Era un addio

Per almeno due anni papà mi ha chiesto, soprattutto nei fine settimana ma non solo, di andare a fare giri in macchina. Di guidare non se la sentiva più, guidavo io e lui affianco. In silenzio, andavamo su e giù per le nostre strade preferite. Il silenzio non mi pesava affatto, ma ogni tanto lo rompevo per fare domande. In che epoca è stato costruito questo quartiere? E prima com’era? Cosa c’era al posto di via Mazzini? Mi racconti di nuovo la storia di quella che scappò all’estero con il grande amore della sua vita, e non tornò più? Era bella?Le risposte con mia sopresa non erano laconiche, nello stile di mio padre. Erano racconti. Erano favole della buonanotte. Erano forse il suo addio alla sua sua città, alle sue strade, alle persone che aveva conosciuto, alla vita che aveva fatto. Sei mesi prima di andarsene smise di uscire di casa, si reggeva in piedi a fatica e si vergognava del catetere, anche se avevamo trovato il modo di nasconderlo – non senza incidenti, che pesarono in modo definitivo sulla sua decisione di non uscire più.

“Torniamo a casa, idu'”. C’era sempre una punta di tristezza in queste tre parole. Non avevo bisogno di chiedere. La casa alla quale tornavamo era vuota, vuota soprattutto per lui che lasciavo in piazzetta mentre io andavo a parcheggiare in garage, per non costringerlo a fare una rampa di scale che non ce la faceva più a fare se non con enorme fatica. Entrava quindi a casa prima di me, aprendo con le chiavi e trovando solo il buio e il silenzio.

Lo stesso che trovo io ora, tornando nella stessa casa. Non ci si abitua se non con grande fatica, e quella punta di tristezza ora l’ho ereditata io. Stasera ho fatto un giro in macchina come lo facevo con lui, e per un attimo, fugace e prezioso, mi è sembrato di sentire la sua voce che raccontava la storia del pallone di cuoio arrivato dall’America. Mi manchi, papà.

California here we come – 2

San Francisco non è fatta per cuori fragili.

In ogni senso. Innanzitutto per la sua struggente bellezza, adagiata com’è nella sua baia, con le correnti oceaniche che la riempiono di nebbia e le folate di vento improvvise che aprono ogni panorama. Per me che sono autunner nell’anima, la necessaria felpa col cappuccio e i capelli umidi di foschia sono stati accolti con gioia. Quella nella foto è la migliore visuale che siamo riusciti ad avere del Golden Gate Bridge, dopo aver fatto trekking per un’oretta per salire in cima al belvedere. Ma a me ha comunque spezzato il cuore, sarei rimasta lì per sempre.

Servono poi cuori forti (e cosce e chiappe di ferro) per avventurarsi nelle strade del centro, fatte di pendenze assurde e vertiginose se fatte in macchina ma soprattutto se fatte a piedi. Non ho potuto fare a meno di chiedermi, arrancando sull’ennesima salita con pendenze del 30%, cosa potrebbe succedere ad una mamma a cui scappasse di mano un passeggino con un neonato o, meno tragicamente, come fai a recuperare la spesa se si rompe la busta con le mele o le arance. Si deve essere sviluppata una economia del dislivello, visto che anche le serrande dei garage sono costrette ad essere trapezoidali e ci sono scalini e rampe di ogni genere. Eppure ci vivono poco meno di un milione di abitanti, si saranno abituati.

Il giorno che eravamo lì molte strade del centro erano chiuse e super presidiate da forze dell’ordine di ogni grado. Abbiamo poi saputo che “Kamala is in town” come ci ha detto un indigeno sostenitore. Noi intanto ci eravamo sedute in un bar di specialità francesi per un eccellente profiterole con la panna, ad ascoltare chi ci raccontava che in quelle strade avremmo potuto vedere Robin Williams (l’attore, non il cantante) che portava a spasso il cane, prima di essere rapito dai suoi demoni.

