Buon compleanno, Internet

Erwoman-163426_960_720a il 1996 quando per la prima volta ebbi un’idea (vaghissima, lo ammetto) di cosa era la rete Internet, che oggi festeggia i 30 anni dal suo arrivo in Italia. Quindi anche io festeggio i miei venti anni con la rete. Che per me significa un sacco di cose. Sorvolo su quanto importante è oggi la rete per il mio lavoro, perchè quello è abbastanza ovvio. Meno ovvio, anche se sotto gli occhi di tutti, vedere quanto Internet ha cambiato la qualità della mia vita affettiva e di relazione. Migliorandola.

Non vado più alle poste, in banca, all’INPS, alla biglietteria ferroviaria ed aerea, in agenzia viaggi. Non faccio più code inutili e ne evito ad altri. Vado ancora nei negozi, ma sento che è solo questione di tempo. Non chiedo più informazioni quando viaggio. Ogni tanto mi perdo ancora, ma quello è un fatto privato fra me e l’algida signorina del tomtom, sul quale stendo un dignitoso riserbo.

Da quasi vent’anni mia sorella vive all’estero, negli USA.  Potete immaginare quanto scarse e insoddisfacenti fossero le  comunicazioni, i primi tempi: frustranti telefonate una volta  alla settimana, che restituivano una voce incorporea e evanescente che non lasciava nessuna traccia dietro di sè. Oggi siamo costantemente e continuamente connesse: mail, facebook, whatsapp, skype. Un ecosistema di connessione digitale che ci consente di fare shopping insieme, scegliere insieme un regalo per la mamma, cucinare insieme, concordare gli orari dei voli o dei treni, sapere sempre dov’è l’altra, vedere gli interni della nuova casa, scegliere i mobili giusti. Ci consente di vederci, virtualmente in qualunque momento, in un video nel quale la sua faccia (e la nostra, per lei) compare a grandezza naturale, e pare ci voglia un attimo per farla uscire dallo schermo e farla atterrare qui, sul mio divano.

I social network non hanno affatto limitato la mia vita di relazione, anzi l’hanno enormemente ingigantita (con mia grande gioia, perchè io sono un animale sociale). Seguo la vita e il lavoro di persone che vivono a grande distanza da me, parenti o amici lontani dei quali non saprei nulla, senza la rete. L’empatia è aumentata – se possibile – e così l’attenzione alle problematiche civili, sociali, ambientali, economiche. Posso intavolare lunghe discussioni con amici, ma anche mettermi in contatto con persone in altri tempi inavvicinabili, e questo ha migliorato la mia cronica timidezza rispetto alla autorità, e il mio senso di giustizia e democrazia. Ecco, per me Internet è una cosa che avvicina le persone. Impagabile.

Mi impegno a fondo per migliorare il pezzetto di mondo intorno a me. Prima di Internet, non avrei saputo nemmeno con precisione quali erano i problemi. Ho scoperto di essere brava a raccogliere persone intorno a me, ho scoperto che le mie opinioni e il mio modo (quasi) sempre ironico e scanzonato di intendere la vita, compresi i giorni bui, piaceva a molti. Mi sono costruita, come si dice, una buona reputazione in rete, quasi senza volerlo. Faccio parte di molti gruppi ed associazioni con i quali lavoro ogni giorno, dal vivo e in rete, per costruire cose senza chiedere permesso a nessuno, senza fare anticamere, senza cappello in mano.

(ok, è possibile che molte di queste cose siano accadute semplicemente perchè sono fatta vecchia, ma chi può dirlo?) 🙂

Ho imparato a mia volta a riconoscere l’autorevolezza delle opinioni espresse, ed è con quelle che formo le mie.

Ho potuto raccontare al mondo la mia vita. Ho potuto mettere nero su bianco emozioni e sofferenze lancinanti, ed è stato molto terapeutico. Sono guarita perchè da questo blog ho potuto dire al mondo che stavo male, e scoprire che scriverlo mi faceva stare ogni giorno meglio. E no, non è come il vecchio diario col lucchetto: sapere che ci sono occhi che ti leggono, quasi sempre benevoli, talvolta duri – ma serve anche quello, per non sprofondare nella autocommiserazione – è MOLTO efficace e terapeutico.

