No me gusta mas

Eh beh sì, oggi nevica. Forte. 15 cm. Passano gli spargisale, le strade sono perfettamente percorribili. Chi abita in periferie montuose, per esempio Stelvio, ha una jeep con le catene, ed è arrivato al lavoro con 10 min. di ritardo.

Mi sono rotta le palle pure io di questi intermezzi idioti sul tempo, ma non ho più voglia di scrivere. Il motivo non mi è sconosciuto, anzi mi è pefettamente chiaro, ma non posso scriverlo (appunto) perchè mi sono rotta pure di dover affrontare l’ennesima ansia su questo tema.

Era una bella cosa, il blog. Poi me ne hanno fatto perdere il gusto. Vaffanculo, spero che la vita gli riservi solo amarezze. 

Resistenza alla cura

La mia vita è un casino. Non c’è una fetente di cosa che quadri con tutto il resto e/o che sia regolare come lo era prima. Il corpo mi si rivolta contro più che mai, adesso siamo ai ritardi strategici nei cicli, strategici nel senso che non ho idea a che cosa siano dovuti, e quindi sospetto la psicosomaticità, che avrebbe in questo caso trovato un modo particolarmente subdolo per farmi capire che non apprezza il mio lavoro terapeutico, un pò come Linda Blair che faceva tremare i muri di fronte alle spruzzate d’acqua santa ne L’Esorcista.

Ma prima di arrivare a questa ardita conclusione, ovviamente, dovrò fare un altro tour medico-ospedaliero.

Che cuglia, come si dice dalle mie parti.

Però è dura

Appena scavalchi un muro, o lo abbatti a testate, o scavi con le unghie un varco per passare, scopri che dietro ce n’è uno più alto.
Lo diceva anche Murphy: “Dietro ogni grana piccola ce n’è una più grande che sta lottando per venire fuori”.

Che palle, però.

E come se non bastasse, il monito tardo cattolico angosciante del guru: “Ricordatevi che non sapete nè il giorno nè l’ora”. Sgrat.

Terapia di gruppo

In realtà non è che non ho niente da scrivere. Di roba ne avrei. E’ che non riesco più ad organizzarla, perchè non l’ho ancora chiara, è una valanga di pensieri scoperte supposizione dimostrazioni. Sto facendo un ottimo lavoro, dice il guru. In gruppo più che in individuale. Stasera per esempio sono sfinita, oggi c’era il gruppo del mese e per me era la prima volta. Venti persone in un capannone industriale gelido e spoglio, in tuta e calzini di spugna. Mezz’ora a respirare, facendosi aiutare (sembra assurdo, dover essere aiutati a respirare, ma è così). Mezz’ora a respirare e tirare fuori la voce, a bocca aperta, fino a che il capannone non sembra pieno di indemoniati da esorcizzare. Il diaframma si contrae, la gola si serra, e allora tenere duro, apri la bocca, urla, insisti, fino a che non viene la tosse o l’urto del vomito. E insieme a quelli una valanga di emozioni, di pensieri, che non riesci ad afferrare tutti. Ma non importa, se sono venuti fuori si piazzeranno in testa e prima o poi verranno fuori uno alla volta ordinati come soldatini alla parata.

Aver imparato a non fare soffrire nessuno.
Aver contrabbandato l’eccezionale intelligenza con esibizioni da scimmietta ammaestrata, per coprire altre emozioni più devastanti.
Avere imparato a fare finta di non capire, a seppellire discorsi, a deviare fiumi in piena con la forza delle mani.
L’anoressia infantile diventata bulimia, riempire la bocca per non urlare, per non esprimere emozioni che fanno soffrire sè stessi e gli altri e quindi mortali.
Aver ricacciato in gola pezzi importanti della costruzione della propria autonomia, del proprio sè.
Essere speciale, indossare la maschera del genio (“ma tu quanti giga hai nella testa?” mi diceva un mio ex socio che pure non posso dire mi amasse alla follia) per essere considerata viva e meritevole di affetto.
Pretendere il massimo da sè stessi per poter essere apprezzati dagli altri, non concedersi mai una pigrizia, rispettare ossessivamente i rituali se no il mondo frana.
Non dire mai no.

