Parigi, Charlie e io

je suis charlie

Gli attentatori, ancora prima di essere islamici, erano delinquenti. Non nel senso di quello che parcheggia sulle strisce o non paga le tasse o corrompe il funzionario pubblico, ma delinquenti nel senso di brutali assassini. Ovvero una categoria di cittadini che almeno finora mi pare abbastanza minoritaria, nel corpo di una città e di un Paese.

Gli attentatori, ancora prima di essere islamici, erano francesi. Cioè nati e cresciuti in Francia, cittadini francesi come tutti gli altri, con gli stessi diritti (fra cui uno spettacolare welfare, migliore perfino di quello italiano, che già è a alti livelli) e gli stessi doveri. E quindi è ridicola la campagna della “chiusura delle frontiere” che un Salvini tutto ringalluzzito va berciando da una settimana. Per fermare alle frontiere gli attentatori di Parigi, caro Salvini, dovevi fermare i nonni, negli anni ’70, quando tu forse non eri ancora nato.

E allora. Cosa trasforma cittadini francesi in brutali assassini?

Forse – forse: interpretazione parziale e tutta emotiva, me ne rendo conto – una qualche forma di discriminazione, sottile ed impalpabile, che comunque gli immigrati ancora patiscono nei Paesi che li ospitano. Magari sono stati umiliati da bambini per il loro accento, o per la loro provenienza. Magari hanno incontrato compagni di scuola, insegnanti, condomini che non hanno apprezzato la loro diversità, nè hanno saputo perseguire fino in fondo quella chimera inafferrabile che prende il nome di integrazione. Sembravano integrati, ma non lo erano. Forse non erano nemmeno troppo intelligenti, non così tanto da voler ricavare il meglio, da quello che un paese europeo – il LORO Paese – poteva offrire loro: scuola, diritti civili, cure sanitarie, libertà di pensiero, possibilità di fare una vita migliore di quei nonni degli anni ’70. Forse erano abbastanza stupidi da poter essere indottrinati come marionette. E la religione – il fanatismo religioso – ha dato loro solo una scusa, una motivazione accecante per vendicarsi, una volta per tutte, di quegli sfottò, di quelle incomprensioni, di quella integrazione storta e mai riuscita.

Che si fa, a questo punto? Se avessi ragione, c’è una sola cosa da fare. Si migliora l’accoglienza, si migliorano le pratiche di integrazione, si fa tesoro delle esperienze di quegli immigrati di seconda generazione o terza generazione che sono diventati insegnanti, poliziotti, sindacalisti, Sindaci. Perfettamente inseriti nella vita di un Paese, indistinguibili dai cittadini da sette generazioni. Migliorare le pratiche di integrazione NON è impedire ai bambini italiani di fare il presepe a scuola. E’ farlo, e spiegare ai bambini musulmani induisti e buddisti cosa è cosa significa. E poi festeggiare – nella stessa scuola – le ricorrenze sacre dei musulmani, degli induisti  e dei buddisti, spiegando ai bambini cattolici cosa sono e cosa significano. E invitando tutti a festeggiare tutti insieme. nel nome di una multiculturalità alla quale ormai è impossibile sfuggire, è antistorico, come sarebbe stato antistorico tentare di impedire ai meridionali di andare a lavorare nelle fabbriche di Torino negli anni ’50.

Altrimenti mi tocca tremare per la mia sorte, ogni giorno che parcheggio l’auto e scambio due parole con i miei amici “Mario” e Mohammed, uno marocchino e l’altro tunisino, che lottano per loro per i loro figli e per una vita un po’ migliore.

E infine: a me le vignette di Charlie Hebdo fanno schifo. Le trovo volgari, eccessive e stupide, e non mi fanno ridere. Se abitassi in Francia, non lo avrei mai comprato, quel giornale. Ma appunto, la mia libertà di cittadina europea civile e con 2.500 anni di storia sulle spalle è proprio questa: sono LIBERA di non comprare un giornale che non mi piace, e lascio LIBERO chiunque voglia acquistarlo di farlo. Così come lascerei libero il mio amico omosessuale di sposarsi, la mia amica incinta di abortire, mio nonno di morire come più ritiene opportuno.

Tutto il resto, è dittatura.

[La vignetta è di Angela Impagliazzo, pubblicata su Repubblica ed. Napoli]