Se volete rivedere strade orizzontali, scendete verso la marina, il celeberrimo Fisherman’s Wharf. Lì come in ogni città portuale della California (tutte con nomi di santi) sotto i piloni del molo vivacchiano – grufolando e tuffandosi per poi saltare di nuovo sui piloni – enormi trichechi e otarie di svariati quintali che sono ormai drogate da quello che gli buttano i turisti. Noi, le orecchie congelate, ci siamo regalati una clam chowder, la zuppa a base di vongole, patate e pancetta servita in una panelluccia di pane opportunamente scavata, che ci ha restituito l’uso delle estremità, con il suo benefico calore.

Una città viva, multietnica nel senso più estremo della parola, che a me è sembrata anche accogliente e tollerante. Ma un giorno solo certamente non può bastare. Aspettami, San Francisco, io tornerò.

Verrà l’estate

Ascoltavo questa canzone a ripetizione, durante il lockdown, mentre impazzivo – come tutti – per la forzata clausura e al tempo stesso per quelle rare uscite (fare la spesa, la farmacia, medici e ricette) perchè mia madre peggiorava di giorno in giorno e io, caparbia, non solo non me accorgevo ma non volevo accorgermene, e la rimproveravo perchè lei non voleva tirarsi fuori dal letto, lavarsi, non voleva mangiare e sputava o vomitava tutto quello che riuscivo a forza di preghiere e minacce a farle ingoiare.

Il primo di una lunga serie di sensi di colpa, averla trattata male mentre lei stava morendo.

Quella canzone, come fanno tutte le canzoni ben scritte, mi toccava corde profonde, la prima delle quali era una feroce nostalgia. Mi sembrava di vederlo, il “treno che costeggia il mare” delle vacanze della nostra infanzia, sulle coste tirrenica fra la Calabria e la Campania. Mi pareva di sentirlo, forte, nelle narici, l’odore del “fiato caldo dietro le persiane | nelle campagne gialle consumate” delle nostre estati a Dragonara, quando la noia serviva a farci pensare pensieri lunghi, immaginare il nostro futuro, inventare passatempi e non avevamo alcun device digitale che potesse farlo al posto nostro.

E poi “Verrà l’estate” in quel terribile inverno del 2020 mi sembrava una promessa di felicità, di normalità, una cosa della quale avevo disperato bisogno in quei disperati giorni fatti di guanti – mascherine – terapie antidolorifiche, attaccare e staccare flebo, sentire alla tv l’angosciante conta dei morti e nulla che ci facesse respirare un filo di sollievo. Eppure continuare a pulire, cucinare, fare la spesa, avviare la lavatrice e stendere i panni su un balcone affacciato sul silenzio. E sulle sirene delle ambulanze.

Quindi grazie, Pacifico e Malika Ayane.

Grazie per avermi fatto sperare, in uno dei periodi più bui della mia vita.

California here we come – 1

Stavolta davvero non sarei tornata.

Ho passato 10 giorni viaggiando dal nord al sud della California fino a Los Angeles, realizzando un piccolo sogno che io e mia sorella avevamo in testa da tanto.

Non eravamo partite benissimo: il nostro volo, spezzato a metà a Dallas per non svenarci ancora prima di aver messo piede sulle rive del Pacifico, è arrivato in ritardo e abbiamo perso la coincidenza. Dopo varie peripezie, e cambiando aeroporto di arrivo, siamo giunte a destinazione. Noi. La nostra valigia ha serenamente proseguito per la destinazione iniziale, e solo la caparbietà di mia sorella nel chattare per metà della notte con un improbabile servizio clienti sicuramente piazzato in un call center nel Punjab ci ha consentito, la mattina dopo, di vedere arrivare un furgoncino con la nostra e altre valigie sul pianale, guidato con una tenerissima coppia di vietnamiti oltre la mezza età, così colpiti dal nostro entusiasmo da volersi fare una foto con noi (più probabilmente, sono pagati a valigia consegnata e la foto serviva loro da prova).

