Real Time o dell'avere due mani sinistre

Il secondo grande filone della mia rete preferita: un vi-faccio-vedere-come-su-fa più diretto, e quindi più umiliante. Insomma, preparatevi, con certe trasmissioni, a sentirvi delle perfette imbecilli con due mani sinistre, ovvero stavolta il “non ce la farò mai” che a Nightmare Kitchen pronuncia il pizzaiolo di Springfield (IL) stavolta uscirà dalla vostra boccuccia santa.

Clio MakeUp: una bella ragazzotta formosa con una deliziosa erre scivolata vi insegna a truccarvi. Sembra facile, detto così. Ma, sarà che io mi trucco pochissimo e ho pochissima dimestichezza con la terminologia tecnica, già al secondo passaggio sono in difficoltà. Che sarà mai un primer? e i glitter, li posso mettere sugli occhi? perchè lei chiama con tre nomi diversi cose che a vederle sembrano identiche? mentre cerco di prendere nota delle dimensioni del pennello che serve a stendere la cipria sulla faccia, lei è già al rossetto (come si chiamava quel prodotto verdastro?). “E adesso prendiamo un eyeliner viola” Viola? ma sei sicura? E come potrò mai fare quella righetta proprio sotto l'occhio, visto che l'ultima volta che ci ho provato me lo stavo cavando, l'occhio? Insomma, sono certissima che se pure avessi tutti gli strumenti (e non sono sicura basterebbe la mia camera da letto, a contenerli) e ci provassi, dopo sembrerei Sbirulino truccato da una truccatrice ubriaca.

Anche in questo caso, la penitenza non manca: prima di truccarti, Clio vuole “vedere la tua borsetta dei trucchi” (borsetta? io non ce l'ho, una borsetta dei trucchi) e anche lei ti butta via un po' di roba impiastricciata, vecchia, di colori orribili (ma che cazzo ci tenevi, in quella borsetta dei trucchi?). Però con modi più garbati di Tabatha.

Buddy Valastro e le sue torte: Buddy è un pasticciere americano con una vaga somiglianza con il capofamiglia dei Soprano, o comunque con lo stereotipo dell'americano di orgine italiana: massiccio, coi capelli neri imbrillantinati. E quindi niente è normale nella sua pasticceria: tutto è enorme, gigantesco, fuori ordinanza e misura. Da Buddy, che lavora con tutta la sua famiglia (e qui il parallelismo coi Soprano diventa più evidente) va gente con richieste assurde, che qualunque pasticciere italiano chiamerebbe la neuro: una torta a forma di camion dell'immondizia (con tanto di immondizia dolce), una torta a forma di autolavaggio, una a forma di espositore di salumeria con i salumi e i formaggi dentro (torte a forma di salumi e formaggi, ovviamente). Una torta tempestata di diamanti (veri). Una torta a forma di gigantesco infradito da spiaggia. Ok, mi fermo.

E la cosa più buffa è che io le conosco, le torte americane, ne conosco il sapore, cioè: sono secchissime, annozzano e sono ricoperte di creme disgustosamente dolci e allappose. Vanno masticate per mezz'ora come la Luisona di Stefano Benni e l'effetto agglutinante su denti e mandibole è uguale. Ecco perchè i clienti di Buddy Valastro possono solo mugolare, dopo aver assaggiato fette dell'autolavaggio di pandispagna. Comunque, onore al merito: io con i dolci sono una frana e già fare una margherita di pasta frolla con lo stampino è una impresa superiore alle mie forze. Quindi, indovinate un po'? “Non ce la farei mai”, esatto.
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Paint Your Life: è qui che si giunge all'apoteosi della incapacità dimostrata. Paint Yout Life è una trasmissione nella quale una tizietta magra e graziosa, con la vocina gentile atta a raccontare favole della buonanotte, vestita con una salopette da lavoro bianca fintamente macchiata di colore, prende delle cose e le trasforma in altre cose. Insommma, ricicla: trasforma in lampada le mollette da bucato, restaura comodini trasformandoli in sgabelli, restaura sgabelli trasformandoli in comodini, ridipinge pareti con gli stencil, cose così.

Il primo sentimento è quello della invidia totale. St'avanzo di donna, con lo stesso garbo col quale la immagini aprire un tovagliolo per metterselo sulle ginocchia in una sala da the, avvita, trapana, incolla, intonaca, monta. E tutto senza una sbavatura, senza una linea storta, senza un minimo inconveniente, senza scompigliarsi manco un capello che sia uno. Due minuti e tutto è fermo, incollato, avvitato, scartavetrato, ridipinto, montato alla perfezione. Mi ci vedo, a fare le stesse cose: ci metterei tre giorni  e alla fine sembrerebbe che nella stanza è passato l'uragano Kathrina, sarei piena di colla e vernice fino alle orecchie e mi sarei avvitata insieme le ginocchia. Però ho imparato – anche qui – parole nuove: la colla non incolla ma “tira”, le forme di cartone per disegnare figure geometriche si chiamano “dime”, e prima di ritinteggiare un mobile bisogna passare una roba che si chiama “aggrappante”.