5 cose che ho capito il 17 Ottobre 2014 alle 17:50

camminata

  1. Gli effetti di questa vittoria sono soprattutto immateriali, e credo che della loro effettiva portata ci renderemo conto fra alcuni anni. Uniremo i puntini, come ci dice di fare Steve Jobs, e ci renderemo conto che tutto stava insieme, che quello che accadrà fra 10 o 15 anni è iniziato quel giorno, con quella meravigliosa vittoria. Per esempio il recupero della dignità, dell’orgoglio, della identità di cittadini. La consapevolezza del potere immenso delle persone, quando si mettono insieme superando differenze e contrasti. La consapevolezza del potere immenso che viene dal basso, e opera senza aspettare la legge o il decreto o il cenno del potere formale. Senza sedersi davanti ad una porta chiusa con il cappello in mano.
  2.  In realtà anche se se mi guardo indietro adesso, vedo puntini che si possono unire. Vedo un progetto che si chiamava Visioni Urbane, che oltre a creare un primo embrione di una comunità di persone con lo stesso obiettivo, ha validato un metodo. Ha scardinato per sempre il modo di lavorare in una Pubblica Amministrazione, e il metodo è stato portato di peso dentro Matera 2019.
    E poi vedo Cecilia Salvia che si volta indietro durante un viaggio in macchina a Roma, nel 2006, e comincia a raccontarmi la sua idea di rapporto fra amministrazione pubblica e cultura, la sua idea di una regione più aperta e inclusiva, la sua idea di futuro. Non ho dimenticato una sillaba di quelle parole, e non ho dimenticato quel “non fatevi fregare” detto anche a me, quando le è stato chiaro che lei, quel futuro, non lo avrebbe visto. Mi piacerebbe poterle chiedere se è fiera di noi, e se siamo riusciti a non farci fregare nel modo che intendeva lei.
  3. Il mio contributo più forte alla fase finale della corsa è stata l’organizzazione della Camminata per Matera 2019. Una delle cose più straordinarie e commoventi a cui abbia mai lavorato. Perchè mi ha restituito intatto l’orgoglio per la mia lucanità, per il nostro modo ancora molto contadino di fare le cose: onestamente, lentamente, con sacrificio immane, senza il minimo clamore, “con i panni e le scarpe e le facce che avevamo” come dice Rocco Scotellaro. Per il nostro modo ancora molto contadino di ospitare un pellegrino: senza fargli domande, offrendogli subito da mangiare e da bere e un posto vicino al fuoco, uno stiavucco con pane e companatico per ripartire.
  4. Tutti hanno contribuito come hanno potuto, alla vittoria. Io ho fatto quello che sapevo fare meglio: metterci la mia faccia, e chiedere ai miei amici di fidarsi di me. Perchè ad un certo punto ho capito che serviva la collettività, quel pezzo di regione fuori da Matera che ero in grado di movimentare, e che alla fine conosco meglio. Sono stata fortunata: ho amici intelligenti, che mi hanno seguito. Beh, quasi tutti.
  5. Il lavoro – duro, durissimo, tre anni di ventre a terra con mezzo fegato sbrindellato dalle incomprensioni – paga. E paga quando c’è un obiettivo, ben definito, non troppo lontano nè troppo vicino, che riesca a coagulare l’intelligenza individuale e collettiva intorno ad un punto. Paga quando sai che quel mattoncino che stai mettendo, piccolo o grande che sia, lastrica una strada che va da qualche parte, e dove vada è chiaro a tutti. Una cosa di cui sentivo un disperato bisogno.
    Poi si poteva perdere, naturalmente.
    Però abbiamo vinto 🙂

Open Data for dummies

Riprendendo il punto 3 del post precedente, metto qui un po’ di appunti su termini di cui non s(apev)o il significato ma a furia di sbatterci la testa forse qualcosina l’ho capita (*)
Spero possa essere utile ai niubbi di open data come me.

Metriche: sono i parametri in base ai quali viene misurata l’attrattività del dato liberato. Qualcuno ha parlato di “dati sexy” per farci capire il concetto: cioè, se avete davanti una bella ragazza, non basta l’altezza per valutare il suo sex appeal, dovete vederla muoversi, parlare, camminare, misurare la proporzione dei fianchi e la taglia di reggiseno e soprattutto capire se è interessata a voi (ok, forse per gli adolescenti è l’esempio sbagliato – vale ancora il “basta che respiri”, a 17 anni? –  ma ci siamo capiti, su.) Mi pare di aver intuito che le metriche sono appunto oggetto di dibattito all’interno del mondo SOD: finora per valutare il grado di apertura di una pubblica amministrazione si è usata come metrica  la numerosità dei dataset rilasciati. Che va bene, ma se poi sono tutti dati poco utili? Capiamo invece se sono sexy! La partecipazione pubblica, la divulgazione e la qualità del riuso dei dati condivisi, insomma cosa ce ne facciamo – e SE ce ne possiamo fare qualcosa – dopo che sono stati rilasciati, sono ad esempio metriche basilari per valutare il sex appeal di un dataset. Quantità, ma anche qualità.

GitHub: E’ un posto on line dove gli smanettoni possono smanettare a piacimento, lasciando traccia del loro lavoro, così che qualcun altro possa metterci mano. Ha quindi molto a che fare con la filosofia dell’open source. Io invento un prodotto adatto al mondo multimediale, lo traduco in codici di programmazione, uno viene dopo di me e mette mano a quelle righe di codice modificando (in genere per migliorarlo, ma attendo smentite) il prodotto finale. Tutto questo può accadere se le righe di codice sono in un posto a cui posso liberamente accedere. Questo posto è un gitHub.

[questa voce, come la successiva, devo approfondirla, però, e cioè devo metterci sopra le mani, se no non capisco bene. Non mi aggredite, o voi SODdini]

Repository: E’ un armadio dove vengono conservati i codici di un lavoro (vedi sopra). Un armadio senza chiave, ovviamente. Ci sono tanti armadi, in ognuno c’è un progetto, con le sue righe di codice. Tutti gli armadi SOD stanno dentro al gitHub SOD, che è quindi uno stanzone pieno di armadi. Armadi che servono a non fare confusione fra progetti diversi, un po’ come facciamo con le cartelline dove conserviamo le bollette e le ricevute: gas, acqua, luce, affitto, condominio (sì, sono una maniacalmente ordinata)

[vedi corsivo in fondo alla voce gitHub]

(SEGUE …)

(*) Licenza cc-0, carne di porco, etc. Già sapete.

10 cose che ho capito a SOD14

Ho partecipato al mio primo raduno nazionale di Spaghetti Open Data (SOD, per gli addetti ai lavori), ovvero del gruppo di italiani che in qualche modo sono “interessati al rilascio di dati pubblici in formato aperto, in modo da renderne facile l’accesso e il riuso (open data)” . Adesso non mi metto a spiegare cosa sono gli open data e come e perché rappresentano il futuro, in rete (a partire dal sito Spaghetti Open Data) trovate tutto quello che vi serve.

Non ero poi così in ritardo: quello dello scorso fine settimana a Bologna è stato solo il secondo raduno annuale, e la stessa lista di gente che “fa cose coi dati” è nata solo nel 2010.

Cosa riporto a casa, da SOD14?