A Santa Cruz siamo stati ospiti in una casa con il portoncino d’ingresso a 3 metri da una scala di legno consumata dalla salsedine che conduceva direttamente in spiaggia. La prima cosa da imparare delle spiagge americane è che il concetto di demanio e di proprietà pubblica è applicato con la massima severità. Del tutto ignoto il concetto di “stabilimento balneare”: c’è la spiaggia, c’è il mare, portati il tuo ombrellone e le tue sedie, il tuo cooler con bibite e cibo, e buon divertimento. Basta che quando te ne vai raccogli tutto.

La seconda cosa da imparare della California del Nord è che fa freddo. “[…]le estati sono fresche (medie di agosto e settembre attorno ai 18 °C), perché il mare è assai freddo in rapporto alla latitudine (per effetto della Corrente della California), questo determina una sensibile azione di raffreddamento sulle masse d’aria stazionanti in prossimità delle zone litoranee.” (fonte) Per me, che arrivavo sudata e stremata dall’estate italiana lasciata la settimana prima, è stato amore a prima vista. La mattina alle 7.00 scendevamo per la famosa scala di legno con uan bella felpa col cappuccio e facevamo una lunga passeggiata sulla battigia fredda fino ad un bar nel quale potevamo fare colazione con una specie di caffè e un muffin o un croissant (enormi) guardando la nebbia della baia di Monterey alzarsi e i gabbiani strepitare attorno alle barche da pesca che rientravano in porto.

Con grande sconcerto dei nostri ospiti americani, non avevamo un programma preciso ma solo un po’ di cose che ci sarebbe piaciuto fare, in quei giorni. E una era sicuramente godersi il mare, l’enorme spiaggia, mettersi in cima alla scala o su una panchina nei pressi per guardare l’orizzonte e lasciarsi andare al moto delle onde e al fluire delle maree.

Un’altra, era vedere San Francisco.

[SEGUE]

Buon compleanno, Internet

Erwoman-163426_960_720a il 1996 quando per la prima volta ebbi un’idea (vaghissima, lo ammetto) di cosa era la rete Internet, che oggi festeggia i 30 anni dal suo arrivo in Italia. Quindi anche io festeggio i miei venti anni con la rete. Che per me significa un sacco di cose. Sorvolo su quanto importante è oggi la rete per il mio lavoro, perchè quello è abbastanza ovvio. Meno ovvio, anche se sotto gli occhi di tutti, vedere quanto Internet ha cambiato la qualità della mia vita affettiva e di relazione. Migliorandola.

Non vado più alle poste, in banca, all’INPS, alla biglietteria ferroviaria ed aerea, in agenzia viaggi. Non faccio più code inutili e ne evito ad altri. Vado ancora nei negozi, ma sento che è solo questione di tempo. Non chiedo più informazioni quando viaggio. Ogni tanto mi perdo ancora, ma quello è un fatto privato fra me e l’algida signorina del tomtom, sul quale stendo un dignitoso riserbo.

Da quasi vent’anni mia sorella vive all’estero, negli USA.  Potete immaginare quanto scarse e insoddisfacenti fossero le  comunicazioni, i primi tempi: frustranti telefonate una volta  alla settimana, che restituivano una voce incorporea e evanescente che non lasciava nessuna traccia dietro di sè. Oggi siamo costantemente e continuamente connesse: mail, facebook, whatsapp, skype. Un ecosistema di connessione digitale che ci consente di fare shopping insieme, scegliere insieme un regalo per la mamma, cucinare insieme, concordare gli orari dei voli o dei treni, sapere sempre dov’è l’altra, vedere gli interni della nuova casa, scegliere i mobili giusti. Ci consente di vederci, virtualmente in qualunque momento, in un video nel quale la sua faccia (e la nostra, per lei) compare a grandezza naturale, e pare ci voglia un attimo per farla uscire dallo schermo e farla atterrare qui, sul mio divano.

