Prima di Natale ho avuto le geniale pensata – ad una bionda francamente non si può chiedere di più, come dice una mia amica francese – di andare a darmi una ritoccata ai capelli, che mi facevano sembrare lo spaventapasseri del Mago di Oz. Da circa un mese una mia amica mi martellava la salute chiamandomi apposta per incoraggiarmi ad andare da suo figlio, che aveva appena aperto con sfarzo di lustrini e rullo di tamburi un salone di parrucchiere firmato, a sentir lei niente di simile in tutto il centro sud.
Fino ad oggi e oramai da circa 15 anni sono cliente di una simpatica coetanea di campagna, che ha aperto un saloncino nel garage di casa sua in mezzo a ettari di campi coltivati a grano e raggiungibili solo con la jeep; a parte il panorama, il vantaggio della mia fidata coiffeuse è che costa 8 euro per un taglio onesto e duraturo e una messimpiega che si camuffa benissimo come cittadina.
Sfinita dalle insistenze, ho ceduto e un pomeriggio nevoso ho tradito la via vecchia e sono entrata nel megasalone firmato. Prima di poter fare questo, ho dovuto telefonare e contrattare a lungo per un appuntamento, un’ora del prezioso tempo del giovane mago sembrava irraggiungibile come una ecografia alla ASL, e alla fine per generosa concessione (“vabbè, arriveremo un’ora prima”) ho fissato l’appuntamento.
Il megasalone è vuoto. A presidiarlo, un giovanotto coi capelli lunghi e due ragazzine di 27 chili ciascuna.
La prima scoperta già mi suona male: in realtà il figlio della mia amica è il fidanzato della parrucchiera, che è una delle due giovani anoressiche; l’altra è la “responsabile del settore lavaggi”, (?? la sciampista, vorrai dire); lui è il p.r., e infatti non sta zitto un secondo, scassandomi gli zebedei dopo i primi 3 minuti, mi fa vedere il locale, mi fa sedere, mi offre il caffè, mi accende un minuscolo televisore dove sfilano giovani nordiche con i capelli acconciati da un tappezziere ubriaco, mi porge una rivista, mi fa domande, mi rimprovera amorevolmente perchè non ho specificato che volevo i colpi di sole, ma ho parlato di tinta (“eh, eh, la prossima volta, eh, ricordati, colpi di sole”), mi gira intorno, e finalmente si accuccia in un angolo a rispondere a telefono.
La maga del capello, che sembra aver appena finito di giocare con la Barbie, mi si avvicina e comincia e coprirmi di capelli di una poltiglia bavosa che poi copre con la stagnola. Mi accende un casco rotante e mi lascia lì, con le nordiche in passerella. Il locale intanto continua ad essere drammaticamente vuoto. Lui sembra cogliere il mio sguardo interrogativo e mi rassicura: prendiamo gli appuntamenti uno per volta, per essere sicuri di fare le cose per bene. Mi verrebbe da chiedere come mai allora ci sono circa 20 poltroncine, bastava un loculo monouso, ma ho paura della prolissità della risposta.
La piccola coiffeuse approfitta dell’attesa per criticare con voce flautata i miei colpi di sole precedenti, lodando viscidamente il colore naturale dei miei capelli. Mi spacchetta e mi invia alla responsabile del settore lavaggi, che mi sciampa con essenze al timo giamaicano e mi scamazza il cuoio capelluto mentre il p.r. cerca di convincermi che lei ha studiato la conformazione del cranio umano, ed è per questo che fa massaggi così speciali.