  1. Innanzitutto un tip operativo: Il programma del raduno si costruisce da solo, con il contributo e le proposte di tutti, come si conviene a raduni autogestiti, nella più pura logica barcamp. E questo è bellissimo. C’è un corollario pratico, però: se vorrete partecipare a SOD 2015, ricordatevi di prenotare albergo e viaggio solo all’ultimo momento, soprattutto se non potete stare lì per tutti i tre giorni di raduno, perché le cose che vi interessano potrebbero saltare al giorno prima o al giorno dopo, e ci perdete (è successo a me) biglietti di treno o prenotazioni di albergo non rimborsabili o modificabili;
  2. Essere smanettoni nerd aiuterebbe molto a capire di cosa si sta parlando, però non è del tutto indispensabile. E questo è di grande conforto per chi come me ha conoscenze molto limitate degli ambienti e dei linguaggi di programmazione: in realtà c’è (molto) posto anche per chi vuole ad es. imparare o condividere gli approcci più utili per diffondere il verbo, o per chi vuole sperimentare modalità alternative di farlo, o per chi vuole solo raccontare la storia (si chiama storytelling, ed è esattamente quello che sto facendo io scrivendo questo post). Cionondimeno, nella sindrome Derossi di cui sono preda da sempre, ho rosicato un po’, a non capire proprio tutto tutto quello che veniva detto;
  3. Parole nuove (vedi punto 2): hackaton, gitHub, repository. Sugli ultimi due, devo approfondire (e non è detto capisca). Sul primo più o meno ci siamo: un hackaton è una cosa nella quale a) stanno tutti seduti ad un tavolo con pc aperti davanti; b) si discute di come e perchè un programma – rigorosissimamente open source, e che faccia rigorosissimamente riferimento a dati aperti che una PA fornirà o sta già fornendo – che girerà su un sito creato apposta, potrebbe risolvere un problema dei cittadini; c) ci si divide i compiti ed ognuno si fa un pezzo di lavoro, per cui alla fine della giornata il sito è più o meno in piedi ed il programma più o meno funziona. Dettagli e rifiniture sono lasciati al buon cuore dei presenti, quando saranno tornati a casa propria. Sembra una cosa noiosissima, e forse lo è, ma con mia grande sorpresa l’interazione fra i presenti ha compreso anche un bel po’ di fuffa e perfino momenti di pura goliardia adolescenziale.
  4. Open Data non è un oggetto: è un modo di lavorare, è una filosofia di vita. Partendo da questa filosofia si possono fare cose diverse, tutte accomunate da un unico meraviglioso obiettivo: poter cambiare in meglio un po’ del mondo nel quale viviamo, quello che ci sta intorno, quello fatto delle piccole cose di ogni giorno.
  5. Ma c’è di più: a colorare un mondo di azzurro open (opendata, opensource) tutti possiamo contribuire. E possiamo contribuire “senza chiedere permesso”, senza aspettare nessuno, solo dedicando a queste cose un po’ del nostro tempo. Anche nel caso in cui i dati devono essere liberati da Pubbliche Amministrazioni (la maggior parte), possiamo fare la nostra parte portando il verbo a conoscenza di un ignaro Sindaco, o di un consigliere provinciale, o di un impiegato della Comunità Montana (certo, gli approcci per convincere la PA più vicina a noi a liberare dati possono essere diversissimi, alcuni funzionano altri no, e quelli che funzionano a Trento non funzioneranno a Palermo). Ma ci sono anche molti altri casi nei quali l’interazione con la PA non è indispensabile: la mappatura in formato aperto del proprio quartiere può essere fatta da subito, senza aspettare niente e nessuno, e così pure il monitoraggio di prodotti realizzati con i fondi pubblici, cioè nostri. Se avrai lavorato bene, sarà la PA ad interessarsi al tuo lavoro, sarà lei a bussare alla tua porta, per chiederti come hai fatto, e se può aiutarti (potrai a quel punto toglierti lo sfizio di dire “no, grazie, non mi serve niente” e il cerchio sarà chiuso)
  6. gli Opendata, quindi, capovolgono il quadro e pongono al centro dell’azione pubblica il singolo, l’individuo, il cittadino, il banomo, da solo o in gruppo, non più l’istituzione. E questo perché – Fabrizio Barca docet – l’istituzione deve rassegnarsi al fatto che nessuno può conoscere un luogo, o la soluzione di un problema più di chi quel luogo abita e quel problema vive sulla sua pelle, ovvero i cittadini.
  7. Non conta il numero dei dataset rilasciati, conta quanto utili sono, cioè quanto contribuiscono a risolvere un problema, a migliorare la qualità della nostra vita, a saperne di più su cose che ci riguardano da vicino (è seguita a questa illuminante verità una noiosa diatriba su come vengono fatte le classifiche delle città più brave ad aprire dati, ma me la sono allegramente dimenticata)
  8. Per uscire dalla caverna degli iniziati, l’obiettivo cui tendere nei prossimi anni deve essere non solo la diffusione della filosofia (vedi punto 3.) ma la semplificazione dell’output. I dati rilasciati devono cioè essere resi in forme facili, comprensibili, in applicazioni usabili da chiunque, in modo da poter essere fruiti e in modo che la filosofia sottesa possa diventare patrimonio comune. In un circolo virtuoso perfetto, il cittadino che riesce a leggere il dato aperto su un sito o su un’app e a servirsene per sé e per altri, ne richiederà ancora, e se questo accade su grandi numeri, la PA non potrà far altro che accontentarlo.
  9. Soprattutto al Sud, dobbiamo stare tutti vicini vicini, in un mutuo aiuto fra diverse aree, diverse competenze, diversi approcci, perché la filosofia open è – se non l’unica – certo una delle vie maestre per la salvezza economica e sociale del nostro territorio. Perché open

    significa ANCHE trasparente, non corruttibile, vero, portatore di lavoro pulito. La “curva Sud” di SOD14 (Matera, Palermo, Potenza, Napoli, Bari) ha probabilmente rappresentato le vera novità di questo raduno.

  10. E infine, la botta di autocompiacimento: stare in mezzo a gente di tutta Italia, con la quale si condivide una – appunto – filosofia, tutti disponibili, tutti gentili, un sacco di sorrisi, un sacco di sfottò, in un clima informale e distesissimo; far parte di un gruppo di pionieri che studiano una roba che forse sarà patrimonio comune fra alcuni anni; tutto questo è stato bellissimo, e non volevo più venire via.

Ah: il post è pubblicato con licenza CC0, fatene carne di porco.