I social network non hanno affatto limitato la mia vita di relazione, anzi l’hanno enormemente ingigantita (con mia grande gioia, perchè io sono un animale sociale). Seguo la vita e il lavoro di persone che vivono a grande distanza da me, parenti o amici lontani dei quali non saprei nulla, senza la rete. L’empatia è aumentata – se possibile – e così l’attenzione alle problematiche civili, sociali, ambientali, economiche. Posso intavolare lunghe discussioni con amici, ma anche mettermi in contatto con persone in altri tempi inavvicinabili, e questo ha migliorato la mia cronica timidezza rispetto alla autorità, e il mio senso di giustizia e democrazia. Ecco, per me Internet è una cosa che avvicina le persone. Impagabile.

Mi impegno a fondo per migliorare il pezzetto di mondo intorno a me. Prima di Internet, non avrei saputo nemmeno con precisione quali erano i problemi. Ho scoperto di essere brava a raccogliere persone intorno a me, ho scoperto che le mie opinioni e il mio modo (quasi) sempre ironico e scanzonato di intendere la vita, compresi i giorni bui, piaceva a molti. Mi sono costruita, come si dice, una buona reputazione in rete, quasi senza volerlo. Faccio parte di molti gruppi ed associazioni con i quali lavoro ogni giorno, dal vivo e in rete, per costruire cose senza chiedere permesso a nessuno, senza fare anticamere, senza cappello in mano.

(ok, è possibile che molte di queste cose siano accadute semplicemente perchè sono fatta vecchia, ma chi può dirlo?) 🙂

Ho imparato a mia volta a riconoscere l’autorevolezza delle opinioni espresse, ed è con quelle che formo le mie.

Ho potuto raccontare al mondo la mia vita. Ho potuto mettere nero su bianco emozioni e sofferenze lancinanti, ed è stato molto terapeutico. Sono guarita perchè da questo blog ho potuto dire al mondo che stavo male, e scoprire che scriverlo mi faceva stare ogni giorno meglio. E no, non è come il vecchio diario col lucchetto: sapere che ci sono occhi che ti leggono, quasi sempre benevoli, talvolta duri – ma serve anche quello, per non sprofondare nella autocommiserazione – è MOLTO efficace e terapeutico.

Perciò, grazie Internet.
Non potrei più vivere senza di te.

 

Ieri, 29 febbraio

temporale

“Eravamo felici e non lo sapevamo”

Questa frase, se non erro attribuita alla madre di Renzo Arbore alla morte del padre, mi suona nella testa da qualche tempo. Eravamo felici e non lo sapevamo.

La depressione è una bestia orribile, contro la quale i poveri di spirito come la sottoscritta sono doppiamente impotenti. Non vale arrabbiarsi, non vale ignorare, non vale spronare, non vale piangere, non vale niente. La sensazione imperante è “lo stai facendo male”, che ti fa sentire ancora più una merda, di fronte all’evidente sofferenza di una persona cara. La preoccupazione aumenta, e si continua a sbagliare, in un circolo vizioso del quale non vedi la fine. Il dolore fisico si intreccia inestricabilmente con quello dello spirito, che trova nel (superabile e momentaneo) stato di malattia mille appigli per coltivare sè stesso. Le luci si abbassano, il riscaldamento si spegne, tutto ruota intorno all’umore del giorno. E ci sono i giorni discreti, quelli bui e quelli tremendi, quando tiri una carretta di un quintale su per una salita ripida e senti che stai per cedere. Talvolta cedi davvero.

Il lavoro. Non basta mai quello che si è fatto, si ricomincia sempre daccapo. Per quanto non si voglia abbassare la testa, alla fine sei costretta a chiedere, quasi mendicare. Sperare ed aspettare. Sapendo di aver fatto sempre lo stesso errore, cioè aver avuto fiducia nelle persone, non essersi mossa per tempo, con la costante sensazione di essere in ritardo, fuori posto, fuori contesto, tollerata, forse detestata. Il tarlo della insicurezza mina le certezze piano piano, come il pappice e la noce, e fa malissimo.