Perciò, grazie Internet.
Non potrei più vivere senza di te.

 

Ieri, 29 febbraio

temporale

“Eravamo felici e non lo sapevamo”

Questa frase, se non erro attribuita alla madre di Renzo Arbore alla morte del padre, mi suona nella testa da qualche tempo. Eravamo felici e non lo sapevamo.

La depressione è una bestia orribile, contro la quale i poveri di spirito come la sottoscritta sono doppiamente impotenti. Non vale arrabbiarsi, non vale ignorare, non vale spronare, non vale piangere, non vale niente. La sensazione imperante è “lo stai facendo male”, che ti fa sentire ancora più una merda, di fronte all’evidente sofferenza di una persona cara. La preoccupazione aumenta, e si continua a sbagliare, in un circolo vizioso del quale non vedi la fine. Il dolore fisico si intreccia inestricabilmente con quello dello spirito, che trova nel (superabile e momentaneo) stato di malattia mille appigli per coltivare sè stesso. Le luci si abbassano, il riscaldamento si spegne, tutto ruota intorno all’umore del giorno. E ci sono i giorni discreti, quelli bui e quelli tremendi, quando tiri una carretta di un quintale su per una salita ripida e senti che stai per cedere. Talvolta cedi davvero.

Il lavoro. Non basta mai quello che si è fatto, si ricomincia sempre daccapo. Per quanto non si voglia abbassare la testa, alla fine sei costretta a chiedere, quasi mendicare. Sperare ed aspettare. Sapendo di aver fatto sempre lo stesso errore, cioè aver avuto fiducia nelle persone, non essersi mossa per tempo, con la costante sensazione di essere in ritardo, fuori posto, fuori contesto, tollerata, forse detestata. Il tarlo della insicurezza mina le certezze piano piano, come il pappice e la noce, e fa malissimo.

Il più bel progetto a cui abbia mai lavorato non sta solo perdendo pezzi, non si sta solo sgretolando velocemente. Ci stanno proprio passando sopra col bulldozer. Sono curiosa di sapere cosa scriverò il prossimo 29 febbraio,quando l’anno magico sarà passato da poco. Temo di saperlo: sarà stato un anno di merda, comunque diversissimo da come ce lo eravamo immaginato. I sogni muoiono sempre all’alba, e rosicano insieme ai tarli precedenti. Non ne vale la pena. Non ne vale MAI la pena.

Solo per la cronaca: sono passata in ufficio, a tenermi con le unghie e coi denti e con le poche forze che ancora ho, quello per cui ho lottato per anni. A controllare che la mia scrivania sia ancora lì, che non mi abbiano rubato le penne, a fare gratis il lavoro che ho sempre fatto. Mi serve per non affondare definitivamente. Ci sto poco, mi sento fuori posto, anche se registro con sorpresa che pochi sanno che non ho più un contratto, tutti mi credono al mio posto come sempre. Contratto prenotazioni di sale per videoconferenze, studio ordini del giorno, preparo istruttorie, modifico tardivamente indicatori di risultato sbagliati.

A pranzo, rigatoni al forno avanzati dal giorno prima. Cotolette preparate dal giorno prima e faticosamente fritte al momento. Asparagi (che non assaggio). Fragole fuori stagione, ma l’inverno è stato molto mite. La solita amarezza nell’aria, la solita tristezza, la solita ansia repressa nel constatare le scarse quantità di cibo messe nel piatto di chi mi sta di fronte, e manco finite. Una zeppolina (del giorno prima, ovviamente. Era domenica). Manco più i dolci mangia con un minimo di voglia. La sera piango a dirotto a casa mia, da sola, al solo scopo di spurgare l’ingorgo e provare a far uscire un raggio di sole. Talvolta funziona.

Io rivorrei soltanto la mia vita di sei mesi fa.
Quando eravamo felici e non lo sapevamo.