Stasera sono distrutta dalla fatica, ma la mia faccia allo specchio mi sembra diversa.
Non so, forse sono gli occhi, più morbidi, più luminosi.
Forse sono solo stronzate e ho bisogno di dormire.

Regredire

Sono lì, io adulta, in piedi. Nell’angolo della stanza che ricordo in ogni dettaglio – la libreria svedese, le poltrone colorate, la scrivania – c’è una bimba di tre anni con i codini biondi a cavaturacciolo come Buffy di Tre nipoti e un maggiordomo. Giocava con un tagliacarte, forse cercava di forzare qualcosa, forse l’ha fatto apposta, forse è stata solo maldestra, insomma si è ferita profondamente alla mano destra. Esce sangue, ma lei non piange, non urla, non corre di là cercando la mamma che sta cambiando i pannolini ad una sorellina nuova di zecca. Forse ha troppa paura per muoversi, forse è solo curiosa di capire che le sta succedendo, forse – insinua il guru – le è stato insegnato a non mostrare emozioni forti, a non disturbare se sa che la mamma è impegnata.

L’io adulta si sente sciogliere di tenerezza di fronte a quell’io bambina tremante e sanguinante. Spinta dal guru, avanza verso di lei, la prende in braccio, le dice di non avere paura, di non preoccuparsi, che non è niente. La fa ridere, le disinfetta e fascia il dito. La stringe forte, le dice che è tutto passato.

Crescerai, ma non farà male. Te lo prometto. Ci sarò io, ad abbracciarti.

Cambiamenti

Ho tagliato i capelli. Non cortissimi, ma un bel pò più corti di prima.

Grazie alle amorevoli cure del mio dentista, sto ricominciando a masticare dal lato destro, e sento il collo che scricchiola, si vede che masticare solo a sinistra mi aveva storto qualcosa nella postura vertebrale, che adesso torna a posto.

Ricomincio a fare jogging, 4 km. al giorno ogni giorno alle 7 del mattino. Mi fanno male tendini, i calli, le ginocchia, però respiro.

Qualcosa ricomincia a muoversi, dentro, dopotutto.

Che guru

Racconto tutto  in terapia di gruppo e il responso che viene fuori dalla Sibilla è che i dolori sono una somatizzazione che contrae fino allo spasimo il diaframma e i muscoli della parte alta della stomaco, che io confondo con il cuore. La contrazione è la mia risposta alla paura di provare emozioni. Emozioni che qualcosa dentro di me ritiene devastanti, evidentemente, tali che ne morirei se mi rassegnassi ad accettarle. Da qui, per la legge del contrappasso, l’angoscia di morte. Il fenomeno di negazione che mi contrae la panza risale alla primissima infanzia, secondo il mio guru. In quel tempo uno o entrambi i miei genitori mi hanno proibito di provare emozioni, o mi hanno indotto a credere che provare emozioni fosse devastante. E siccome ribatto con veemenza che mi sembra abbastanza evidente che non mi sono poi così tanto trattenuta dal provare emozioni nella mia vita, mi viene risposto che il blocco rimosso ovviamente non riguarda TUTTE le emozioni, ma solo alcune, o forse solo una. QUALE o QUALI esattamente, lo sapremo alla prossima puntata.