Il secondo sentimento – diretta conseguenza del primo – è che spesso le cose che lei ricicla e restaura mi piacevano molto di più com'erano prima. E che mai e poi mai mi metterei appeso al soffitto un lampadario fatto con le mollette da bucato, o con le posate da tavola. A completare il quadro, aiutano la fatina in salopette alcune artigiane che trasformano in gioielli (orribili) qualunque cosa, dalle cialdine del caffè agli auricolari dell'iPod rotti; e un giardiniere iberofono che fa composizioni bislacche, ancorchè – ogni tanto – graziose.

Alla fine le stanze trasformate da Miss Colla a Caldo sembrano pronte ad essere abitate da gente improbabile, tipo Biancaneve e i sette nani, e non da abitanti del XXI secolo.
Ma a noi ci piace così.

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Real Time o del percorso di espiazione

Da quando ho il DT, mi sono appassionata a Real Time, rete frivolissima nella quale ho scoperto personaggi frivolissimi che però mi divertono assai. Alcune trasmissioni sono format americani riportati di peso in Italia, solo doppiati in italiano. E hanno quasi tutti una curiosa caratteristica comune: la trama. Che è composta come segue.

Il divo/diva della trasmissione arriva in un posto dove c'è un problema, passa alcuni giorni a cercare di capire quale sia il problema, fa giganteschi cazziatoni ai titolari del posto in questione, scopre altarini allucinanti (cibo decomposto, frigoriferi pieni di cadaveri, ignoranza delle più elementari regole di igiene, schifezze assortite), li umilia fino a farli piangere (la frase cult a metà puntata è sempre “Non ce la farò mai”), dà loro una seconda opportunità, all'inizio paiono avere capito poi salta fuori un piccolo problema che però viene risolto in corsa, e tutto finisce con grandi abbracci. A quel punto il divo/diva nottetempo fa ristrutturare il posto, e i gestori entrano dalla porta restano di sasso e piangono dalla gioia nel vedere il posto rimesso a nuovo senza – immagino – aver pagato un centesimo. Si piange, ci si abbraccia, da ora in poi fate i bravi, e ciao ciao verso la prossima missione.

Sono sicuramente fatti così Nightmare Kitchen (Cucine da incubo) e Tabatha Mani di forbice, nei quali i divi cacacazzi e adesso-ti-dico-io-come-si-fa sono rispettivamente Gordon Ramsey e Tabatha Coffey, e i luoghi sono rispettivamente ristoranti (trattorie, tavole calde, pizzerie, fate voi) e saloni di bellezza (parrucchiere, estetiste, etc.). Ma a pensarci bene sono fatti così anche Obesi – Un anno per rinascere, e perfino l'italianissimo Ma come ti vesti? dove due tizi, entrambi con un intollerabile accento milanese, una sul tipo sciura bionda proprietaria di boutique / redattrice di rivista di moda, e l'altro stereotipo del fashion maker, ricchionissimo ed esperto di sete e taffetà, prendono una malcapitata che – effettivamente – si veste come Scaramacai, le buttano via tutto il guardaroba dicendole chiaramente che fa cagare, incuranti delle sue proteste, le spiegano come dovrebbe invece vestirsi (e non di rado gli abbinamenti consigliati sono – ai miei occhi paesani e provinciali – molto peggio delle tenute Scaramacai), la mandano a fare spese da sola, lei regolarmente compra roba sbagliatissima, loro la umiliano un altro po' spiegandole che non ha capito un cazzo e poi la rivestono da capo a piedi, le cambiano taglio di capelli, trucco, la depilano e finalmente il cigno che c'era dentro Scaramacai compare in tutto il suo splendore, caracollando su tacchi altissimi che non metterà mai più appena finita la trasmissione, e torna dai suoi familiari con tutti gli uuhhh ohhhh aaahh del caso. Da questa trasmissione ho imparato cose fondamentali per la mia vita: che esiste un “rosa Schiaparelli”, che non si dice “quello che ti metti addosso per uscire” ma “outfit”, che gli accostamenti azzardati e assurdi se li fanno loro sono ok, se li fai tu ti fanno piangere a furia di insulti, che guarda caso tutte le tizie che scrivono per partecipare hanno vent'anni, sono alte 1,80 e pesano 35 chili. E grazie al cippo, che diventano vamp se ben vestite: provateci con me, se avete fegato.

Altra trasmissione sadomaso: Cortesie per gli ospiti, con Alessandro Borghese e altri due sciamannati, una esperta di arredamento e uno esperto di tovaglie e stoviglie (giuro) che prendono due gruppi di concorrenti (che so, due coppie, o una mamma e una figlia contro uno zio e una nipote) e vanno a pranzo a casa di ambedue i gruppi, che cucineranno (su un tema scelto), apparecchieranno tavola e mostreranno casa loro, e alla fine i tre sciamannati voteranno, e una delle due coppie vincerà. Quindi in sostanza io faccio venire gente a casa mia, la ospito e la faccio mangiare (suppongo gratis) per poi sentirmi fare le pulci sui piatti, su come era apparecchiata la tavola e pure su come è arredata la mia casa.