Il problema è che io sogno

Potenza

Il mio problema è che io sogno. E non mi rassegno alla realtà, per questo sono diventata così incazzosa e polemica sui social network.

Io sogno una cittadinanza coesa e solidale, in questo momento così tetro per la mia amata città natale. Una cittadinanza che la smetta di recriminare, di borbottare, di addossare colpe (che sicuramente ci sono, ma a che serve farne l’elenco?), di chiedere ad altri di assumersi responsabilità.

Sogno una cittadinanza che invece se la assuma in proprio, la responsabilità della qualità della vita cittadina.

Questo prezioso articolo di Sara Lorusso su Il Quotidiano fa chiarezza sulle cifre connesse al dissesto di bilancio. Sono circa 30 milioni di euro, che in mancanza di altro verranno recuperati con tagli dolorosissimi (prepensionamenti e licenziamenti, per dirne uno). I risparmi ovviamente riguardano i servizi, anche quelli essenziali.

E’ tanto assurdo pensare che alcuni di questi servizi vengano svolti in maniera sussidiaria dai cittadini?

E’ tanto assurdo pensare che nelle scuole il servizio mensa venga garantito dalle famiglie, cucinando a turno un pasto caldo per la classe dei propri figli? E’ tanto assurdo pensare che si avvi una raccolta differenziata condominiale finalmente seria, non quella semi pagliacciata che facciamo adesso, e che venga riciclato il riciclabile? E’ tanto assurdo pensare a forme massicce di car sharing che sopperiscano al taglio dei trasporti pubblici? E’ tanto assurdo pensare a famiglie / condomini / gruppi che si prendano cura del verde pubblico, una aiuola per ciascuno? o che si prendano cura del marciapiede davanti casa? trovare una, due , dieci aziende edili che rattoppino le strade, gratis, chiedendo in cambio il nome dell’azienda scritto all’inizio di quei 20 metri rattoppati gratis? E’ tanto assurdo pensare a supermercati che collaborino con associazioni di volontariato per mettere  a disposizione prodotti in scadenza, non più scaffalabili, così da risparmiare su assegni di solidarietà e varie?

L’Amministrazione Comunale avrebbe, dal canto suo, il compito di abilitare i cittadini a fare. Lo dico meglio: il Comune non dovrebbe rompere con richieste di permessi, multe, “questo non si può fare”, vigili urbani che fermano lavori. Siamo in guerra, dunque servono normative straordinarie, del tutto temporanee.

Insomma sogno una cittadinanza intera coesa e solidale – lo ripeto – che per il tempo necessario si faccia carico dei servizi (tutti? una parte? un pezzettino?) che il Comune non può più garantire, o non a quei costi, almeno. Chissà, magari ci prendiamo gusto, e continuiamo ad essere coesi e solidali anche dopo, quando il debito sarà ripianato. Non facciamo altro che parlare di resilienza, di resistenza di una cittadinanza alle botte della vita, alla sua capacità di uscire dal tunnel più bella di prima.

Ecco, cari concittadini: questo è il nostro tunnel. Come dopo il terremoto. E adesso abbiamo possibilità di contatto e comunicazione che nel 1981 non avevamo.

Io continuo a sognare, e intanto, nel mio piccolissimo, provo a fare.

[La foto è di Michele Franzese]

Parigi, Charlie e io

je suis charlie

Gli attentatori, ancora prima di essere islamici, erano delinquenti. Non nel senso di quello che parcheggia sulle strisce o non paga le tasse o corrompe il funzionario pubblico, ma delinquenti nel senso di brutali assassini. Ovvero una categoria di cittadini che almeno finora mi pare abbastanza minoritaria, nel corpo di una città e di un Paese.

Gli attentatori, ancora prima di essere islamici, erano francesi. Cioè nati e cresciuti in Francia, cittadini francesi come tutti gli altri, con gli stessi diritti (fra cui uno spettacolare welfare, migliore perfino di quello italiano, che già è a alti livelli) e gli stessi doveri. E quindi è ridicola la campagna della “chiusura delle frontiere” che un Salvini tutto ringalluzzito va berciando da una settimana. Per fermare alle frontiere gli attentatori di Parigi, caro Salvini, dovevi fermare i nonni, negli anni ’70, quando tu forse non eri ancora nato.