4 cose che non so fare coi tacchi alti

tacchi 1

Scrivo questo post su suggerimento della mia amica Vania, cui piacciono (sadica) i miei racconti di sofferenza provocati dall'aver voluto indossare a tutti i costi tacchi 12.

Premessa 1: lo so, ci sono miliardi di donne che indossano tacchi alti anche per andare a fare la spesa al mercatino rionale, e non fanno tutte queste storie.
Ecco, quelle donne non sono io.
Io abitualmente giro in scarpe sportive non rasoterra ma sicuramente comode e la mia pianta larga ne è strafelice.

Premessa 2: ai tacchi 12 si abbina, imprescindibilmente, una gonna, perchè tacchi alti coi pantaloni sarebbe voler pretendere veramente troppo dal fisico boteriano – anche la Venere di Willendorf è un buon punto di riferimento – che mi ritrovo. Perchè lo preciso? Perchè se i tacchi, come vedremo fra poco, sono molto scomodi, tacchi alti e gonna stretta sono la quintessenza della sofferenza. Altro che Santa Teresa d'Avila e le sue visioni. Io, come ho già raccontato su queste pagine in altra occasione, ho una tolleranza al combinato disposto tacchi – gonna che si aggira sulle due ore (in piedi) o quattro ore (seduta), dopodichè il dolore alla pianta si fa così intenso che comincio a vedere la beata Vergine del Rosario che viene verso di me in un tripudio di nuvolette rosa e puttini angelicati, recando nelle sante mani oltre ai grani della corona anche un paio di moppine imbottite.

E poi, ci sono cose che IO non posso fare, coi tacchi alti.

1. correre. Normalmente, io ho un passo molto svelto. Non mi piace perdere tempo negli spostamenti e camminando ad andatura sostenuta si rinforzano i glutei e si bruciano calorie. Coi tacchi alti, mi obbligo ad una andatura riflessiva, al duplice scopo di non fratturarmi una caviglia e di mettere a frutto la sofferenza. Perchè, diciamocelo: coi tacchi alti si può ancheggiare con molto maggior profitto. E quindi, coi tacchi si va piano, un passo dietro l'altro, sforzandosi di tenere la schiena dritta e dondolando il dondolabile. Sembra incredibile, ma funziona.

2. sorridere. Ecco, un bel sorriso sarebbe il complemento ideale, per una andatura così accattivante. Ma io non ce la faccio. Ho prima la fronte corrugata per la concentrazione (attenta a dove metti i piedi – sampietrini, tombini senza e con la grata, marciapiedi sconnessi sono sempre in agguato) e dopo, passate le canoniche due ore, ho una smorfia di sofferenza stampata in faccia, tipo colica renale, che non riesco a dissimulare in alcun modo. Per fortuna i passanti sembrano apprezzare di più il dondolio dal lato posteriore, e quindi del sorriso non ce ne facciamo granchè.

3. mantenere la sensibilità negli arti inferiori. Non so a voi, ma a me, se esagero con il tempo di permanenza di scarpe con tacchi ai piedi, tutta la gamba, partendo dai suddetti piedi e risalendo fino al ginocchio perde sensibilità, diventa un pezzo di legno morto apparentemente refrattario a qualunque comando. Apparentemente, perchè poi riesco a camminare e guidare, e credo che occasionalmente potrei provare a prendere a calci qualcuno, ma sempre come se avessi due salame da sugo al posto degli arti inferiori.

4. ragionare lucidamente. Lentamente, anche se in modo meno evidente, anche l'afflusso di sangue al cervello comincia a diventare difficoltoso, come se le scarpe, invece che limitarsi a sollevare il calcagno da terra premendo sulla pianta (la causa del dolore è tutta lì), stringessero anche le vene e le arterie in una morsa fatale. A questo probabilmente contribuisce anche la famosa gonna stretta di cui sopra, che fascia fianchi e vita, e, se sono seduta, comprime lo stomaco sfavorendo la circolazione.  E quindi meglio stare zitta, perchè la scarsa lucidità da mancanza di ossigeno mi ha indotto talvolta a dire puttanate (più del solito, voglio dire), o a ridere come un'invasata senza apparente motivo, o a cominciare un discorso perdendo progressivamente per strada il filo logico. Se si pensa che normalmente i tacchi alti vengono messi in occasioni ufficiali, tipo matrimoni, o discorsi di insediamento di nuovi Direttori generali, o quando si deve fare la relazione della vita ad un convegno di portata mondiale, capirete bene che è meglio pensarci prima, e nascondersi in borsa un paio di pantofole, o decollété col tacco quadrato n. 5 da madre superiora, cui accedere velocemente quando tutti sono distratti.

Ed ora scusate, vado a mettermi le ciabatte.

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Senza titolo

Non so manco che titolo dare a questo post, perchè mi rendo conto che su quello che lamenterò nelle prossime righe tanta, tantissima gente ci campa, alcuni male, altri dignitosamente, altri schifosamente si arricchiscono. E vi dico subito che non sono in grado di dire chi rientra in ciascuna delle tre categorie, ma la distinzione di sicuro c'è.

Il sottotitolo però lo so. E potrebbe essere: “osservazioni banali sul turismo in una domenica di quasi estate a Roma”.

Musei Vaticani. Sono insieme ad una scolaresca di ragazzini americani delle superiori, ed i loro insegnanti. Non chiedetemi perchè, non è importante. Importante è che abbiamo una prenotazione per una visita – con guida – ai Musei Vaticani. Tempo prenotato: 4 ore. Mi sembra un tempo immenso, onestamente, ma disciplinatamente mi accodo al gruppo ed entriamo. Va bene, è una domenica di quasi estate, finalmente è bel tempo, tutto vero. Però l'atrio dei Musei somiglia molto da vicino alla idea che mi sono fatta del vestibolo dell'inferno il giorno del giudizio universale. Una bolgia di voci in tutte le lingue, una folla vociante e rumorosa che ondeggia, centinaia di cappellini magliette macchine fotografiche zainetti. E sulla folla, i bastoncini coi fazzoletti – rossi, tricolori, a scacchi, a strisce – che servono alle guide (mandriane di greggi spesso indisciplinate) a radunare le pecorelle per il passaggio nella salaa successiva. L'aria condizionata, se c'è, non è sufficiente. E complice il caldo, la gente puzza. Non so come dirlo più gentilmente: nell'atrio c'è odore di stalla e umanità compressa.