E’ il momento del taglio. La ragazzina mi guarda per alcuni minuti nello specchio, con uno sguardo così assente che temo si stia per sentire male. Invece mi sta studiando. Prende le forbici, e dopo altri 5 minuti di meditazione taglia una ciocchetta di qua, una di là, tre capelli sopra, tre sotto. Poi, spossata dallo sforzo creativo, attacca il phon. Cerco di dirle che sono venuta perchè intendevo anche aggiustare il taglio in modo un pò più deciso, e che se volevo togliermi tre doppie punte sapevo farlo da sola, ma lei mi abbassa la testa con un gesto da boia e inizia ad asciugare. Ho gli occhi e la bocca pieni di capelli, e il p.r. ne approfitta per massacrarmi definitivamente gli zebedei chiedendomi ogni tre secondi “come va”.
Alla fine, ho una faccia diversa, lo ammetto. I capelli mi spiovono sulla faccia, e sono più biondi che mai. Sembro uno scopettone stinto con la candeggina. Mi avvio, poco convinta, alla cassa. Il p.r. sta facendo i conti. 15 euro la messimpiega, 30 il taglio, 15 il trattamento (l’essenza di timo giamaicano, suppongo) e 40 euro i “colpi di luce”. Totale, 100 euro tondi tondi. Impallidisco, e vengo sorretta dalla responsabile del settore lavaggi mentre i suoi complici mi riempiono le tasche di campioncini, legacci per i capelli, biglietti da visita e prezzari (eh già ..)
Maledico mentalmente la mia amica, e riabilito in un solo colpo il mio ginecologo, che almeno per depredarmi i suoi 120 euro ha dovuto prendersi una laurea, una specializzazione e vincere un concorso come primario di un’Azienda Ospedaliera. La stronzetta ha 22 anni, la terza media, e ha fatto un corso a Milano di tre mesi con altre fottute sciampiste come lei. Ha lavorato su di me per 50 minuti, e il prezzo delle materie prime, compreso il volo dalla Giamaica, può essere al massimo di 20 euro, ma è grasso che cola.
Una settimana dopo, mi lavo i capelli a casa, e torno ad essere come per magia lo spaventapasseri del Mago di Oz. Con una differenza: ora sono anche incazzata come una iena
Alla fine …
“Storta va, deritta vene
sempe storta nun pò ‘gghj
spisso ‘o mmale porta ‘o bbene,
pò tardà, ma adda venì!!“
(antico mantra partenopeo di autoincoraggiamento)
Ho ragione o no?
Dagli spazi siderali, con meccanismi magici dei quali, lo confesso, mi sfugge il funzionamento, tanto mia sorella quanto – soprattutto – il suo bagaglio sono spuntate dalle porte automatiche del terminal arrivi di Napoli Capodichino. Mi sono sentita molto meglio per circa 48 ore, fino a che non si è prospettata l’ipotesi della consueta partenza natalizia appunto per Napoli, con la complicazione 2003: la neve. Stamattina abbiamo tentato, io e la germana, di andare fuori città a trovare un’amica: dopo i primi 2 km. di situazione progressivamente peggiore (città, acqua; strada statale, nevischio; strada provinciale, 10 cm. di neve fangosa; stradina di campagna, neve alta) la macchina ha slittato, mettendosi di traverso e ci sono voluti un quarto d’ora di manovre e tanta buona volontà per voltare la capa al ciuccio e tornarcene a casa.
Quindi la partenza domani si prospetta più ansiogena che mai, bisogna farci accompagnare alla stazione, in orari in cui la persona che ci deve accompagnare possa accompagnarci, prendere una tradotta militare sulla quale non siamo sicuri di trovare posto, viaggiare tre ore circa fermandoci in TUTTE le stazioni e chiedere a qualcuno di venirci a prendere a Napoli. Il tutto deludendo ferocemente il mio uomo, che mi aspettava per la mattina, visto che il 24 è anche il suo compleanno.
Il solito nodo aggrovigliato di desideri familiari, di tentativi di non scontentare nessuno finendo con lo scontentare solo la sottoscritta. Poi dice che ho le lipotimie e la colite e l’ulcera e i brufoli psicosomatici
BUON NATALE !!!
Stress natalizio
Ragazzi, come sono stanca.