Sparire nella tana di conigli

E’ servito a poco, ieri sera ho avuto una crisi coi fiocchi, una di quelle che ti devi solo sedere o stendere e aspettare che passi. E infatti dopo un pò, minuti, molti però, è passata. Avevo sempre male al cuore, ma almeno non mi girava più in testa ossessivamente il pensiero oddio oddio sto per morire muoio muoio e nessuno se ne accorgerà fino a domattina.
Mi fa male un braccio, il sinistro, e penso che sia un problema di circolazione e che quindi l’infarto sia in agguato. Sono convinta che il cuore mi si stia ingrossando, miocardiopatia dilatativa si chiama, ho letto su una rivista di divulgazione medica che uno dei sintomi è provare lo stimolo di fare colpi di tosse anche se non si ha la tosse e anche se non ci è andato niente di traverso e io guarda un pò ho proprio una tosse così. Prima o poi mi stenderò a letto e sentirò di non riuscire più a respirare, è così che poi succede.

Poi di solito mi addormento, stringendo convulsamente in mano il cellulare perchè se proprio sto per morire vorrei chiamare qualcuno per salutarlo, il mio primo amore, la mia amica d’infanzia-adolescenza-giovinezza-maturità, vorrei chiamare lui per dirgli guarda lascia perdere ti perdono tanto sto per morire anche se sei stato un vigliacco bugiardo però non venire ai funerali se no mia mamma sviene e mia sorella ti butta fuori dalla chiesa a calci.

Mi addormento come un’idiota facendo scorrere su e giù l’elenco dei nomi nella rubrica, ho scoperto che non so com’è ma mi rilassa e attenua l’ansia, ad un certo punto mi rendo conto che sono ferma sulla C perchè mi sono addormentata, e non faccio in tempo a pensarlo che ridormo. Poi la mattina mi sveglio serena ed energica, talvola molto energica, e dubito che una cardiopatica si sveglierebbe così, quindi mi dico che non ho un cazzo e la devo finire di farmi ‘ste pippe. E non telefono a nessuno, non perdono niente, non ripesco amori di gioventù.

La tana dei conigli

La mia massima aspirazione in questo momento sarebbe scavarmi un buco nella terra, molto profondo, una tana come quella dei conigli, sprofondarci dentro, richiudere da sola il buco come fanno le talpe e sparire. Non per sempre, però per un bel pezzo. Tipo letargo. Tanto fuori piove a dirotto, non ho dove cazzo andare e sono socievole come Hannibal the Cannibal. Non voglio vedere nessuno. Non voglio fare niente. Non voglio che il telefono squilli, infatti per precauzione lo staccherò fra un minuto, e ho spento il cellulare. Voglio che il mondo mi dimentichi, non ci sono, non sono mai esistita, sto nel mio confortevole buco caldo come un utero ed è tutto silenzio. Posso chiudere gli occhi e dormire e sperare che non mi girino in testa sempre le stesse immagini, le stesse frasi, le stesse facce. Non voglio sapere niente, non voglio che mi raggiungano notizie dal mondo. Non me ne frega un cazzo di chi ha fatto cosa, delle date, delle scadenza, sai la novità? Non la so, e non la voglio sapere. Non voglio novità. Voglio essere quello di Castaway, e col cazzo che cercherei di andarmene. Un’isola deserta, ecco quello che ci vorrebbe. Senza facce, senza telefoni, senza citofoni, senza mail, senza sms, senza possibilità di soffrire se non per fatti fisici, corporei e banali, e come unici problemi procurarsi il cibo, fare il fuoco, trovare di che coprirsi e contare le stelle. Problemi come quelli ti tengono impegnata tutto il santo giorno, e dopo dormi, beato come un infante all’alba del mondo, ripieno di noce di cocco e spigola oceanica. Io non sarei mai tornata, fossi stata al posto di Tom Hanks. Il peggio che mi poteva succedere era diventare pazza, e questo avrebbe ancora di più contribuito alla mia pacifica uscita dal mondo. Non avrei potuto nemmeno molestare i bambini davanti alle scuole, non ci sono bambini nè scuole, su un’isola deserta, nè in un buco nella terra. La metafora non è casuale. Quando hai toccato il fondo, non è detto sia finita. Puoi sempre cominciare a scavare, diceva un mio amico.

Ne scrivo di puttanate, il sabato sera.