Mi sveglio con una sensazione strana che non so spiegare. Resto a rigirarmela un po’ nel cervello, intontita ancora dal sonno. Poi realizzo. Nella casa c’è il buio più nero e totale. E ora che ci penso bene, c’è anche il silenzio più irreale mai sentito. Niente ronzio del frigorifero, niente compressore della caldaia. Però neppure un latrato di cane, una macchina che parte, uno sportello che sbatte, niente. Va bene, penso, il fondo è l’alba di domenica mattina. Distinguo nel silenzio fondo un leggerissimo fruscio, la pioggia, penso. Nemmeno i pescatori si alzeranno, stamattina. Sono sola nel letto, come da troppo tempo. Senza quasi pensarci allungo la mano verso la lampada sul comodino.
Clic.
Buio.
Clic clic.
Ancora buio.
Ahh, ma è andata via la corrente. Prendo il cellulare, premo un tasto a caso. La stanza è rischiarata per pochi secondi dalla luce bluastra del visore. Constato che il cellulare è quasi scarico, e che sono le cinque del mattino. Resto lì a rimuginare su quel buio così totale, chiedendomi come mai alle cinque del mattino non si cominci già a vedere la luce del giorno. Sono un filo inquieta, anche se io non ho nessuna paura del buio, anzi, soprattutto per dormire, chiedo porte chiuse e tapparelle abbassate. In America dormire era un incubo, gli yankee ignorano la funzione isolante della tapparella italiana, hanno solo ridicole veneziane ed è come dormire con la finestra spalancata. A poco a poco però mi rilasso. Passa un’auto e i fari squarciano per un secondo il nero. Resto a pensare ai casi miei, in un piacevole stato di semi sospensione da acquario. A poco a poco nel soggiorno una pallidissima luminescenza azzurrognola si fa strada, non è luce, solo un nero un grado meno intenso. Nel pallore dell’alba che avanza, mi riaddormento.
Mi sveglio alle otto, e ci vuole poco a capire che la corrente non è tornata. Mi chiama lui sul cellulare e mi dice che anche a casa sua, una trentina di km. in linea d’aria, non c’è luce. Curioso, penso. Un black out che travolge un’intera città di due milioni di abitanti, e tutto l’hinterland, deve essere una cosa seria. Faccio colazione in penombra, piove a dirotto e la città è più che mai grigia e triste. Solo alle nove del mattino, chiamando i miei, verrò messa al corrente delle dimensioni epocali del problema. Leggo Asimov, mettendomi di traverso sul letto per sfruttare la luce della finestra, fino alle dieci. Fortunatamente non manca l’acqua, né l’acqua calda. Mi faccio la doccia e mi dispongo ad uscire, vado a pranzo a casa di un parente, a cui ho raccontato una balla per spiegare la mia solitudine domenicale. Nella Micra a noleggio accendo la radio e ascolto i bollettini dal fronte black out. Piove, piove sempre, sempre di più. Sulla Tangenziale non c’è nessuno, o quasi, uno scenario irreale per una strada rovente di automobili a tutte le ore del giorno e spesso anche della notte.
Alle due del pomeriggio a casa del parente la luce torna, mentre stiamo mettendoci a tavola. Il cellulare comincia a dare segni di cedimento, vuole energia e io non posso dargliela perché non ho portato con me il caricabatteria. Io dovrei partire con un Eurostar alle cinque del pomeriggio. Chiamo il call center delle Ferrovie dello Stato e una sconsolata Daniela di turno mi suggerisce di “non fare affidamento sui mezzi a rotaia”. Decido di partire con la Micra, a come restituirla penserò domani, come Rossella O’Hara. Ma al bivio fra l’imbocco dell’autostrada e quello della Tangenziale che mi riporta nella mia casetta napoletana improvvisamente mi manca il coraggio. Dovrei giustificare perché ho un’auto a noleggio, e poi come farà domani lui a venirla a riprendere, sono senza cellulare ormai morto del tutto, piove forte, se la macchina si ferma o succede un intoppo qualunque sull’autostrada, come me la cavo? Comincia a salire l’ansia, cerco di dominarla elencando le priorità. Primo, trovare il modo di rimettere in funzione il cellulare e non rimanere isolata. Lui può mandarmi solo messaggi, il pensiero di non poterli leggere, né rispondere, mi stringe il cuore in una morsa fredda. Girovago sulla Tangenziale, esco a Fuorigrotta e mi dirigo verso un enorme centro commerciale sperando sia aperto anche di domenica, a prescindere dal black out.
Chiuso, ovvio.
Mi reimmetto sulla Tangenziale e mi viene un lampo di genio.
L’Aereoporto.