Il più bel progetto a cui abbia mai lavorato non sta solo perdendo pezzi, non si sta solo sgretolando velocemente. Ci stanno proprio passando sopra col bulldozer. Sono curiosa di sapere cosa scriverò il prossimo 29 febbraio,quando l’anno magico sarà passato da poco. Temo di saperlo: sarà stato un anno di merda, comunque diversissimo da come ce lo eravamo immaginato. I sogni muoiono sempre all’alba, e rosicano insieme ai tarli precedenti. Non ne vale la pena. Non ne vale MAI la pena.

Solo per la cronaca: sono passata in ufficio, a tenermi con le unghie e coi denti e con le poche forze che ancora ho, quello per cui ho lottato per anni. A controllare che la mia scrivania sia ancora lì, che non mi abbiano rubato le penne, a fare gratis il lavoro che ho sempre fatto. Mi serve per non affondare definitivamente. Ci sto poco, mi sento fuori posto, anche se registro con sorpresa che pochi sanno che non ho più un contratto, tutti mi credono al mio posto come sempre. Contratto prenotazioni di sale per videoconferenze, studio ordini del giorno, preparo istruttorie, modifico tardivamente indicatori di risultato sbagliati.

A pranzo, rigatoni al forno avanzati dal giorno prima. Cotolette preparate dal giorno prima e faticosamente fritte al momento. Asparagi (che non assaggio). Fragole fuori stagione, ma l’inverno è stato molto mite. La solita amarezza nell’aria, la solita tristezza, la solita ansia repressa nel constatare le scarse quantità di cibo messe nel piatto di chi mi sta di fronte, e manco finite. Una zeppolina (del giorno prima, ovviamente. Era domenica). Manco più i dolci mangia con un minimo di voglia. La sera piango a dirotto a casa mia, da sola, al solo scopo di spurgare l’ingorgo e provare a far uscire un raggio di sole. Talvolta funziona.

Io rivorrei soltanto la mia vita di sei mesi fa.
Quando eravamo felici e non lo sapevamo.

Il problema è che io sogno

Potenza

Il mio problema è che io sogno. E non mi rassegno alla realtà, per questo sono diventata così incazzosa e polemica sui social network.

Io sogno una cittadinanza coesa e solidale, in questo momento così tetro per la mia amata città natale. Una cittadinanza che la smetta di recriminare, di borbottare, di addossare colpe (che sicuramente ci sono, ma a che serve farne l’elenco?), di chiedere ad altri di assumersi responsabilità.

Sogno una cittadinanza che invece se la assuma in proprio, la responsabilità della qualità della vita cittadina.

Questo prezioso articolo di Sara Lorusso su Il Quotidiano fa chiarezza sulle cifre connesse al dissesto di bilancio. Sono circa 30 milioni di euro, che in mancanza di altro verranno recuperati con tagli dolorosissimi (prepensionamenti e licenziamenti, per dirne uno). I risparmi ovviamente riguardano i servizi, anche quelli essenziali.

E’ tanto assurdo pensare che alcuni di questi servizi vengano svolti in maniera sussidiaria dai cittadini?

E’ tanto assurdo pensare che nelle scuole il servizio mensa venga garantito dalle famiglie, cucinando a turno un pasto caldo per la classe dei propri figli? E’ tanto assurdo pensare che si avvi una raccolta differenziata condominiale finalmente seria, non quella semi pagliacciata che facciamo adesso, e che venga riciclato il riciclabile? E’ tanto assurdo pensare a forme massicce di car sharing che sopperiscano al taglio dei trasporti pubblici? E’ tanto assurdo pensare a famiglie / condomini / gruppi che si prendano cura del verde pubblico, una aiuola per ciascuno? o che si prendano cura del marciapiede davanti casa? trovare una, due , dieci aziende edili che rattoppino le strade, gratis, chiedendo in cambio il nome dell’azienda scritto all’inizio di quei 20 metri rattoppati gratis? E’ tanto assurdo pensare a supermercati che collaborino con associazioni di volontariato per mettere  a disposizione prodotti in scadenza, non più scaffalabili, così da risparmiare su assegni di solidarietà e varie?