La mia domanda è: ma perchè? (però c'è gente felice di farlo, e io sono felice di guardare la trasmissione, e poter dire la mia pure io, almeno su casa e tovagliati).

E infine, ci sono almeno tre o

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quattro trasmissioni, tutti format americani doppiati, dove il protagonista è solo uno: l'abito da sposa. Il mio grosso grasso matrimonio gipsy US, Abito da sposa cercasi, quello dei vestiti per le damigelle, quella del fidanzato che deve organizzare il matrimonio all'insaputa della fidanzata, che io potrei anche sgozzarlo, l'amore della mia vita, se mi facesse una cosa del genere (ok, questo è di un'altra rete, come mi hanno fatto notare, ma vabbè).

In vita mia non credo di aver mai visto abiti da sposa così improponibili, montagne di tulle cosparse di strass nastri passamanerie, trionfi di meringhe gigantesche da cui spuntano solo testa e braccia, e – vero aspetto cult della trasmissione – talvolta protagoniste decisamente sovrappeso, che pur inguainate in colossali abitoni spumeggianti coccardone fiocconi e ciuffoni di raso e tulle, fanno piangere di gioia mamma e fidanzati e amiche.

Me la guardo solo per questo.

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(nella prossima puntata: Clio MakeUp, le torte di Buddy Valastro, e Paint Your Life)

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Semplificare, dicevano

La grande rivoluzione.

La penZata geniale.
La panacea che avrebbe risolto tutti i problemi della Pubblica Aministrazione.

LA SEMPLIFICAZIONE AMMINISTRATIVA. Ahhhhh.

Dimenticate i cittadini affannati a reperire documenti da allegare alle domande per poter ottenere un beneficio.
Ora c'è la semplificazione.

Quello che segue è il racconto (molto semplificato) di una ordinaria procedura amministrativa, come saranno da oggi in poi, anzi, come sono già da qualche tempo.
Rassegnatevi.
Le imprese fanno domanda ad un Ente Pubblico per ottenere un beneficio (nel caso specifico, uno sconto sulle imposte, se assumono un soggetto svantaggiato o molto svantaggiato. Ricordatevi questa dicitura, perchè la troveremo più avanti). Siccome c'è la semplificazione, la domanda viene fatta con una procedura interamente on line (bello, eh? senza muoversi dall'ufficio! il progresso! la modernità!) e quindi tutto quello che viene dichiarato è solo autocertificato. Perchè si può fare, lo prevede la legge. Che bello. Peccato però che la legge preveda anche che la Pubblica Aministrazione che concede il beneficio faccia dei controlli sulle autocertificazioni, a campione.  Un campione pari a circa il 15%. Se arrivano all'incirca 600 domande di beneficio, significa fare controlli a campione su circa 100 domande.

Quindi, sfatiamo il primo mito: “semplificare” non significa produrre meno carte. Significa che quelle carte le deve produrre qualcun altro. Nella fattispecie, la PA concessionaria del beneficio.

E cosa hanno dichiarato in autocertificazione le imprese?
Per esempio, hanno dichiarato di avere sede legale in un certo luogo, di essere aziende attive, di lavorare in un certo settore economico, di non avere pendenze con la mafia, di non essere sull'orlo del fallimento. Come si verifica tutto questo? con un certificato di iscrizione alla Camera di Commercio, che diamine. E quindi: scriviamo alle Camere di Commercio (due, perchè hanno competenza provinciale, almeno per il momento) e chiediamo i certificati. Inviamo un lungo elenco di aziende via posta certificata. Ci tornano due terzi di certificati, che bisogna accoppiare alle imprese. E gli altri? Eh, gli altri non si trovano. Perchè? Perchè è sufficiente aver sbagliato la ragione sociale (un punto, un trattino, uno spazio che ci doveva essere e non c'è, o viceversa, un numero della partita Iva) e l'azienda non si trova. Quindi ci mettiamo a telefono con i colleghi delle CCIAA competenti per territorio, e facciamo gli investigatori.

Le imprese poi hanno dichiarato di essere in regola con i versamenti dei contributi.
A chi lo chiediamo, questo? La CCIAA non lo sa. Lo sa l'INPS, però, che è destinatario dei contributi di cui sopra. Ed è quindi all'INPS che fiduciosi ci si rivolge per avere – parola che fa tremare le vene ai polsi di qualunque stagista della PA – il mitico DURC (Documento Unico di Regolarità Contributiva). Il Moloch. Lo scoglio contro cui si infrange qualunque pretesa di sempificazione. Bisogna accreditarsi con una psecifica procedura. Fare la domanda per via telematica. Non mettere nella domanda elenchi di aziende troppo lunghi. Essere precisissimi nella trascrizione della ragione sociale e/o  della partita Iva (vabbè, qui facciamo tesoro di quanto è accaduto con le CCIAA). Aspettare una risposta. Per apprendere, dopo una settimana di spasmodica attesa, che l'INPS richiede un tempo massimo di 30 giorni, per esaudire le richieste di rilascio DURC. Trenta giorni. Se sei fortunata, o se hai intavolato contrattazioni a sfondo sessuale con lo stagista maschio che sta dall'altra parte della cornetta e che sovrintende ai tempi di concessione del DURC, o se singhiozzi in modo sufficientemente convincente, forse ne basteranno venti, o venticinque. Salvo imprevisti.