Da una settimana affronto i miei fantasmi con più determinazione del solito, mettendoci anche azioni, voglio dire, oltre che pensiero, e la battaglia mi consuma parecchie energie. E non ho ancora affrontato il più spettrale di tutti: l’incubo congiunto volo aereo – terrorismo – neve/maltempo in genere – ritardi – scioperi, che sarà il mio nutrimento fra domani sera sul tardi e domenica ora di pranzo (se tutto va bene).
Se la congiunzione astrale è favorevole, lunedì mattina potrei essere una donna già molto più tranquilla, e forse un pò meno a pezzi.
… e lo dicono pure i film
Avevo seguito distrattamente la prima puntata de La Meglio Gioventù, mi pareva un polpettone senza capo nè coda, ma forse dipendeva anche dalla circostanza che ero davanti ad un televisore grande quanto uno schermo di pc, su cui si vede la CNN inglese ma non tanto bene il primo canale (misteri delle antenne).
Ho seguito con molto maggior interesse la seconda puntata, e con vera dedizione la terza, ieri. Una specie di premonizione mi aveva fatto parlare, nel blog di ieri, di serate di feste natalizie passate a giocare a mercante in fiera, a casa mia. Ecco, c’era precisamente l’atmosfera che si respirava nella scena della sera di Capodanno del film (suicidio escluso, ovviamente), quella confidenza familiare, quei bonari sfottò per individuare chi dovese fare il mercante, le stesse identiche parole per avviare l’asta (“Per questo sontuoso mucchietto di carte la base d’asta è .. 1.000 lire!”), lo stesso tavolo, lo stesso albero di Natale illuminato dietro, lo stesso volontario che si alza per andare a prendere qualcosa da sgranocchiare o da bere mentre si gioca. Gli sceneggiatori devono avere vissuto, come me, quelle situazioni sulla loro pelle, per riprodurle così bene. O forse è un’atmosfera solo molto italiana anni ’80, ma insomma io mi ci sono ritrovata come non mi ero mai ritrovata in nessun film che descrivesse l’Italia media in quegli anni.
Il Natale che non c’è più
Non amo particolarmente il Natale. So di non essere originale, oggi fa fico dire che il Natale fa schifo, ma la mia in realtà è l’insofferenza verso qualcosa che si è molto amato, e che non si sopporta stia cambiando. Dieci o quindici anni fa eravamo una bella famiglia allargata, tre famiglie unite da un comune capostipite, sette cugini, sei genitori, felici di rivedersi e scambiarsi, molto prima che regali, frizzi e lazzi, appassionate discussioni di tutti i generi, confidenze a due, interminabili tornate a mercante in fiera, poker bonario, sette e mezzo, giusto per perderci quelle 10.000 lire e poterci prendere in giro fra consanguinei. E ridere, tanto. Mangiare, tantissimo, cose buonissime di rigorosa tradizione, la gara era appunto riuscire ad essere originali pur nel sacro rispetto del capitone, delle cartellate, dell’insalata di rinforzo.
Qualcosa ha cominciato a distorcersi e ad appannarsi una decina di anni fa, a Novembre uno dei sei genitori, solo 42 anni, si era arresa, stremata, a qualcosa che l’aveva consumata da dentro in una battaglia senza requie. Come corridori dopo il traguardo, abbiamo tutti continuato a vivere e a festeggiare Natale cercando di coprire la ferita con i maglioni rossi, per inerzia, ma piano piano abbiamo capito che la corsa era finita, e abbiamo cominciato a fermarci tutti. Mia sorella, l’unica che ho, è partita per andare a lavorare e vivere in un altro continente, e qualche Natale non ce l’ha fatta a tornare, e anche quando torna è uno stress pazzesco, ha due settimane scarse di vacanza, e ti pare che volino in un soffio, vorresti dirle tante cose e non fai nemmeno in tempo a capire se è sempre la stessa persona o no, ed in cosa è cambiata, che già bisogna riaccompagnarla in un aereoporto, altro luogo che odio con tutte le mie forze. Due cugini su cinque sono andati a vivere al Nord, per lavorare, sempre, adesso sono fanatici berlusconiani e davvero non c’è più molto che possiamo dirci, hanno gli occhi vitrei e sospetto che se gli sbottonassi le camicie comparirebbe lo sportellino per le pile. La loro sorella, terza cugina su cinque, li raggiungerà a Febbraio, e monteranno lo sportellino con le pile anche a lei. Impossibile discutere, ormai.