La nostra guida si chiama Valentina ed è molto brava. E' solo grazie a lei che le 4 ore passano in modo relativamente indolore. Adesso per fortuna si usano le radio cuffie che consentono a lei di parlare anche mentre cammina, voltando le spalle al gruppo, e tutti possono ascoltarla. E quindi ho modo di osservare, mentre ascolto e cammino. La gente passa. Non si ferma quasi mai a guardare, passa e basta. Una fiumana in piena che passa nelle sale dei Musei per lo più senza capirci un cazzo, senza sapere perchè è lì. Scusate, sono orribilmente razzista, ma sono sicura che il gruppo rumeno o polacco o brasiliano o americano o russo che in 3 minuti attraversa il corridoio delle carte geografiche non vede l'ora di uscire di là, e non sarebbe in grado di dire qual è la differenza fra quella sala e le stanze di Raffaello, poco oltre. Sono lì solo perchè nella loro gita-a-Roma-tutto-compreso alla riga 4 c'è scritto “Visita ai Musei Vaticani”. E facciamoci 'sta visita. E del resto fermarsi è pericoloso, perchè sei subito incalzato alle spalle dalla fiumana che incombe, e rischi di essere travolto.

Nella Cappella Sistina non si possono fare nè foto nè video. E ne sono felice. E quindi tutto quello che io vorrei è potermi fermare del tempo (minuti? ore?) a guardare. Solo guardare, a testa in su, bearmi della magnificenza di quei corpi, di quei gesti, farmene riempire gli occhi e commuovermi di fronte a ciò che non si può capire fino in fondo, tanto è più grande di noi. E vorrei farlo in assoluto silenzio. E invece no. Nonostante 4 scoglionatissimi custodi che devono ripetere ogni 3 secondi per otto ore al giorno in tre lingue “Silenzio, per favore” e “Niente foto, niente video” la folla è tanta che non ci si può fermare, concentrare, raccogliere. E il silenzio è irraggiungibile utopia: con tanta gente, basta che ognuno dica all'altro “Guarda lì” e il brusio diventa insopportabile.

Intendiamoci, non credo sia prerogativa italiana: al Louvre mi è parso uguale. L'ultimo posto dove ricordo di aver potuto godere di un'opera d'arte come dico io è stato a Milano, Chiesa di S. Maria delle Grazie, sala del Cenacolo di Leonardo da Vinci. Ingressi contingentati, tempi contingentati. Però numeri piccoli, che garantivano silenzio e concentrazione.

Mi chiedo tante cose. Mi chiedo se davvero non sia possibile restringere il numero di visitatori, invece di lasciare aperte le cataratte. Se davvero il danno economico sarebbe poi così grande, se davvero ne andrebbe della sopravvivenza stessa dei Musei vaticani (o del Louvre). Se la grandezza del luogo giustifica tutto questo, se davvero non si può pretendere più rispetto per luoghi così. Cosa penserebbero Raffaello e Michelangelo e Leonardo da Vinci se potessero vedere i giapponesi sgomitanti che passano uno sull'altro per fare una foto, peraltro identica a quella di migliaia di altri, e identica a quella che trovi ovunque su Internet e in miliardi di cataloghi stampati.

Piazza Navona. Se ti siedi ai tavolini di un bar sotto dei porticati in una delle principali strade di accesso a piazza Navona, questo è quello che vedi: la stessa fiumana di gente proveniente da ogni angolo del mondo che era dentro i Musei Vaticani, che arriva in piazza. Un flusso ininterrotto di gente che cammina. Sono vestiti tutti più o meno uguali, e tutti sono lì per un motivo: essere spennati alla grande. Cioè, quale sia il loro motivo interiore non lo so, spero sia “godere delle bellezze della città eterna” perchè è ovvio che piazza Navona in una domenica di sole è veramente bellissima. Però qualunque cosa si decida di fare, qualunque, costerò dei soldi, e molti, e darà luogo a delusioni. Se vorrai bere spremuta d'arancio e un caffè, pagherai 10 euro. Se vorrai comprare una veduta di Roma o uan caricatura, non so quanti soldi spenderai ma azzardo non meno di 50 euro. Se vorrai mangiare, ti rifileranno spaghetti al pomodoro o lasagna surgelata per un costo che a casa fai spaghetti al pomodoro – migliori – per 10 persone.

Lo so: è il business, bellezza, e tu non ci puoi fare assolutamente nulla. E so di aver detto cose banali e stupide. Però mi domando se davvero, in un mondo non dico perfetto ma appena un po' migliore di questo, le cose non possano andare diversamente.  Se le bellezze di un posto non possano essere fruite con meno ansia, meno fretta, imparando qualcosa che non sia dettata dalla buona volontà della guida. Se prima di portare le scolaresche, non sia meglio prepararle a quello che vedranno. So che molti luoghi nel mondo vorrebbero fortemente vedere arrivare quella fiumana, alzare i prezzi dei caffè, truffare i tedeschi con le caricature e i souvenir d'Italie ormai tutti cinesi, venduti a 3 euro, pagati 3 centesimi (forse).

Io, ad esempio per Matera, non me lo auguro. Non me lo augurerò mai.

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Sempre con me

Bruce Springsteen è sempre stato uno dei miei rocker preferiti. Lo era da quando a 17 anni uscì Born in the U.S.A. e rimasi folgorata prima da quel culo col cappellino appeso alla tasca e la bandiera america sullo sfondo, e poi da quelle tracce indimenticabili. A 17 anni il mondo è un posto meraviglioso pieno solo di belle sorprese, o almeno, per me era così, e mi pareva che Springsteen cantasse soprattutto questo: la strada che corre dritta davanti a noi, che puoi percorrere in tutta libertà, svoltando dove ti pare. O fermandoti, se vuoi. Una di quelle strade americane da film, una Route 66 calcinata dal sole da fare con una Harley Davidson dietro all'uomo della tua vita.