Le imprese hanno poi dichiarato di aver assunto uno o più soggetti svantaggiati o molto svantaggiati, residenti nella Regione che ha emanato il bando.

Siete cittadini svantaggiati se ricadete in almeno una delle seguenti categorie:

  • siete disoccupati o inoccupati da almeno sei mesi
  • siete una donna
  • siete una persona che ha compiuto 50 anni
  • siete un cittadino extracomunitario
  • siete una persona che vive sola con un familiare a carico

Come si attesta che siete davvero residenti in Regione? che siete una donna? che avete 50 anni o più? cavolo, basta una copia di un documento d'identità! E a chi la si chiede? Ai Comuni! Quindi: estraete dalle domande gli elenchi dei lavoratori assunti dalle imprese, e divideteli per Comuni (dichiarati) di residenza. Mandate per posta elettronica la richiesta di copie dei doc di identità a TUTTI i Comuni coinvolti (una cinquantina, in media, dei quali circa 30 vi chiederanno l'invio VIA FAX) ognuno col suo bravo elenchino di cittadini per cui si richiedono le informazioni, e attendete fiduciosi le risposte. Con le stesse incognite e ansie già verificate per la CCIAA: basta uno spazio fra DE e ROSSI  che doveva esserci e non c'è, e l'Ufficio Anagrafe del minuscolo Comune di Capazzuoppolo (300 abitanti, 2 impiegati comunali, di cui uno è anche Vigile Urbano) non lo trova, il cittadino. O, peggio, vi manda la certificazione per il cittadino sbagliato. Quindi ricominciano le investigazioni, in stretto dialetto locale.  Meglio se si riesce a sapere, attivando i famosi sei gradi di conoscenza, il soprannome con cui è conosciuto il cittadino o la sua famiglia, per distinguerlo da quello omonimo.

Se poi l'assunto è un cittadino extracomunitario in possesso di regolare permesso di soggiorno, l'interlocutore è l'Uffico Immigrazione della Questura (sempre competente per territorio). E qui vi risparmio la descrizione della trafila necessaria. Per fortuna, erano pochissimi.

Riassumendo: una volta, quando non eravamo ancora così fortunati da avere una legge sulla semplificazione amministrativa, l'impresa faceva la domanda, e allegava TUTTO: certificati, copie di doc di identità, copie di stati di famiglia, copie di situazione occupazionale dell'assunto nei sei o nei 12 mesi precedenti, DURC, noccioline, caramelle, e tutto quanto riteneva utile alla bisogna. La PA riceveva il malloppetto di carte, se lo gaurdava, verificava che i dati corrispondessero alle dichiarazioni, finanziava.

Per 100 domande siffatte sarebbero bastati 10 giorni lavorativi, forse meno.
Da quando c'è la semplificazione, ne servono 50, e forse non bastano.

Dimenticate i cittadini affannati a reperire documenti da allegare alle domande per poter ottenere un beneficio. Ora, affannati sono i dipendenti della PA. E ci metteranno il quintuplo del tempo che ci avrebbero messo i singoli cittadini da soli, a raccogliere carte ognuno per sè. Intanto le imprese (i cittadini) aspettano. E questo, non ha il coraggio di dirlo nessuno: la semplificazione amministrativa ha abbondantemente peggiorato, almeno in termini di tempi di risposta, il servizio che viene reso al cittadino. Almeno in casi come quello che ho descritto.

Una semplificazione siffatta avrà un senso quando le banche dati di tutti gli uffici pubblici avranno lo stesso formato, le stesse procedure di accesso, e soprattutto saranno accessibili ed interrogabili on line da uffici pubblici diversi da quelli che ne sono proprietarie. Io mi siedo alla mia postazione e interrogo DA SOLA l'Anagrafe di Capazzuoppolo (PZ) per sapere se Pasquale Derossi abita davvero lì, ha davvero più di 50 anni,  vive davvero da solo con una persona a carico. Senza disturbare l'impiegato / Vigile Urbano.

Poi, forse, verrà un giorno che ci si potrà fidare dei cittadini tanto da non dover, nemmeno a campione, certificare alcunchè. Ma su questo, non so se basterà arrivare al quarto millennio.