Fra tutti e sette, età variabile fra i 37 e i 25 anni, abbiamo messo in piedi un solo matrimonio (un altro a Giugno prossimo, ma insomma) e fra tutti e sette, generazione di fottuti sterili e finti evergreen, non ci è riuscito di fare nemmeno un bebè, neppure uno, che avrebbe forse fatto da collante a idee, pensieri, affetti che ormai sono espansi in tutte le direzioni e manco ci pare più di essere una famiglia. Forse dei bambini avrebbero assicurato la continuità, ci avrebbero costretto a concentrarci su pappe, cacche e nanne e quindi a riportare indietro – anche se fittiziamente – l’orologio a quando i protagonisti di pappe, cacche e nanne, regali scintillanti in carta dorata eravamo noi, i sette cugini di sempre, legati come fratelli, un legame che lentamente ma in modo inarrestabile si sta sciogliendo come la neve finta sul presepe. E ci soffro moltissimo.
Poi c’è la mia situazione personale, che questo Natale sarà più difficile che mai, stretta fra un compromesso assurdo e domande legittime di chi mi vuole bene. Ci sono anche tanti progetti, alcuni importanti, vicini, una casa, un lavoro, ma per ora c’è un altro Natale da sola, un altro Capodanno a distanza, altri stress, viaggi, maltempo, minuti rubati, affetti che ti mettono ansia e svaniscono prima di averli potuti dominare.
Odio il Natale.
Yoghi
Oggi l’intravelatonze* ha superato sè stesso. Panza sempre più prominente, giacca che non si abbottona, camicia chiara, cravatta celestina a minuscoli rombetti bianchi ricamati, parka aperto con pelliccia di lupo al cappuccio e sciarpetta di lana arancione con nodo scorsoio che copre solo mezza cravatta e sembra appesa al vucculare come una bandiera di resa. E’ entrato parlando al cellulare, come al solito, capello orso Yoghi scomposto e umidicciio (pioviggina). Ma mi sta sempre più simpatico.
*intravelatonze: personaggio noto ai lettori del mio vecchio blog. Se volete saperne di più, spiegatemi come posso fare a pubblicare in separata sede i miei vecchi post, scioperati pigri del cavolo 🙂
Nevica
Nevica fitto da ormai 24 ore. Adoro la neve. Tutto è più pulito, secco, luminoso. Perfino la mia stanza in ufficio ha preso una tonalità da baita alpina, luce, bianco, calore, confidenza e raccoglimento, silenzio semi ovattato, voci più basse. L’organico è ridotto pù o meno della metà, essendo tale appunto la percentuale di miei colleghi residenti in provincia, o in aperta campagna. Arriveranno lo stesso, in ritardo, ma arriveranno, prevale sempre l’etica calvinista del lavoro, in questo posto. Io, poi, non ho scuse: abito a 30 metri dall’ufficio, e il percorso è al 60 coperto da porticati. Una bella fortuna, normalmente, ma una bella sfiga in questi giorni, in cui il piumone fatica molto a lasciarmi andare.