E allora. Cosa trasforma cittadini francesi in brutali assassini?

Forse – forse: interpretazione parziale e tutta emotiva, me ne rendo conto – una qualche forma di discriminazione, sottile ed impalpabile, che comunque gli immigrati ancora patiscono nei Paesi che li ospitano. Magari sono stati umiliati da bambini per il loro accento, o per la loro provenienza. Magari hanno incontrato compagni di scuola, insegnanti, condomini che non hanno apprezzato la loro diversità, nè hanno saputo perseguire fino in fondo quella chimera inafferrabile che prende il nome di integrazione. Sembravano integrati, ma non lo erano. Forse non erano nemmeno troppo intelligenti, non così tanto da voler ricavare il meglio, da quello che un paese europeo – il LORO Paese – poteva offrire loro: scuola, diritti civili, cure sanitarie, libertà di pensiero, possibilità di fare una vita migliore di quei nonni degli anni ’70. Forse erano abbastanza stupidi da poter essere indottrinati come marionette. E la religione – il fanatismo religioso – ha dato loro solo una scusa, una motivazione accecante per vendicarsi, una volta per tutte, di quegli sfottò, di quelle incomprensioni, di quella integrazione storta e mai riuscita.

Che si fa, a questo punto? Se avessi ragione, c’è una sola cosa da fare. Si migliora l’accoglienza, si migliorano le pratiche di integrazione, si fa tesoro delle esperienze di quegli immigrati di seconda generazione o terza generazione che sono diventati insegnanti, poliziotti, sindacalisti, Sindaci. Perfettamente inseriti nella vita di un Paese, indistinguibili dai cittadini da sette generazioni. Migliorare le pratiche di integrazione NON è impedire ai bambini italiani di fare il presepe a scuola. E’ farlo, e spiegare ai bambini musulmani induisti e buddisti cosa è cosa significa. E poi festeggiare – nella stessa scuola – le ricorrenze sacre dei musulmani, degli induisti  e dei buddisti, spiegando ai bambini cattolici cosa sono e cosa significano. E invitando tutti a festeggiare tutti insieme. nel nome di una multiculturalità alla quale ormai è impossibile sfuggire, è antistorico, come sarebbe stato antistorico tentare di impedire ai meridionali di andare a lavorare nelle fabbriche di Torino negli anni ’50.

Altrimenti mi tocca tremare per la mia sorte, ogni giorno che parcheggio l’auto e scambio due parole con i miei amici “Mario” e Mohammed, uno marocchino e l’altro tunisino, che lottano per loro per i loro figli e per una vita un po’ migliore.

E infine: a me le vignette di Charlie Hebdo fanno schifo. Le trovo volgari, eccessive e stupide, e non mi fanno ridere. Se abitassi in Francia, non lo avrei mai comprato, quel giornale. Ma appunto, la mia libertà di cittadina europea civile e con 2.500 anni di storia sulle spalle è proprio questa: sono LIBERA di non comprare un giornale che non mi piace, e lascio LIBERO chiunque voglia acquistarlo di farlo. Così come lascerei libero il mio amico omosessuale di sposarsi, la mia amica incinta di abortire, mio nonno di morire come più ritiene opportuno.

Tutto il resto, è dittatura.

[La vignetta è di Angela Impagliazzo, pubblicata su Repubblica ed. Napoli]