Nel corso degli anni Springsteen è stato sempre con me, prima in un walkman, poi in un lettore Mp3, mentre viaggiavo, studiavo, o correvo. Springsteen è perfetto per correre, ti pompa sangue nel cuore e aria nei polmoni anche quando ti pare di non averne proprio più e l'unica alternativa possibile sembra fermarsi.

Il 23 maggio scorso ero a Piazza Plebiscito insieme ad altre 20.000 persone, ad ascoltarlo per la prima volta dal vivo. Sono passati 30 anni da Born in the U.S.A., per me ma anche per lui. Sono passate canzoni, viaggi, corse, delusioni, paure, gioie e treni presi e persi.

Ed è successo l'imponderabile: mi sono innamorata.

Innamorata: non saprei come diversamente chiamare l'emozione violenta che mi ha procurato il mio primo concerto di Bruce Springsteen, che mi ha scosso come se avessi infilato le dita nella presa fin da quando è comparso sul palco alle 18:30, da solo, con la chitarra in mano, per un fuori programma per noi, quelli che stavano già lì ad aspettare da due ore. Fra lo stupore dei presenti, mi si sono riempiti gli occhi di lacrime. In effetti, ho pianto quasi tutto il tempo, e quando non piangevo saltavo e cantavo.

Una emozione violenta, che non mi passa. Che mi ha spinto a cercare febbrilmente file di canzoni, wikipedia, playlist, foto, notizie di giornali. Che mi spinge a cercare in continuazione la compagnia anche solo virtuale delle amiche che erano con me, e che hanno sentito – ne sono certa – la stessa violenta emozione mia. Possedute, tutte. Ipnotizzate.

Non so se per quella inconfondibile staordinaria voce arrochita dagli anni. Se per quella magnetica presenza scenica, l'empatia col pubblico, l'incontenibile energia, il magnetismo sessuale – diciamolo pure – di quelle maniche di camicia arrotolate sui bicipiti e dello spruzzo di capelli grigi. Se per quella musica, flat, brutale e priva di qualunque sofisticazione – come piace a me, perchè flat, brutale e priva di sofisticazioni sono io –  so non essere per i tecnici niente di straordinario (le canzoni, alla fine, si somigliano un po' tutte).

Forse allora per quei testi, dove ci sono quasi sempre le parole home, road e land, per me evocative in ogni caso, perchè io sono un una quercia di montagna, un pino loricato, voglio le mie radici ben salde al terreno, voglio un posto dove tornare, un nido, possibilmente sempre lo stesso, uan rete protettiva di antiche amicizie e relazioni. Testi che raccontano l'opposto di quello che immaginavo nei miei 17 ignoranti anni: niente avventura, ma invece molte delusioni e disillusioni, tanta amarezza, nostalgia e forse – forse – un lumino di speranza.  Emozioni che ci sono familiari, a noi sfigatissima generazione anni '80, troppo giovani per il '68 e ormai troppo vecchi per inventarci qualcosa di nuovo.

Una emozione violenta, ma non dolorosa, che vorrei non mi passasse mai.

Si vede che ne avevo bisogno.

Colonna sonora: Pay me my money down (la più flat di tutte)

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Smart ma non troppo

Un giorno, quando sarò vecchia, racconterò la storia dei molti appuntamenti a cui ho partecipato, che avevano come tema il futuro, la tecnologia innovativa, gli opendata, la wikicrazia, le città smart, e tutte queste meravigliose cose raggruppabili sotto lo slogan “con la rete, tutto è possibile”, e però …

…. non c'era la rete.

Questo perchè in genere questi incontri vengono fatti in luoghi molto suggestivi, ad esempio ex cave di tufo, chiese del primo Medioevo sconsacrate, antichi teatri, cantine di Chianti, rifugi antiatomici, trincee, blind rooms della CIA. Tutti posti bellissimi, con un unico problema: non arriva nessun segnale wireless di nessun gestore telefonico. E al wifi nessuno ci pensa, perchè – nonostante il titolo del convegno sia “La Rete per un domani migliore”, nessuno pensa ad assicurare la Rete dentro al bunker.

L'ultimo della serie è stato l'appuntamento di ieri sera di PotenzaSmart (gli altri incontri stamattina, oggi pomeriggio e domani mattina). Un incontro durante il quale ascoltare da esperti il futuro delle città, come contenitori di innovazione, ma anche di un nuovo modo di intendere qualità della vita,  partecipazione attiva, in definitiva un nuovo modo di fare “politica” nel senso più antico del termine, quello di “discorso sul e con il luogo dove si vive e si opera”, la polis, il centro della nostra vita.

L'iniziativa è a cura (molto meritoria) dell'Amministrazione Comunale, che ha la fortuna di avere un Sindaco ricettivo e disponibile. C'era qualche dettaglio che non mi convinceva, ad esempio le “idee per la città” mandate via mail e moderate prima di essere pubblicate, e l'impossibilità di commentare le idee altrui. Non sono un'esperta, ma ho fatto altri tipi di esperienze, diverse e più aperte: va corso qualche rischio, se vuoi mobilitare l'intelligenza collettiva. Ma insomma ero ben disposta.

Arrivo nel Teatro Stabile, mi siedo, in seconda fila perchè sono miope e voglio vedere bene relatori e schermo. Parla Giuseppe Granieri, maestro di cerimonie della serata, poi il Sindaco, poi l'Assessore alle Attività produttive (i finanziamenti per le Smart City passano per il suo Dipartimento). Sono lì per diffondere la serata al mondo, e quindi apro l'iPad e mi dispongo a twittare. Non c'è campo, per la wireless Vodafone. Sto santiando quando vedo la magica finestrella: esiste un wifi “Potenza Smart”. Beh, ovvio.