L’Amministrazione Comunale avrebbe, dal canto suo, il compito di abilitare i cittadini a fare. Lo dico meglio: il Comune non dovrebbe rompere con richieste di permessi, multe, “questo non si può fare”, vigili urbani che fermano lavori. Siamo in guerra, dunque servono normative straordinarie, del tutto temporanee.

Insomma sogno una cittadinanza intera coesa e solidale – lo ripeto – che per il tempo necessario si faccia carico dei servizi (tutti? una parte? un pezzettino?) che il Comune non può più garantire, o non a quei costi, almeno. Chissà, magari ci prendiamo gusto, e continuiamo ad essere coesi e solidali anche dopo, quando il debito sarà ripianato. Non facciamo altro che parlare di resilienza, di resistenza di una cittadinanza alle botte della vita, alla sua capacità di uscire dal tunnel più bella di prima.

Ecco, cari concittadini: questo è il nostro tunnel. Come dopo il terremoto. E adesso abbiamo possibilità di contatto e comunicazione che nel 1981 non avevamo.

Io continuo a sognare, e intanto, nel mio piccolissimo, provo a fare.

[La foto è di Michele Franzese]

Parigi, Charlie e io

je suis charlie

Gli attentatori, ancora prima di essere islamici, erano delinquenti. Non nel senso di quello che parcheggia sulle strisce o non paga le tasse o corrompe il funzionario pubblico, ma delinquenti nel senso di brutali assassini. Ovvero una categoria di cittadini che almeno finora mi pare abbastanza minoritaria, nel corpo di una città e di un Paese.

Gli attentatori, ancora prima di essere islamici, erano francesi. Cioè nati e cresciuti in Francia, cittadini francesi come tutti gli altri, con gli stessi diritti (fra cui uno spettacolare welfare, migliore perfino di quello italiano, che già è a alti livelli) e gli stessi doveri. E quindi è ridicola la campagna della “chiusura delle frontiere” che un Salvini tutto ringalluzzito va berciando da una settimana. Per fermare alle frontiere gli attentatori di Parigi, caro Salvini, dovevi fermare i nonni, negli anni ’70, quando tu forse non eri ancora nato.

E allora. Cosa trasforma cittadini francesi in brutali assassini?

Forse – forse: interpretazione parziale e tutta emotiva, me ne rendo conto – una qualche forma di discriminazione, sottile ed impalpabile, che comunque gli immigrati ancora patiscono nei Paesi che li ospitano. Magari sono stati umiliati da bambini per il loro accento, o per la loro provenienza. Magari hanno incontrato compagni di scuola, insegnanti, condomini che non hanno apprezzato la loro diversità, nè hanno saputo perseguire fino in fondo quella chimera inafferrabile che prende il nome di integrazione. Sembravano integrati, ma non lo erano. Forse non erano nemmeno troppo intelligenti, non così tanto da voler ricavare il meglio, da quello che un paese europeo – il LORO Paese – poteva offrire loro: scuola, diritti civili, cure sanitarie, libertà di pensiero, possibilità di fare una vita migliore di quei nonni degli anni ’70. Forse erano abbastanza stupidi da poter essere indottrinati come marionette. E la religione – il fanatismo religioso – ha dato loro solo una scusa, una motivazione accecante per vendicarsi, una volta per tutte, di quegli sfottò, di quelle incomprensioni, di quella integrazione storta e mai riuscita.

Che si fa, a questo punto? Se avessi ragione, c’è una sola cosa da fare. Si migliora l’accoglienza, si migliorano le pratiche di integrazione, si fa tesoro delle esperienze di quegli immigrati di seconda generazione o terza generazione che sono diventati insegnanti, poliziotti, sindacalisti, Sindaci. Perfettamente inseriti nella vita di un Paese, indistinguibili dai cittadini da sette generazioni. Migliorare le pratiche di integrazione NON è impedire ai bambini italiani di fare il presepe a scuola. E’ farlo, e spiegare ai bambini musulmani induisti e buddisti cosa è cosa significa. E poi festeggiare – nella stessa scuola – le ricorrenze sacre dei musulmani, degli induisti  e dei buddisti, spiegando ai bambini cattolici cosa sono e cosa significano. E invitando tutti a festeggiare tutti insieme. nel nome di una multiculturalità alla quale ormai è impossibile sfuggire, è antistorico, come sarebbe stato antistorico tentare di impedire ai meridionali di andare a lavorare nelle fabbriche di Torino negli anni ’50.

