Vento e altro (23 novembre, mi pare)

Stasera c’è una bufera di vento, sulla mia città.

Poche cose mi agitano come il rumore del vento che sbatte imposte, persiane, fa tremare vetri e rovescia vasi. E’ un trauma che mi è rimasto da una sera di 28 anni fa. A parte il boato iniziale, l’effetto più immediato del terremoto dentro casa, che mi ricordi, era lo sbattere furioso delle persiane nelle guide, i vetri che tremavano, il rumore di cose fragili, pezzi di casa mia, che andavano in frantumi.

Adesso che sono – si fa per dire – una donna adulta e consapevole, e ho lavorato molto sulle mie paure, riesco a restare seduta più o meno composta mentre tutto intorno sbatte l’impossibile. Mi alzo solo una volta o due per accertarmi che non si siano aperte le imposte, e non si sia rotto niente.  Ripenso però con una punta di nostalgia ad una ragazzina di 15 anni che nelle sere di vento e bufera passava anche un’ora a mettere pezzetti di carta ripiegati nelle guide della persiana della camera da letto, per evitare che sbattesse, e si addormentava a fatica solo dopo essersi tappata le orecchie con le mani o col lenzuolo.

Il terremoto fu metafora delle mie paure di sempre: la casa, la cosa più stabile che esista, all’improvviso si mette a ballare. Nessuna certezza è mai stata più tale, per quella generazione. Niente sta mai veramente immobile, questo abbiamo imparato, niente è mai veramente solido sotto i piedi. Non c’è niente su cui puoi contare davvero.

Quella sera scendemmo in strada tutti insieme, dopo 80 interminabili terrorizzanti secondi, mio nonno sorretto da mio padre lungo le scale. Non molti se lo ricordano, ma le scosse furono due, in rapida successione. E il peggio fu quando i muri si fermarono, dopo la prima scossa, e due secondi dopo fu il pavimento a tremarci con un nuovo boato sotto i piedi, più forte che mai. Abbiamo urlato tutti, in quel momento. Ricordo distintamente la faccia di mia sorella livida per la paura, deformata dall’urlo.
Il portone di alluminio e vetro si era scardinato e messo di traverso, dovemmo spaccare i vetri per poter uscire dal palazzo. C’era un silenzio assoluto, irreale, apocalittico. Sembravamo gli unici sopravvissuti. Invece, come topi dalle tane, piano piano strisciarono fuori i nostri vicini di casa, tutti col terrore negli occhi, qualcuno ferito. Mi ricordo il sonno, incredibile, inverosimile, che mi prese intorno alle 11 di sera: non riuscivo a tenere gli occhi aperti, aprii la macchina di mio padre nel piazzale e dormii lì dentro, raggomitolata sul sedile davanti. Adesso so che uno stress fortissimo come il terrore chiede poi in pegno riposo, al corpo, per difesa, e lo costringe a dormire. Ma allora non mi davo pace, per avere quel sonno mortale mentre la radio continuava a dare la conta dei morti, i cognomi di gente dispersa che si cercava attraverso le radio libere, le sirene delle ambulanze.

Poi fu anche un inverno bellissimo, stracarico di neve, nella quale abbiamo a lungo camminato, in assenza di mezzi pubblici funzionanti, da una casa all’altra, in pellegrinaggi natalizi per giocare a carte, ridere insieme ed esorcizzare la paura. Un inverno di totale e sodale libertà, palle di neve davanti a scuola, il pomeriggio a studiare e le serate nella palestra Coni a smistare i pacchi della Croce Rossa, buttare in un mucchio la (molta) roba inservibile di abbigliamento che arrivava dalla generosità, diciamo così, dei nostri connazionali e farci le capriole dentro. Oppure a fare la gimcana a via Pretoria fra i barbacani e i puntelli delle case inagibili, nascondersi in mezzo, dare i primi probitissimi baci ai primi devastanti amori.
Serate intere.
Un inverno da quindici anni.

 

2 risposte a “Vento e altro (23 novembre, mi pare)”

  1. Scrivi sempre deliziosamente.
    Come fai a essere così devastante non lo so, so soltanto che ogni volta che arrivo in fondo ad un post come questo, o ai file di word che un tempo, quanto eri una Sorella per bene, non mi facevi mancare mai, mi vien male perchè… è finito.
    Mhà.

    YOB – sempre più ammirato della Sorellina scrittrice

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