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States (going and coming back) / 4

Memphis (TN) è una città decadente. O almeno, questa è la sensazione che si ha se si alloggia in centro, a due passi dalla storica Beale Street, dove impazzava BB King. La quale Beale Street sembra appunto una classica trappola acchiappa – turisti: i locali di legno antico e scricchiolante e i sedili di pelle scurita dall'uso dove si mangiano le bbq ribs con i fagioli e l'insalata di cavolo con la panna acida, e intanto in un angolo (scuro e fumoso) il gruppetto blues suona gli evergreen alternati a brani scritti dal più geniale del gruppo, sperando che fra i molti intenti a bere birre dai nomi strani ci sia il talent scout giusto. Anche il parco ha uno spazio nel quale gruppi improbabili e scalcagnati (anche se bravissimi) di blues tengono i loro concerti quotidiani, con richiesta di regolari tips. Però si annusa la fatica di vivere, la marginalità, in alcuni casi la disperazione.

L'intera strada è illuminata da neon multicolori, che riproducono lampeggiando maialini, e altri animali, e le onnipresenti parole “blues” “soul” e “King”. Però tutto sembra vecchio, e non antico, come abbandonato di corsa da profughi fuggiti in fretta, e riattato dai superstiti per avere una bolla di sopravvivenza. Mi sento però longanime e voglio sperare che sia invece così per mantenere intatto lo spirito dei luoghi, con il quale certo una bella ripulita e infissi nuovi stonerebbero. Leggo che Memphis, in piena espansione quando il Mississippi era una delle principali vie di comunicazione e di trasporto commerciale del paese, è ora una città impoverita dal trasporto su gomma e che si regge quasi

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esclusivamente sul turismo musicale: il country, il blues e tutte le forme intermedie, e ovviamente, il rock esplosivo e totalmente innovativo e spiazzante – negli anni '50 – di The King Elvis Presley.

Qusta cosa appare subito chiara dal prezzo – 36 dollari tondi – che si paga per fare il giro (corto, quello lungo costa il doppio) a Graceland, la casa-tenuta di Elvis. A cui vanno aggiunti i 10 dollari per la navetta che ti porta fin là, e però include nel prezzo la visita alla Sun Records, tre stanzette anonime nelle quali un Elvis diciottenne vinse la sua timidezza aprendo la porta e chiedendo di poter incidere un disco per il compleanno della mamma, approfittando di un'offerta promozionale: 4 dollari e avrai un vinile con la tua voce. La canzone che incise, una vecchia ballata del Sud degli Stati Uniti, era questa:

Niente di straordinario, forse: ma ascoltarla dentro quella stanzetta screpolata dagli anni (anche lì, tutto è rimasto com'era, anche se la guida assicura che in realtà lo studio funziona ancora) è stata un bel rizzamento dei peli delle braccia.

La magione in sè invece non mi ha emozionato più di tanto, è troppo “museo”, e per privacy è impossibile accedere al piano superiore, dove ci sono le camere la letto e il bagno, dove ingloriosamente The King è spirato. Con una sola eccezione: l'angolo del seminterrato con alcuni divani in pelle e un pianoforte verticale. La voce dell'audioguida si fa ispirata e attoriale e recita: “…a quel pianoforte Elvis suonò e cantò, insieme alla moglie e ai suoi più fidati collaboratori, per buona parte della notte [pausa] qualche ora prima di morire, il 16 Agosto del 1977″. Ecco, io davanti a quel pianoforte mi sono commossa (con lacrimuccia annessa).

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In quel pezzo di seminterrato, The King is still alive, a 35 anni di distanza.

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States (going and coming back) / 3

Adoro andare negli Stati Uniti perchè posso mangiare tutte le cucine del mondo, evitando accuratamente quella italiana (che mangio già tutti i giorni) e limitando al massimo quella ammeregana, che per lo più mi resta indigesta.

Quest'anno ho collezionato:

  • Thailandia (2 volte)
  • Vietnam (un ristorante dal commovente nome di “Piccola Saigon”)
  • Grecia
  • Turchia
  • India
  • Giappone (2 volte)
  • Stati Uniti (costolette con salsa barbecue / hot dog e patatine fritte  / anelli di cipolla fritti / nachos e salsa piccante / donoughts al cioccolato – non tutto nello stesso pasto)
  • ok, Italia (una ottima pizza margherita, con tutti i crismi, migliore di molte pizze mangiabili nella mia città)

Lentamente ma inesorabilmente, la via italiana alla prima colazione si sta facendo strada nel moloch dell'eggs and bacon – spremutona d'arancia – pane tostato. Oltre al benemerito Starbucks, che per primo ha aperto la strada a colpi di cah-pou-chee-now e es-preh-ssow, dando agli esuli la possibilità di provare qualcosa di molto più vicino al bar di casa che ai beveroni di acqua sporca – e caffeinosissima – della old America, le città pullulano di Starbucks-emuli, che fanno decorosi, quando non ottimi, cappuccini, espressini, latti macchiati e caffè espressi.

Che da quest'anno possono essere accompagnati addirittura dalla mollezza europea di un croissant. Vuoto, ok, siamo ancora lontani dalla perversione della possibile scelta del ripieno fra crema – cioccolato – marmellata – nutella – cioccolato bianco, ma leggeri e ben lievitati, grossi al punto giusto.