5 cose che ho capito il 17 Ottobre 2014 alle 17:50

camminata

  1. Gli effetti di questa vittoria sono soprattutto immateriali, e credo che della loro effettiva portata ci renderemo conto fra alcuni anni. Uniremo i puntini, come ci dice di fare Steve Jobs, e ci renderemo conto che tutto stava insieme, che quello che accadrà fra 10 o 15 anni è iniziato quel giorno, con quella meravigliosa vittoria. Per esempio il recupero della dignità, dell’orgoglio, della identità di cittadini. La consapevolezza del potere immenso delle persone, quando si mettono insieme superando differenze e contrasti. La consapevolezza del potere immenso che viene dal basso, e opera senza aspettare la legge o il decreto o il cenno del potere formale. Senza sedersi davanti ad una porta chiusa con il cappello in mano.
  2.  In realtà anche se se mi guardo indietro adesso, vedo puntini che si possono unire. Vedo un progetto che si chiamava Visioni Urbane, che oltre a creare un primo embrione di una comunità di persone con lo stesso obiettivo, ha validato un metodo. Ha scardinato per sempre il modo di lavorare in una Pubblica Amministrazione, e il metodo è stato portato di peso dentro Matera 2019.
    E poi vedo Cecilia Salvia che si volta indietro durante un viaggio in macchina a Roma, nel 2006, e comincia a raccontarmi la sua idea di rapporto fra amministrazione pubblica e cultura, la sua idea di una regione più aperta e inclusiva, la sua idea di futuro. Non ho dimenticato una sillaba di quelle parole, e non ho dimenticato quel “non fatevi fregare” detto anche a me, quando le è stato chiaro che lei, quel futuro, non lo avrebbe visto. Mi piacerebbe poterle chiedere se è fiera di noi, e se siamo riusciti a non farci fregare nel modo che intendeva lei.
  3. Il mio contributo più forte alla fase finale della corsa è stata l’organizzazione della Camminata per Matera 2019. Una delle cose più straordinarie e commoventi a cui abbia mai lavorato. Perchè mi ha restituito intatto l’orgoglio per la mia lucanità, per il nostro modo ancora molto contadino di fare le cose: onestamente, lentamente, con sacrificio immane, senza il minimo clamore, “con i panni e le scarpe e le facce che avevamo” come dice Rocco Scotellaro. Per il nostro modo ancora molto contadino di ospitare un pellegrino: senza fargli domande, offrendogli subito da mangiare e da bere e un posto vicino al fuoco, uno stiavucco con pane e companatico per ripartire.
  4. Tutti hanno contribuito come hanno potuto, alla vittoria. Io ho fatto quello che sapevo fare meglio: metterci la mia faccia, e chiedere ai miei amici di fidarsi di me. Perchè ad un certo punto ho capito che serviva la collettività, quel pezzo di regione fuori da Matera che ero in grado di movimentare, e che alla fine conosco meglio. Sono stata fortunata: ho amici intelligenti, che mi hanno seguito. Beh, quasi tutti.
  5. Il lavoro – duro, durissimo, tre anni di ventre a terra con mezzo fegato sbrindellato dalle incomprensioni – paga. E paga quando c’è un obiettivo, ben definito, non troppo lontano nè troppo vicino, che riesca a coagulare l’intelligenza individuale e collettiva intorno ad un punto. Paga quando sai che quel mattoncino che stai mettendo, piccolo o grande che sia, lastrica una strada che va da qualche parte, e dove vada è chiaro a tutti. Una cosa di cui sentivo un disperato bisogno.
    Poi si poteva perdere, naturalmente.
    Però abbiamo vinto 🙂

Open Data for dummies

Riprendendo il punto 3 del post precedente, metto qui un po’ di appunti su termini di cui non s(apev)o il significato ma a furia di sbatterci la testa forse qualcosina l’ho capita (*)
Spero possa essere utile ai niubbi di open data come me.

Metriche: sono i parametri in base ai quali viene misurata l’attrattività del dato liberato. Qualcuno ha parlato di “dati sexy” per farci capire il concetto: cioè, se avete davanti una bella ragazza, non basta l’altezza per valutare il suo sex appeal, dovete vederla muoversi, parlare, camminare, misurare la proporzione dei fianchi e la taglia di reggiseno e soprattutto capire se è interessata a voi (ok, forse per gli adolescenti è l’esempio sbagliato – vale ancora il “basta che respiri”, a 17 anni? –  ma ci siamo capiti, su.) Mi pare di aver intuito che le metriche sono appunto oggetto di dibattito all’interno del mondo SOD: finora per valutare il grado di apertura di una pubblica amministrazione si è usata come metrica  la numerosità dei dataset rilasciati. Che va bene, ma se poi sono tutti dati poco utili? Capiamo invece se sono sexy! La partecipazione pubblica, la divulgazione e la qualità del riuso dei dati condivisi, insomma cosa ce ne facciamo – e SE ce ne possiamo fare qualcosa – dopo che sono stati rilasciati, sono ad esempio metriche basilari per valutare il sex appeal di un dataset. Quantità, ma anche qualità.