Nel fine settimana sono stata un pò in giro per negozi, a Napoli. Ho constatato de visu che i commercianti di scarpe sono stati i primi a perdere definitivamente il lume della ragione, ancora fortunosamente conservato – ma per poco, temo – da commercianti di altri generi. In una zona molto commerciale, non central-chic, il paio di scarpe più economico, non firmato, non da sera, non in pelle umana, costava 99 euro, ovvero 191.690 lire del vecchio conio, come dice Bonolis. Con la stessa cifra solo due anni fa di paia di scarpe, ottime, durevoli, ne avrei comprate almeno due, e forse mi avanzava anche qualcosa. Siccome però sono i cosiddetti consumatori ad avere conservato – forse – un pò di neuroni, o costretti da portafogli con le ragnatele, ho potuto anche constatare che queste gioiellerie della scarpa erano completamente vuote, domenica 7 dicembre, commessi sbadiglianti ed intenti a disegnare cazzucci sulla carta da regalo, spettegolare, lucidare vetrine lucidissime.
Buona giornata a tutti.
Il mio esame
La Facoltà di Lettere, dal punto di vista logistico, non era nata per essere una facoltà universitaria. E’ un vecchio insieme di corpi di fabbrica spiaccicati lungo una discesa, e nati per ospitare un Ente di assistenza agli orfani dei lavoratori (ENAOLI, se vi interessa). Un geometra senza scrupoli, dopo una notte insonne per una peperonata particolarmente indigesta, deve avere messo mano alle carte e prodotto l’attuale sito universitario, aggiungendo qua e là un pò di scale, qualche corpo di fabbrica nuovo, togliendo qualche tramezzo e aprendo un pò di porte. A tutto questo si aggiunga la totale anarchia dell’organizzazione universitaria, che si è al 90% trasferita al nuovo polo, mastodontico, scintillante, ipermoderno, con spazio a bizzeffe, per lo più inutilizzato. Nella vecchia sede è rimasta solo Lettere, che marcisce su sè stessa nella più totale assenza di qualsivoglia cartello indicatorio, piantine con la scritta VOI SIETE QUI (che ormai si trova anche al cimitero) numeri di aula, di padiglioni, di che so io. Niente indica, per esempio, dove si farà un esame, e anche se c’è l’indicazione del luogo, non c’è l’indicazione per arrivarci. In compenso i muri sono tappezzati di volantini del Collettivo Universitario (che originalità), inviti a teatro, a conferenze, annunci personali, frasi d’amore, programmi di corsi assurdi e incongrui, sconti sui computer, tazebao di protesta per il deposito di scorie a Scanzano, graduatorie di bidelli e avvisi per rimandare la leva militare.
Conseguenza pratica: se devi fare un esame, arriva almeno mezz’ora prima dell’ora fissata, perchè per capire DOVE si fa l’esame e DOV’E’ il posto dove pare si faccia l’esame, dovrai vagare, novello Teseo, nel labirinto universitario, scansando ragazzini stravaccati sulle scale (quante cazzo di scale ha ‘sta facoltà, e non portano per lo più da nessuna parte), o a studiare su banchi messi astutamente lungo i corridoi, per sfruttare tutti gli spazi. La scala che serve a me è dietro una macchinetta del caffè (non scherzo): scendere, poi NON girare a destra nel “corridoio dei banchetti”, ma salire su per la scala (un’altra!) a chiocciola che ti trovi davanti. Alla fine, non sei nello sgabuzzino delle scope, come potresti pensare, ma nel corridoio dove è ubicato l’ufficio dell’insegnante. Ebbene sì, signore e signori: dimenticate le aule fumose, ad anfiteatro o meno, con cattedra in fondo e minacciosa commissione composta da professore + n assistenti. Nelle facoltà di oggidì, l’esame si fa seduti di fronte alla professoressa, alla sua scrivania di lavoro, tu e lei da sole, piantine grasse sulla scrivania, foto dei bimbi, porta aperta e altri esaminandi in piedi nel corridoio a riempirlo tutto e rumoreggiare.
Comunque, ho preso 30.
Chi me lo fa fare?
Domani ho il mio primo esame. Per la cronaca, Linguistica Generale. Ma chi me l’ha fatto fare? Non avevo già abbastanza da fare? Non avevo un carico emotivo già abbastanza pesante da portare?