Lì c’è un negozio di telefonia, sono sicura, e sarà di sicuro aperto. Tangenziale, parcheggio, porte scorrevoli, scale mobili. C’è caldo, rumore, voci, confusione, luce. Urto gente con i trolley, il pensiero che “è in partenza il volo AZ515 per Berlino imbarco immediato uscita 5” mi scatena complessi sentimenti misti di tensione e invidia, non amo l’aereo e gli aereoporti mi mettono tristezza, però mi piacerebbe vedere Berlino. Il giovane commesso cerca, prima incuriosito poi quasi furioso, si vede che gli ho trasmesso l’ansia. Il caricabatterie originale non ce l’ha, mi offre quello non originale, ma non trova neppure quello, e non ha neppure quello da auto. L’ansia cresce, è quasi panico. Mi guardo in giro e vedo una vetrina di offerte speciali. Ci sono cellulari in vendita a 75 euro. Ne compro uno, col fiato mozzo. Appena fuori dal negozio scopro che le batterie sono già un po’ cariche per i fatti loro, e cerco di mandare un messaggio a lui, per dirgli che non parto più. Dall’altra parte non si è compreso bene il mio stato d’animo, che comincia a tendere al panico puro, e si scherza sulla incomprensibilità dei miei messaggi. E ci credo, cazzo, ‘sto cellulare ce l’ho in mano da tre minuti, se sono riuscita a capire come si invia un messaggio meriterei un premio Nobel. Tento di scrivere “vaffanculo” ma la composizione automatica non riconosce la parola, troppo difficile, mi arrendo. Chiamo i miei e li rassicuro sulla mia sorte. Torno a casa, sotto una pioggia ancora un po’ più insistente.
Cercando di non bagnarmi, apro il lucchetto del paletto del parcheggio, parcheggio, lo richiudo. Mi sento un cane scappato dal canile. Al primo cancelletto mi si chiude lo stomaco in una morsa, ormai sono le otto di sera e sta facendo buio, e io realizzo che non riesco a vedere bene la toppa, segno che sul pianerottolo la luce non c’è.
Entro a casa e ne ho la conferma. A questo punto le residue difese crollano, mi metto a piangere al buio sul divano. La prospettiva di tutta un’altra notte al buio totale, con il cellulare che si spegnerà, prima o poi, dopo tutta la fatica fatta per non rimanere isolata, mi terrorizza. Mando un messaggio di autentica disperazione a lui, che si tormenta in cinque risposte mortificate, ma non può fare niente.
Respiro a fondo, mi impongo di calmarmi.
Mi affaccio alla finestra. Le case sono buie, non c’è dubbio, però i lampioni sono accesi. Mi viene in mente che venendo ho visto parecchi locali con le insegne illuminate. In fondo devo pur cenare, no? Esco di nuovo, dopo aver brancolato a tastoni per tutta la casa per cercare le chiavi che non ricordo più dove ho poggiato. Ritolgo il paletto, esco dal parcheggio, rimetto paletto. La pioggia è diventata bufera. Mi dirigo verso la zona delle birrerie, mi perdo un paio di volte, poi parcheggio davanti all’Osteria del Porto, che conosco bene. Entro semi zuppa, ed elemosino corrente elettrica ad un impassibile barista. Quando infila il caricabatteria nella presa mi sento già un po’ meglio. Mi siedo ad un tavolino nell’ombra davanto alla TV e bevo birra e mangio crocchette di pollo seguendo il Gran Premio di F1. Dopo circa un’ora, la cameriera si sporge dal bancone per avvertirmi che il mio cellulare sta squillando. Ovviamente quando arrivo a prenderlo ha smesso di squillare. Ci sono almeno 3 chiamate perse e un numero indefinito di messaggi di lui, fra il preoccupato e l’incazzato. Salta il collegamento con Indianapolis, decido che la cena è finita, pago ed esco.
Fuori piove così forte che solo per dare la mancia al parcheggiatore mi inzuppo tutto il braccio sinistro. Lo chiamo, sia dove sia, ho bisogno di sentire la sua voce. E quando finalmente la sento, la tensione accumulata rompe gli argini e racconto in cinque minuti di singhiozzi, guidando sotto la bufera, tutto il fottuto pomeriggio passato a cavarmela da sola. Sbaglio per l’ennesima volta strada, faccio un’inversione selvaggia e urto il marciapiede con un rumore secco. Ragazza calmati, se scassi la macchina la noleggio è un casino. Guido a venti all’ora fino a casa, sarei propensa a lasciare l’auto fuori dal parcheggio pur di non dover rifare la trafila palettica. Con la coda dell’occhio vedo però il portone illuminato a giorno, e mi sembra di rinascere. Mi impongo un ultimo sforzo. Lucchetto, palo, parcheggio, palo, lucchetto. Entro a casa illuminata più io di lei, ho lasciato tutti gli interruttori su on e sembra che ci sia una festa. Pianto lo stramaledetto cellulare nella presa di corrente, mi asciugo i capelli col phon, mi metto in pigiama, e passo il resto della serata a guardare la TV e a leggere il libretto di istruzioni del cellulare nuovo.
Prima di andare a dormire riesco a mandare e a ricevere sette o otto messaggi pacificatori.
Poi, il sonno mi rapisce, benevolo.
La luce è tornata.