Poi, certo, sempre di esagerati statunitensi si tratta, e quindi il menù del bar americano offre anche frappuccini, frullatoni alla vaniglia, frappè latte / caffè / cocco / granella di nocciole servite nelle tinozze d'ordinanza. Il must di quest'anno erano i Refreshers beverage, al lime o ai mirtilli, ovvero grattachecche con più acqua che ghiaccio, e frutta, fettina e cannuccia.Tutti pazzi per la granita allungata.

E, per chiudere, mi resta da capire la diffidenza statunitense nei confronti dell'umile bicchierino piccolo di plastica, che, pieno a metà di espresso fumante, costituisce per gli impiegati italiani la quintessenza della sosta di metà mattina. Siamo però passati dalla tinozza – nel quale l'espresso si smarriva, laggiù in fondo in fondo, e si sentiva triste come la bollicina di acqua Lete, oltre a raffreddarsi in metà del tempo normale – al bicchierone, però di dimensioni umane: fido nel fatto che forse l'anno prossimo l'espresso double shot di Starbucks possa essere servito in un bicchiere da vino, e poi, forse, un giorno, nel bicchierino piccino picciò.
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La via è aperta.

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States (going and coming back) / 2

La strada fra Chicago (IL) e St. Louis (MO) si chiama I-55. “I” sta per Interstate, e infatti è una strada che taglia dritto o quasi in senso verticale gli Stati Uniti e collega almeno quattro stati, da Chicago fino a Memphis e ancora più a Sud. “Taglia dritto” va inteso in senso letterale: la strada attraversa le sconfinate pianure del Midwest e quindi non deve valicare montagne, ma manco collinette o falsopiani, ed è praticamente priva di curve, o quasi. O almeno questa è la sensazione che dà quando ci stai sopra: guardi davanti, e la strada si perde all'orizzonte davanti a te. Guardi nello specchietto, e la strada si perde all'orizzonte alle tue spalle. Deve essere facile fare gli ingegneri specializzati in infrastrutture stradali, da queste parti, penso: bastano una mappa, riga e squadretta. Se dovessero progettare il tratto Lagonegro – Castrovillari della SA-RC forse verrebbe loro una crisi di nervi.

Ai lati della strada dritta come un fuso si stendono a perdita d'occhio  sconfinati immensi campi di granturco e soia. Solo granturco e soia per chilometri, in lunghezza e in larghezza. L'anno scorso era tutto verde, anche perchè era fine Giugno, il granturco era ancora fresco e in germoglio. Quest'anno ci sono passata in Agosto, ma soprattutto ci sono passata dopo 3 mesi di siccità totale ed esasperante. I campi sono talmente sconfinati che non è pensabile, mi dicono, irrigarli artificialmente.  E quindi gli ettari a perdita d'occhio che accompagnano quasi tutto il lungo noioso viaggio fra Chicago e S. Louis sono, quest'anno, di un tristissimo giallo oro scuro. Un tappeto di paglia. E' tutto arso, bruciato dal sole, ridotto a ripieno per i materassi. Uno spettacolo che stringe il cuore, sembra di sentire il rumore crocchiante e sinistro che fanno le piante quando ci passa il feroce vento a 38 gradi; e dopo esserci passato per 3 mesi e oltre, non c'è rimasto più niente da seccare, tutta la vita se n'è andata, tutto il verde è stato portato via un grammo alla volta, calcinato dal sole implacabile, un giorno dopo l'altro, per interminabili settimane. Una morte atroce.

(sia chiaro: commuoversi per la sorte di piante di randini è chiaro indizio di imminente senilità)

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States (going and coming back) / 1

Il momento migliore, in assoluto, è quando dopo aver volato (mi tengo informata, sui progressi che fa la scienza in merito al teletrasporto, ma non credo vivrò a sufficienza per sperimentarla), dopo aver passato il controllo dell'ufficio immigrazione (signora grassa in divisa spesso di colore sempre sfavatissima che recita a memoria la pappardella “metti il pollice – metti le altre 4 dita – l'altra mano – foto – quanto tempo ti fermi? – ok, grazie, buona giornata“), dopo aver recuperato la valigia (evento che ha sempre un po' del miracoloso, e infatti ogni tanto non la recuperi), dopo aver passato il controllo doganale (pura formalità, guardano il form già annotato dalla signora sfavatissima di cui sopra e poi “ok, welcome in the US“), dopo tutto ciò, dicevo, il momento migliore è quando si aprono le porte e c'è mia sorella dall'altra parte, e la vacanza comincia, e noi siamo insieme, e si può piangere un pochino di gioia, abbracciandosi strette.

In genere è un momento che si tende a sottovalutare, sei stanca, non vedi l'ora di, etc. Ma stavolta invece, ben sapendo – avendolo sperimentato – che è un attimo di gioia pura, me lo sono voluto godere: mi sono fermata prima della porta a vetri automatica, per qualche secondo, per raccogliere i sensi e la concentrazione. E sono uscita.