GitHub: E’ un posto on line dove gli smanettoni possono smanettare a piacimento, lasciando traccia del loro lavoro, così che qualcun altro possa metterci mano. Ha quindi molto a che fare con la filosofia dell’open source. Io invento un prodotto adatto al mondo multimediale, lo traduco in codici di programmazione, uno viene dopo di me e mette mano a quelle righe di codice modificando (in genere per migliorarlo, ma attendo smentite) il prodotto finale. Tutto questo può accadere se le righe di codice sono in un posto a cui posso liberamente accedere. Questo posto è un gitHub.

[questa voce, come la successiva, devo approfondirla, però, e cioè devo metterci sopra le mani, se no non capisco bene. Non mi aggredite, o voi SODdini]

Repository: E’ un armadio dove vengono conservati i codici di un lavoro (vedi sopra). Un armadio senza chiave, ovviamente. Ci sono tanti armadi, in ognuno c’è un progetto, con le sue righe di codice. Tutti gli armadi SOD stanno dentro al gitHub SOD, che è quindi uno stanzone pieno di armadi. Armadi che servono a non fare confusione fra progetti diversi, un po’ come facciamo con le cartelline dove conserviamo le bollette e le ricevute: gas, acqua, luce, affitto, condominio (sì, sono una maniacalmente ordinata)

[vedi corsivo in fondo alla voce gitHub]

(SEGUE …)

(*) Licenza cc-0, carne di porco, etc. Già sapete.

10 cose che ho capito a SOD14

Ho partecipato al mio primo raduno nazionale di Spaghetti Open Data (SOD, per gli addetti ai lavori), ovvero del gruppo di italiani che in qualche modo sono “interessati al rilascio di dati pubblici in formato aperto, in modo da renderne facile l’accesso e il riuso (open data)” . Adesso non mi metto a spiegare cosa sono gli open data e come e perché rappresentano il futuro, in rete (a partire dal sito Spaghetti Open Data) trovate tutto quello che vi serve.

Non ero poi così in ritardo: quello dello scorso fine settimana a Bologna è stato solo il secondo raduno annuale, e la stessa lista di gente che “fa cose coi dati” è nata solo nel 2010.

Cosa riporto a casa, da SOD14?