Peccato che il wifi non funzioni.
Mi sposto di sedia, qualche fila più dietro, disturbando chiunque.
Niente.

Ve la faccio breve: ho peregrinato per tutto il teatro (ultime file, destra, sinistra, palchi sotto, sopra, di fianco), fino a che mi sono resa conto che se volevo rendere conto al mondo della serata l'unica era escludere il wifi, e twittare in piedi nell'andito che separa il palco dal foyer, e per di più dando le spalle al relatore, perchè se mi giravo immediatamente perdevo tre tacche.

Il risultato è stato un braccio sinistro (quello che reggeva il tablet) formicolante, mal di schiena, autostima a zero (le signorine del servizio sala, ne sono certa, mi hanno presa per pazza: una signora nel semibuio di spalle alla sala che scrive furiosamente su un tablet con una mano sola, masticando imprecazioni), e soprattutto  l'attenzione al relatore ridotta. Ovvero, mi sono persa molti passaggi di Luca De Biase, e anche il senso complessivo del discorso, di cui posso riassumere solo alcuni punti: che dovrebbe esistere una ecologia del linguaggio, come esiste dell'ambiente; che la situazione oggi in Italia é che le posizioni di pochi bloccano lo sviluppo innovativo di molti; che una Smart City ha un  impatto forte sulle nostre vite, perchè modellare la città vuol dire modellare i suoi abitanti; che manca una visione del futuro a lungo termine, in Italia; che nonostante genio e creatività il nosto Paese non esplode perchè manca una prospettiva condivisa, ed è su quella che dobbiamo puntare.

Oggi c'è il secondo appuntamento.
Però scusate, ma io tengo un'età: vengo, ma mi siedo e non racconto niente a nessuno via Twitter. Ergo, faccio come facevo 10 anni fa, quando la rete non esisteva in forme così accessibili, e così smart. Cioè non faccio la cosa più smart di tutte: raccontare le cose mentre si svolgono, confrontando il mio pensiero con quello degli altri presenti MENTRE LE COSE ACCADONO, non dopo. In altre parole, non si partecipa, se si escludono i pochi fortunati che sono riusciti ad agganciare la rete wifi (evidentemente troppo debole) o che hanno un gestore telefonico diverso dal mio. E un evento nel quale è impedito a metà dei presenti di partecipare attraverso la rete, mi spiace, ma tutto è tranne che smart.

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Open data: una botta di ottimismo (forse)

Ieri ho partecipato via audio Skype ad un incontro che si teneva a Matera, nel quale si parlava di Open Data (o dati aperti, se siete irrimediabili italofoni). Ne parlavano esperti italiani: Ernesto Belisario, Morena Ragone, Matteo Brunati, Vincenzo Patruno.

Il movimento per la liberazione dei dati è un movimento mondiale, e il gruppo di persone che se ne occupa in Italia lo ha giustamente ribattezzato, in onore alla bandiera nazionale, e forse anche a Totò ed Alberto Sordi, Spaghetti Open Data (#SOD se ne volete parlare su Twitter, @spaghetti_folks se – sempre su Twitter – volete capire che stanno combinando). Qualche settimana fa a Bologna si è tenuto il primo raduno nazionale di “spaghettari”. L'ho seguito via Twitter per quel che potevo e pare sia andata molto bene. Uno dei frutti più carini venuti fuori dal raduno è stato Twitantonio (#twitantonio, questa volta sicuramente in omaggio a Totò) una banca dati aperta (e poteva essere diversamente?) al contributo di tutti, per inserire gli account twitter di TUTTI i candidati alle prossime elezioni politiche 2013. Modestamente, ho dato il mio minuscolo contributo, inserendo gli account twitter dei candidati PD della mia Regione (quelli che sono su Twitter, ovviamente).

Perchè se ne parlava a Matera? perchè Matera, candidata a Capitale Europea della Cultura per il 2019, vorrebbe diventare una delle (poche) città wiki italiane, ovvero una delle città nelle quali si utilizzano procedure decisionali e si scelgono policy pubbliche con il fattivo contributo dei cittadini. Cittadini attivi, che scelgono deliberatamente di partecipare a processi decisionali che li riguardano, nella consapevolezza che l'intelligenza collettiva è quasi sempre vincente rispetto a quella individuale, per quanto aperta e illuminata possa essere quest'ultima. Anche qui esiste un movimento nazionale, che si chiama WikItalia, e che ha in Riccardo Luna il suo ideatore e motore primo.

Cosa ho sentito, ieri? Tutte cose troppo belle per essere vere (questa ve la spiego fra un attimo), ad esempio:

  1. i dati sono tutti i numeri che la Pubblica Amministrazione ha in tutti i suoi cassetti, perchè fanno parte integrante del suo lavoro, e che nei cassetti restano, mentre invece sarebbe tanto utile “aprirli”, ovvero pubblicarli in un formato aperto (ad esempio un foglio Excel non criptato) perchè possano essere riutilizzati (“riutilizzo” è parola chiave: dati pubblicati senza che nessuno se ne serva … non servono – per restare nelle metafore decurtisiane). Esempi? Dati di rilevazione delle centraline antinquinamento. Dati sui furti in appartamento negli ultimi due anni. Dati sui percettori di indennità di mobilità. Dati sul numero di turisti arrivati e su quelli ripartiti, e dopo quanto tempo. Dati sui progetti avviati e portati a termine con fondi di coesione. Bilanci pubblici. Risorse stanziate per la ricostruzione di aree terremotate, come e a chi assegnate, quanto spese. E così via.
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  3. a che servono i dati aperti? Possono servire a creare ad esempio app che migliorano la nostra qualità della vita (compratela voi, una casa in un quartiere dove c'è il tasso più di alto di scippi per strada o di furti negli appartamenti). Possono servire a capire se i nostri soldi sono stati ben spesi, e alla lunga servono a smascherare bugie ed intrallazzi politici, contribuendo a ripulire la scena da corruttori e corrotti. Servono a cambiare rotta su politiche pubbliche che non hanno sortito gli effetti sperati, quindi servono a migliorarare, in un circolo virtuoso continuo, i cittadini e i loro governanti. Servono a rendere concrete parole come “trasparenza”, “apertura”, “partecipazione”.