La vacanza può iniziare.
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P.S. lo so da me, che non scrivo da un pezzo. Annotarmelo è inutile, e controproducente: in effetti, anche per scrivere questo ( e quelli che forse seguiranno, come fa ben sperare il numero nel titolo) ho dovuto fare in certo sforzo, di cui ignoro le cause.

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Magari bastasse (la raccolta di firme)

Warning: post cinico.

Dopo l'ennesimo omicidio “passionale” (una povera crista strangolata e buttata giù da un cavalcavia da un fidanzato cui non era piaciuto come le aveva risposto, o che gonna si era messa, o come aveva cucinato la parmigiana di melanzane, insomma uno dei tanti motivi assurdi e idioti per i quali gli uomini ammazzano le donne) ecco che parte l'ennesima iniziativa delle donne per le donne. Una raccolta di firme.

Riuscite ad immaginare una cosa più inutile di una raccolta di firme, se raffrontata al problema che intende affrontare? Come ha giustamente rilevato – unico finora fra i miei contatti – anche Matteo Bordone, perchè non facciamo una raccolta di firme

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contro la guerra, o la morte, o il cancro, giacchè ci siamo? A che diavolo potrà mai portare una raccolta di firme? Ad una legge in materia? le leggi esistono già, a volerle applicare: c'è un bellissimo articolo del codice penale che parla di omicidio; c'è una bella legge nuova nuova che punisce lo stalking (cioè gli atteggiamenti vessatori e persecutori che di solito precedono l'omicidio); non c'è più, per fortuna, l'attenuante del “delitto d'onore”. Cosa volete, di più? inasprimento delle pene? e magari quelle che firmano sono le stesse che sono contrarie alla pena di morte e alla detenzione preventiva.

Potremo portare il cosidetto omicidio “passionale” al massimo della pena: non ci faremo niente. La violenza sulle donne è un fatto di cultura, di humus, di sensibilità, di tessuto sociale nel quale, purtroppo, abbiamo fatto tanti passi indietro, e non sarà certo una raccolta di firme a ripristinare una cultura di rispetto e attenzione nei confronti di mogli, fidanzate, mamme, figlie, conviventi e concubine; oppure è un fatto di psicopatia individuale, su cui la raccolta di firme incide come può incidere una intervista a Scilipoti sulle politiche della NASA.

Ditemi che la raccolta di firme servirà a raccogliere fondi per attuare campagne informative ed educative per 30 anni nelle scuole elementari, e poi, a cascata, nelle scuole di ogni ordine e grado; per aumentare il numero di case rifugio per donne maltrattate; ditemi che servirà a cancellare dalle trasmissioni televisive le veline, le letterine, le stronzine, le professoresse, le vallette e tutte le donne mute o parlanti a comando però accuratamente discinte che possiamo vedere ogni due per tre, a qualunque ora, in tv; ditemi che servirà a cancellare i culi e le tette e gli inutilissimi atteggiamenti ammiccanti da spot pubblicitari, pagine di giornali, cartelloni 6×8. Ditemi tutto questo e forse – forse – vi dirò che la raccolta firme può servire a qualcosa.

Del resto, possiamo lamentarci? la cultura media italiana del 2012 porta violenza omicida sulle donne, ma ci porta anche donne giovanissime e belle che dichiarano con assoluta convinzione che è vincente chi utilizza il proprio corpo, che è vincente strusciarsi e fare moine con uomini di potere ultrasettantenni per poter avere i soldi per una borsa di Braccialini, l'affitto di costosissime case in centro, particine in infimi programmi televisivi; e quando qualcosa si rompe, nel meccanismo, è vincente che le stesse gattine sbrodolanti si trasformino in avvoltoi famelici, pronti a ricattare, vendere notizie ai giornali, sputtanarsi tutto lo sputtanabile per poter continuare la bella vita dorata di cui sopra.

Credete davvero che le due cose siano così separate? E credete davvero che basti “una raccolta di firme” per cambiare magicamente tutto questo? Io non ci credo. E' un lavoro lunghissimo e durissimo, un invertire un cammino che io personalmente vedo abbastanza irreversibile, e quindi ok, siamo contente delle tante firme che la petizione ha raccolto, ma mi sembra veramente fuori luogo esaltarsi come se si fosse vinta chissà che battaglia.

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Bollettino locale

Post di servizio per i miei concittadini.

