprezzo “per il consumo della crema canforata”. Perché non mi è stato detto? Oppure perché il prezzo non è di 20 euro, comprensivi della crema canforata?
 noleggio uno scooter. Dopo 1 km. si accende la spia dell’olio. Certo, potrei tornare indietro, farlo notare al noleggiatore, chiedere un altro motorino, ma la pigrizia isolana e vacanziera ha il sopravvento: mi fermo ad un distributore, e metto l’olio più economico che c’è, che nonostante questo è migliore di quello che nell’albergo che mi ospita usano per condire l’insalata.
 in uno scicchissimo parco termale da sceicchi c’è il guardaroba-spogliatoio, con armadietti dotati di chiave per custodire gli effetti personali. L’armadietto funziona così: per chiuderlo, bisogna mettere nell’apposita fessura 1 euro. Ogni volta che lo si apre, per richiuderlo bisogna mettere 1 euro. Il milanese di turno non ci crede, a tanta esosità, e decide di fare la prova, perdendo subito il primo euro. Conviene quindi avere un’ottima memoria o un’organizzazione ferrea, e non lasciare NIENTE che vi serva, durante la giornata, dentro l’armadietto. Oppure non usarlo.
La vacanza, come la vita, andrebbe fatta due volte, per non ripetere nella seconda gli errori della prima.