Altrimenti mi tocca tremare per la mia sorte, ogni giorno che parcheggio l’auto e scambio due parole con i miei amici “Mario” e Mohammed, uno marocchino e l’altro tunisino, che lottano per loro per i loro figli e per una vita un po’ migliore.

E infine: a me le vignette di Charlie Hebdo fanno schifo. Le trovo volgari, eccessive e stupide, e non mi fanno ridere. Se abitassi in Francia, non lo avrei mai comprato, quel giornale. Ma appunto, la mia libertà di cittadina europea civile e con 2.500 anni di storia sulle spalle è proprio questa: sono LIBERA di non comprare un giornale che non mi piace, e lascio LIBERO chiunque voglia acquistarlo di farlo. Così come lascerei libero il mio amico omosessuale di sposarsi, la mia amica incinta di abortire, mio nonno di morire come più ritiene opportuno.

Tutto il resto, è dittatura.

[La vignetta è di Angela Impagliazzo, pubblicata su Repubblica ed. Napoli]

5 cose che ho capito il 17 Ottobre 2014 alle 17:50

camminata

  1. Gli effetti di questa vittoria sono soprattutto immateriali, e credo che della loro effettiva portata ci renderemo conto fra alcuni anni. Uniremo i puntini, come ci dice di fare Steve Jobs, e ci renderemo conto che tutto stava insieme, che quello che accadrà fra 10 o 15 anni è iniziato quel giorno, con quella meravigliosa vittoria. Per esempio il recupero della dignità, dell’orgoglio, della identità di cittadini. La consapevolezza del potere immenso delle persone, quando si mettono insieme superando differenze e contrasti. La consapevolezza del potere immenso che viene dal basso, e opera senza aspettare la legge o il decreto o il cenno del potere formale. Senza sedersi davanti ad una porta chiusa con il cappello in mano.
  2.  In realtà anche se se mi guardo indietro adesso, vedo puntini che si possono unire. Vedo un progetto che si chiamava Visioni Urbane, che oltre a creare un primo embrione di una comunità di persone con lo stesso obiettivo, ha validato un metodo. Ha scardinato per sempre il modo di lavorare in una Pubblica Amministrazione, e il metodo è stato portato di peso dentro Matera 2019.
    E poi vedo Cecilia Salvia che si volta indietro durante un viaggio in macchina a Roma, nel 2006, e comincia a raccontarmi la sua idea di rapporto fra amministrazione pubblica e cultura, la sua idea di una regione più aperta e inclusiva, la sua idea di futuro. Non ho dimenticato una sillaba di quelle parole, e non ho dimenticato quel “non fatevi fregare” detto anche a me, quando le è stato chiaro che lei, quel futuro, non lo avrebbe visto. Mi piacerebbe poterle chiedere se è fiera di noi, e se siamo riusciti a non farci fregare nel modo che intendeva lei.
  3. Il mio contributo più forte alla fase finale della corsa è stata l’organizzazione della Camminata per Matera 2019. Una delle cose più straordinarie e commoventi a cui abbia mai lavorato. Perchè mi ha restituito intatto l’orgoglio per la mia lucanità, per il nostro modo ancora molto contadino di fare le cose: onestamente, lentamente, con sacrificio immane, senza il minimo clamore, “con i panni e le scarpe e le facce che avevamo” come dice Rocco Scotellaro. Per il nostro modo ancora molto contadino di ospitare un pellegrino: senza fargli domande, offrendogli subito da mangiare e da bere e un posto vicino al fuoco, uno stiavucco con pane e companatico per ripartire.
  4. Tutti hanno contribuito come hanno potuto, alla vittoria. Io ho fatto quello che sapevo fare meglio: metterci la mia faccia, e chiedere ai miei amici di fidarsi di me. Perchè ad un certo punto ho capito che serviva la collettività, quel pezzo di regione fuori da Matera che ero in grado di movimentare, e che alla fine conosco meglio. Sono stata fortunata: ho amici intelligenti, che mi hanno seguito. Beh, quasi tutti.
  5. Il lavoro – duro, durissimo, tre anni di ventre a terra con mezzo fegato sbrindellato dalle incomprensioni – paga. E paga quando c’è un obiettivo, ben definito, non troppo lontano nè troppo vicino, che riesca a coagulare l’intelligenza individuale e collettiva intorno ad un punto. Paga quando sai che quel mattoncino che stai mettendo, piccolo o grande che sia, lastrica una strada che va da qualche parte, e dove vada è chiaro a tutti. Una cosa di cui sentivo un disperato bisogno.
    Poi si poteva perdere, naturalmente.
    Però abbiamo vinto 🙂