Perchè troppo belle per essere vere? perchè io nella PA ci lavoro. E so che sarà necessario un lavoro durissimo, di martello pneumatico, non di fioretto, per:

  • far passare una norma che OBBLIGHI le PA a pubblicare i dati posseduti. Non è un caso che un entusiasmante progetto di legge, nella mia Regione, presentato in pompa magna e squillo di trombe, giaccia in un cassetto (ammesso che qualcuno si ricordi in quale cassetto) da più di un anno
  • anche quando sarà obbligatorio, convincere i funzionari a FARLO veramente. Il possesso della informazione è potere: su questo assioma si reggono intere costruzioni di carriere pubbliche. “Devi passare di qua, se vuoi sapere che succede” è il non detto su cui si fonda quasi ogni policy delle PA che ho conosciuto. Perfino in uno stesso edificio, a due porte di distanza, la mano destra non sa cosa fa la sinistra. La “filosofia del tirettuccio”, la chiamava un mio amico. Il tirettuccio è il cassetto, ove tutto scompare e nessuno – se non chi sovrintende – ne sa più nulla. Forse l'ho fatto anche io, qualche volta, perchè diffondere notizie e dati quando nessuno ti ha chiesto di farlo può essere addirittura pericoloso e farti saltare la sedia sotto al culo.

Voglio darmi una speranza di un futuro migliore, ed essere ottimista, credere che prima o poi “raw data now” diventi realtà.
Ma non lo so.

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Sarò seria

Ma non so se riesco ad essere breve, e sicuramente non sarò profonda, perchè io, come è universalmente noto, non approfondisco mai.

Mi trovo a parlare con una collega di politiche regionali per il lavoro. L'argomento mi trascina e dopo mezz'ora, sotto lo sguardo stupito e anche un po' spaventato della collega in questione, elaboro una stategia, che espongo a voce piuttosto alta. Ok, parte dai cazzacci miei, ma ho la presunzione di pensare che riguardi molti miei coetanei e non solo. Una strategia che nessun politico degno di tale nome si degnerà mai di considerare, figuriamoci, e per un motivo preciso, che esporrò a breve.

Ho 46 anni, ed in tutta la mia vita non ho mai avuto un contratto di lavoro dipendente, nè a tempo determinato, nè a tempo indeterminato, se si fa eccezione per un brevissimo periodo (6 mesi). Siccome sono piuttosto brava, e ormai ho una certa esperienza, i miei, ancorchè precari, sono contratti ben pagati, e da qualche tempo sono i committenti a cercare me, il che mi fa ben sperare per il prossimo futuro. Di sicuro però non tutti sono nelle mie condizioni. A partire dalla mia generazione a scendere (ragazzi di 35, 30, 25 anni) ci sono moltissimi che

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affrontano contratti precari, e per cifre talvolta sotto il livello della dignità. Voglio lasciar perdere il solito discorso sul non poter programmare, casa, figli, bla bla, che pure è triste. Mi concentro invece sul futuro remoto, quello nel quale io e i miei disgraziati coetanei avremo 65 o 70 anni, l'età della pensione.

Già, la pensione.

Quale pensione? Quella cui NON abbiamo contribuito, con la gestione separata? Quella dilapidata (si fa per dire) per pagare i debiti dell'INPS con la generazione che ci ha preceduto? Se ci affidassimo alla sola gestione separata, ognuno di noi, ad essere ottimista, potrà contare forse su una pensione sui 300 euro mensili. Io – che comincio ad avere l'ansia dell'indigenza – sto da tempo mettendo soldi da parte con prodotti assicurativi e fondi pensione. Ma io guadagno bene, non ho marito nè figli, c'è la casa dei miei genitori. E chi invece prende 900,00 euro al mese, e ha due bambini piccoli?
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Siamo una generazione che, se non ora, sarà povera fra 30 anni, anche meno. Fra 30 anni, sarà vecchia tutta la “generazione 1.000 euro”, che diventerà la “generazione 250 euro”, senza aver avuto nessuna possibilità di mettere soldi da parte, di comprare una casa e finire di pagarla, di affrontare con serenità gli acciacchi della vecchiaia. Una intera generazione di vecchi poveri, oltre che di poveri vecchi.

Con l'aggravante che a questo non ci pensa nessuno. Non ci pensa il governo locale, non ci pensa – figuriamoci – il governo nazionale. Per la banalissima motivazione che il governante, singolo o associato, da ormai molto tempo pensa al contingente, a chi può votare per lui domani, non fra venti o trenta anni. Banale, ma spietatamente vero: sono molto più importanti i cassintegrati fuoriusciti dall'azienda che chiude OGGI, anche se poi quelli sono assistiti da così tanti ammortizzatori e da così tanta attenzione sociale che godranno di sussidi aiuti agevolazioni al reinserimento lavorativo fino alla pensione, quella sì, assicurata senza ombra di dubbio. Come il TFR, del resto.

Eppure siamo tanti. E sarebbe anche relativamente facile pensare a noi. Che so: un incentivo a sottoscrivere polizze assicurative agevolate, previo accordo con le principali compagnie nazionali; il precario versa un contributo, quello che può permettersi, lo Stato – o la Regione – versa il resto. Oppure un sussidio per chi resta senza lavoro, nelle more fra un cocopro e un altro. Una decisa politica per incentivare le stabilizzazioni, e magari disincentivare cocopro di tre mesi in tre mesi, o contratti “di consulenza” con partita Iva che nascondono cocopro che nascondono lavoro dipendente, senza esserlo.

Insoma, prevedere qualcosa per noi, che nella classifica della sfiga NON CONTINGENTE, MA FUTURA, me lo si consenta, stiamo al gradino di sotto, rispetto all'operaio cassintegrato. Con tutto il rispetto, e con tutto lo schifo che mi viene al pensiero che si tratti, alla fine, di una guerra fra poveri.

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