Io e la vespa

Casa mia, cucina, sera (tardi).

Apro la finestra dopo cena per far cambiare l’aria e dalle profondità del giardino di fronte casa mia, puntandomi col teleobiettivo, entra una vespa kamikaze, che mi centra in piena spalla, mi punge e comincia a sbattere impazzita per la cucina.

Ho fatto un casino. Mi sono cadute le ciliege che avevo in mano, ho lanciato un urlo, sono uscita dalla cucina a precipizio richiudendo la porta e murando viva la vespona. La feritina mi brucia da pazzi e si gonfia, un pochino. Subito scene devastanti di shock anafilattico mi si parano davanti agli occhi, e infatti mi pare di avere le gambe deboli e che la vista mi si annebbi (sono solo un filo ipocondriaca, ma appena appena). Resisto 3 secondi (ho una soglia del dolore altissima, anche) e poi chiamo il 118. L’impiegato mi chiede se sono allergica (no), se ho difficoltà a respirare (no), se la ferita si è gonfiata molto (no), e fa moltissima fatica a non ridere mentre mi spiega che non mi manderanno un’ambulanza col defibrillatore, non c’è bisogno che mi misuri la pressione (anche perchè non saprei come fare), nè è necessario che mi mettano in contatto col centro antiveleni. Mi invita a sfregare la puntura con mezzo aglio (aglio? guarda che non è il morso di un vampiro, imbecille). Quando gli spiego che la soluzione aglio è fuori discussione perchè l’aglio è in cucina e lì dentro io non ci rientro se non con un lanciafiamme, mi dice che l’alternativa è mettere un pò di crema antibiotica e “dormirci su”. Lo odio per alcuni minuti.

La crema antibiotica non ce l’ho (lo so, è una contraddizione in termini che io abbia sempre paura di morire e poi abbia a casa giusto un’aspirina scaduta), quindi mi metto in macchina e cerco una farmacia di turno. Durante il tragitto tento di autoconvincermi che se stessi per morire difficilmente potrei guidare con tanta disinvoltura, ma in realtà sto solo aspettando di stare peggio, non fosse altro che per fargliela vedere, a quel cretino del 118. Mi vedo già i titoli sulla malasanità il giorno dopo.

Farmacia di turno. Tutto sbarrato. La mia attenzione viene attratta da un cartello che recita più o meno così: “Se non state proprio morendo, e non avete una ricetta che lo attesti, non vi azzardate a suonare, non vi aprirà nessuno”. Medito brevemente se sto effettivamente morendo o se tutto sommato mi reggo ancora sulle gambe. Mi reggo ancora sulle gambe.

Torno a casa e mi addormento con tutti i telefoni a portata di mano, hai visto mai, dopo aver chiuso tutte le porte, e ho incubi tutta la notte su come farò a liberarmi la mattina dopo dell’orrenda bestia,  che nella mia testa è sempre lì in agguato dietro la porta della cucina pronta ad aggredirmi col pungiglione spianato.

Stamattina. Mi armo con rivista FOR (quella dell’AIF, perfetta per uccidere animali volanti) e paletta per le mosche. Spalanco la porta della cucina con un calcio come un agente dell’FBI ed entro dentro, a  sprezzo di ogni pericolo.

Silenzio.

Dopo lunga ricerca, scopro la belva nell’acquaio.

Decisamente morta, ma non si sa mai: con le pinze del barbecue la prelevo e la spingo nello scarico, e poi apro l’acqua. Vaja con Dios, bestiaccia.

Conclusione: so che molti di quelli che mi leggono non avevano dubbi, ma alla fine l’ho avvelenata io.