Open Data for dummies

Riprendendo il punto 3 del post precedente, metto qui un po’ di appunti su termini di cui non s(apev)o il significato ma a furia di sbatterci la testa forse qualcosina l’ho capita (*)
Spero possa essere utile ai niubbi di open data come me.

Metriche: sono i parametri in base ai quali viene misurata l’attrattività del dato liberato. Qualcuno ha parlato di “dati sexy” per farci capire il concetto: cioè, se avete davanti una bella ragazza, non basta l’altezza per valutare il suo sex appeal, dovete vederla muoversi, parlare, camminare, misurare la proporzione dei fianchi e la taglia di reggiseno e soprattutto capire se è interessata a voi (ok, forse per gli adolescenti è l’esempio sbagliato – vale ancora il “basta che respiri”, a 17 anni? –  ma ci siamo capiti, su.) Mi pare di aver intuito che le metriche sono appunto oggetto di dibattito all’interno del mondo SOD: finora per valutare il grado di apertura di una pubblica amministrazione si è usata come metrica  la numerosità dei dataset rilasciati. Che va bene, ma se poi sono tutti dati poco utili? Capiamo invece se sono sexy! La partecipazione pubblica, la divulgazione e la qualità del riuso dei dati condivisi, insomma cosa ce ne facciamo – e SE ce ne possiamo fare qualcosa – dopo che sono stati rilasciati, sono ad esempio metriche basilari per valutare il sex appeal di un dataset. Quantità, ma anche qualità.

GitHub: E’ un posto on line dove gli smanettoni possono smanettare a piacimento, lasciando traccia del loro lavoro, così che qualcun altro possa metterci mano. Ha quindi molto a che fare con la filosofia dell’open source. Io invento un prodotto adatto al mondo multimediale, lo traduco in codici di programmazione, uno viene dopo di me e mette mano a quelle righe di codice modificando (in genere per migliorarlo, ma attendo smentite) il prodotto finale. Tutto questo può accadere se le righe di codice sono in un posto a cui posso liberamente accedere. Questo posto è un gitHub.

[questa voce, come la successiva, devo approfondirla, però, e cioè devo metterci sopra le mani, se no non capisco bene. Non mi aggredite, o voi SODdini]

Repository: E’ un armadio dove vengono conservati i codici di un lavoro (vedi sopra). Un armadio senza chiave, ovviamente. Ci sono tanti armadi, in ognuno c’è un progetto, con le sue righe di codice. Tutti gli armadi SOD stanno dentro al gitHub SOD, che è quindi uno stanzone pieno di armadi. Armadi che servono a non fare confusione fra progetti diversi, un po’ come facciamo con le cartelline dove conserviamo le bollette e le ricevute: gas, acqua, luce, affitto, condominio (sì, sono una maniacalmente ordinata)

[vedi corsivo in fondo alla voce gitHub]

(SEGUE …)

(*) Licenza cc-0, carne di porco, etc. Già sapete.