  1. il supermercato Cafarelli ha la marmellata senza zucchero Rigoni di Asiago a 2,90 euro(*) contro i 3,95 di Iperfutura (per il quale sarebbe addirittura in offerta, a 3,95, specifico). Eh minchia, 1 euro e spiccioli di differenza su un totale di circa 4 euro a casa mia significa una differenza del 25%, mica cotica. Non vi fate fregare.
  2. le giostre a via Verrastro se ne sono andate. Lungi da me voler essere razzista, ma pare che durante i mesi di permanenza dei giostrai aumenti l'incidenza di furti negli appartamenti. E non lo dico io: lo dice la Polizia, intervenuta dopo che ben due appartamenti contigui al mio sono stati ripuliti con cura. Si può non credere alla Polizia, o gli si può porre la domanda: ma se lo sapete, o pensate di saperlo, perchè non andate a perquisire proprio lì? non troverete nulla, ma forse serve da deterrente. La Polizia non risponderà, sapevatelo.
  3. breve historia dell'asfalto potentino. Dimenticato dall'Amministrazione Comunale per motivi di cronica mancanza di fondi, spaccato dall'infido ghiaccio invernale, crepato dal sale, dalla pioggia, dagli spartineve (dall'incuria con cui è stato fatto, a suo tempo? Bah. Maldicenze), si vendica aprendosi come un cocco sotto le ruote degli automobilisti. Molti tratti di strade urbane sono ormai ridotti a tratturi di Kabul, e dove il manto stradale non è piagato come la pelle dei lebbrosi, si sono staccate toppe intere di asfalto – soprattutto intorno ai tombini – che hanno aperto buche, bucone, voragini, fra le quali spicca quella all'incrocio fra Via Anzio e Via Verrastro, una buca altrimenti detta “la porta dell'inferno” perchè è una buca antica, più volte riparata, ma sembra che per quanta roba gli si butti dentro, non sia mai sufficiente. Come nei racconti di Stephen King, è una occorrenza apparentemente anonima e inanimata (come Christine, la macchina infernale, o come la stiratrice a vapore di un altro racconto di King)  ma in realtà con una sua precisa insaziabile volontà demoniaca e malvagia, che è quella di inghiottire ruote e far spaccare semiassi e sospensioni. O forse intere automobili con i loro occupanti, bhwahahahahaha (risata satanica).
  4. E veniamo alle notizie sull'ambiente. Circola sul web e fra i blogger potentini una petizione per una raccolta di firme sotto ad un progetto di riqualificazione di un'area a ridosso della città, nella quale c'è stata, fino ad una quindicina di anni fa, un allevamento intensivo pubblico di maiali per la macellazione. Quando ero piccola, abitavo nell'area sud della città e mi ricordo benissimo che se girava il vento arrivavano 'ste zaffate di orrenda vomitevole puzza di liquami suini, e mia madre diceva “Eh, sarà la CIP-Zoo” (che si chiamava così, infatti). Ma non divaghiamo. Il progetto di riqualificazione è bellissimo, crea un'area verde di servizio, con boschetti, aree gioco, campi sportivi, un laghetto, una pista da jogging. E' talmente bello, il progetto, che sono sicura che non lo vedrò mai, campassi 102 anni come la Montalcini. Ad onor di cronaca, c'è da dire che il nostro wikiSindaco ha dichiarato su Twitter che il progetto piace molto all'Amministrazione Comunale, e che hanno stanziato già una certa cifra non banale per cominciare. Se siete interessati anche voi, potete firmare qui.
  5. proseguono i lavori di riqualificazione d' la Chiazza, la piazza per antonomasia, Piazza Mario Pagano o, come dicevan tutti, Piazza Prefettura (a Potenza quasi tutte le piazze del centro hanno due nomi, quello ufficiale e quello popolare, che non ne vuole sapere delle ordinanze amministrative e della toponomastica ufficiale). A differenza di moltissimi, che si sono scagliati contro il progetto di riqualificazione, io non sono nè favorevole nè contraria: semplicemente, aspetto di vedere come viene, prima di dare un giudizio.

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(*) update: 2,98, non 2,90 euro. Sempre di 97 cent parliamo, la percentale non cambia granchè

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L'obiettivo degli obiettivi (friday blues)

Ecco, alla fine la meta più ambita, l'obiettivo degli obiettivi dovrebbe essere questo: che possano diventare così interessanti (intelligenti/acute/divertenti/competenti) le cose che uno dice o scrive, che nessuno faccia più caso al contenitore dal quale escono. L'azzeramento della vanità formale ed estetica a favore dell'innalzamento a mille della vanità contenutistica. Chi faceva caso al fatto che Alda Merini fosse vecchia e sfatta? O al fatto che la faccia di Miriam Mafai fosse un concentrato di rughe e avesse la bocca un po' storta? Tutti avrebbero giurato che erano bellissime, perchè folgorati dalle cose che queste donne meravigliose – due fra tante, tra quelle che adoro – dicevano, o scrivevano. Sarei tentata di aggiungere alla lista anche quella culona di Angela Merkel, ma lì l'azzeramento dell'importanza dell'estetica ha a che fare con l'esercizio del potere, che è una cosa diversa, e non c'entra con quello di cui sto parlando io.
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Che sarebbe poi l'esatto contrario dell'obiettivo della Ruby o della Minetti di turno, nelle quali l'estetica del contenitore è (deve essere) così abbagliante che nessuno fa più caso alle stronzate che escono da quelle boccucce (rifatte).

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