“Eravamo felici e non lo sapevamo”
Questa frase, se non erro attribuita alla madre di Renzo Arbore alla morte del padre, mi suona nella testa da qualche tempo. Eravamo felici e non lo sapevamo.
La depressione è una bestia orribile, contro la quale i poveri di spirito come la sottoscritta sono doppiamente impotenti. Non vale arrabbiarsi, non vale ignorare, non vale spronare, non vale piangere, non vale niente. La sensazione imperante è “lo stai facendo male”, che ti fa sentire ancora più una merda, di fronte all’evidente sofferenza di una persona cara. La preoccupazione aumenta, e si continua a sbagliare, in un circolo vizioso del quale non vedi la fine. Il dolore fisico si intreccia inestricabilmente con quello dello spirito, che trova nel (superabile e momentaneo) stato di malattia mille appigli per coltivare sè stesso. Le luci si abbassano, il riscaldamento si spegne, tutto ruota intorno all’umore del giorno. E ci sono i giorni discreti, quelli bui e quelli tremendi, quando tiri una carretta di un quintale su per una salita ripida e senti che stai per cedere. Talvolta cedi davvero.
Il lavoro. Non basta mai quello che si è fatto, si ricomincia sempre daccapo. Per quanto non si voglia abbassare la testa, alla fine sei costretta a chiedere, quasi mendicare. Sperare ed aspettare. Sapendo di aver fatto sempre lo stesso errore, cioè aver avuto fiducia nelle persone, non essersi mossa per tempo, con la costante sensazione di essere in ritardo, fuori posto, fuori contesto, tollerata, forse detestata. Il tarlo della insicurezza mina le certezze piano piano, come il pappice e la noce, e fa malissimo.
Il più bel progetto a cui abbia mai lavorato non sta solo perdendo pezzi, non si sta solo sgretolando velocemente. Ci stanno proprio passando sopra col bulldozer. Sono curiosa di sapere cosa scriverò il prossimo 29 febbraio,quando l’anno magico sarà passato da poco. Temo di saperlo: sarà stato un anno di merda, comunque diversissimo da come ce lo eravamo immaginato. I sogni muoiono sempre all’alba, e rosicano insieme ai tarli precedenti. Non ne vale la pena. Non ne vale MAI la pena.
Solo per la cronaca: sono passata in ufficio, a tenermi con le unghie e coi denti e con le poche forze che ancora ho, quello per cui ho lottato per anni. A controllare che la mia scrivania sia ancora lì, che non mi abbiano rubato le penne, a fare gratis il lavoro che ho sempre fatto. Mi serve per non affondare definitivamente. Ci sto poco, mi sento fuori posto, anche se registro con sorpresa che pochi sanno che non ho più un contratto, tutti mi credono al mio posto come sempre. Contratto prenotazioni di sale per videoconferenze, studio ordini del giorno, preparo istruttorie, modifico tardivamente indicatori di risultato sbagliati.
A pranzo, rigatoni al forno avanzati dal giorno prima. Cotolette preparate dal giorno prima e faticosamente fritte al momento. Asparagi (che non assaggio). Fragole fuori stagione, ma l’inverno è stato molto mite. La solita amarezza nell’aria, la solita tristezza, la solita ansia repressa nel constatare le scarse quantità di cibo messe nel piatto di chi mi sta di fronte, e manco finite. Una zeppolina (del giorno prima, ovviamente. Era domenica). Manco più i dolci mangia con un minimo di voglia. La sera piango a dirotto a casa mia, da sola, al solo scopo di spurgare l’ingorgo e provare a far uscire un raggio di sole. Talvolta funziona.
Io rivorrei soltanto la mia vita di sei mesi fa.
Quando eravamo felici e non lo sapevamo.
Arriveranno momenti migliori, ma intanto bentornata