  1. Innanzitutto un tip operativo: Il programma del raduno si costruisce da solo, con il contributo e le proposte di tutti, come si conviene a raduni autogestiti, nella più pura logica barcamp. E questo è bellissimo. C’è un corollario pratico, però: se vorrete partecipare a SOD 2015, ricordatevi di prenotare albergo e viaggio solo all’ultimo momento, soprattutto se non potete stare lì per tutti i tre giorni di raduno, perché le cose che vi interessano potrebbero saltare al giorno prima o al giorno dopo, e ci perdete (è successo a me) biglietti di treno o prenotazioni di albergo non rimborsabili o modificabili;
  2. Essere smanettoni nerd aiuterebbe molto a capire di cosa si sta parlando, però non è del tutto indispensabile. E questo è di grande conforto per chi come me ha conoscenze molto limitate degli ambienti e dei linguaggi di programmazione: in realtà c’è (molto) posto anche per chi vuole ad es. imparare o condividere gli approcci più utili per diffondere il verbo, o per chi vuole sperimentare modalità alternative di farlo, o per chi vuole solo raccontare la storia (si chiama storytelling, ed è esattamente quello che sto facendo io scrivendo questo post). Cionondimeno, nella sindrome Derossi di cui sono preda da sempre, ho rosicato un po’, a non capire proprio tutto tutto quello che veniva detto;
  3. Parole nuove (vedi punto 2): hackaton, gitHub, repository. Sugli ultimi due, devo approfondire (e non è detto capisca). Sul primo più o meno ci siamo: un hackaton è una cosa nella quale a) stanno tutti seduti ad un tavolo con pc aperti davanti; b) si discute di come e perchè un programma – rigorosissimamente open source, e che faccia rigorosissimamente riferimento a dati aperti che una PA fornirà o sta già fornendo – che girerà su un sito creato apposta, potrebbe risolvere un problema dei cittadini; c) ci si divide i compiti ed ognuno si fa un pezzo di lavoro, per cui alla fine della giornata il sito è più o meno in piedi ed il programma più o meno funziona. Dettagli e rifiniture sono lasciati al buon cuore dei presenti, quando saranno tornati a casa propria. Sembra una cosa noiosissima, e forse lo è, ma con mia grande sorpresa l’interazione fra i presenti ha compreso anche un bel po’ di fuffa e perfino momenti di pura goliardia adolescenziale.
  4. Open Data non è un oggetto: è un modo di lavorare, è una filosofia di vita. Partendo da questa filosofia si possono fare cose diverse, tutte accomunate da un unico meraviglioso obiettivo: poter cambiare in meglio un po’ del mondo nel quale viviamo, quello che ci sta intorno, quello fatto delle piccole cose di ogni giorno.
  5. Ma c’è di più: a colorare un mondo di azzurro open (opendata, opensource) tutti possiamo contribuire. E possiamo contribuire “senza chiedere permesso”, senza aspettare nessuno, solo dedicando a queste cose un po’ del nostro tempo. Anche nel caso in cui i dati devono essere liberati da Pubbliche Amministrazioni (la maggior parte), possiamo fare la nostra parte portando il verbo a conoscenza di un ignaro Sindaco, o di un consigliere provinciale, o di un impiegato della Comunità Montana (certo, gli approcci per convincere la PA più vicina a noi a liberare dati possono essere diversissimi, alcuni funzionano altri no, e quelli che funzionano a Trento non funzioneranno a Palermo). Ma ci sono anche molti altri casi nei quali l’interazione con la PA non è indispensabile: la mappatura in formato aperto del proprio quartiere può essere fatta da subito, senza aspettare niente e nessuno, e così pure il monitoraggio di prodotti realizzati con i fondi pubblici, cioè nostri. Se avrai lavorato bene, sarà la PA ad interessarsi al tuo lavoro, sarà lei a bussare alla tua porta, per chiederti come hai fatto, e se può aiutarti (potrai a quel punto toglierti lo sfizio di dire “no, grazie, non mi serve niente” e il cerchio sarà chiuso)
  6. gli Opendata, quindi, capovolgono il quadro e pongono al centro dell’azione pubblica il singolo, l’individuo, il cittadino, il banomo, da solo o in gruppo, non più l’istituzione. E questo perché – Fabrizio Barca docet – l’istituzione deve rassegnarsi al fatto che nessuno può conoscere un luogo, o la soluzione di un problema più di chi quel luogo abita e quel problema vive sulla sua pelle, ovvero i cittadini.
  7. Non conta il numero dei dataset rilasciati, conta quanto utili sono, cioè quanto contribuiscono a risolvere un problema, a migliorare la qualità della nostra vita, a saperne di più su cose che ci riguardano da vicino (è seguita a questa illuminante verità una noiosa diatriba su come vengono fatte le classifiche delle città più brave ad aprire dati, ma me la sono allegramente dimenticata)
  8. Per uscire dalla caverna degli iniziati, l’obiettivo cui tendere nei prossimi anni deve essere non solo la diffusione della filosofia (vedi punto 3.) ma la semplificazione dell’output. I dati rilasciati devono cioè essere resi in forme facili, comprensibili, in applicazioni usabili da chiunque, in modo da poter essere fruiti e in modo che la filosofia sottesa possa diventare patrimonio comune. In un circolo virtuoso perfetto, il cittadino che riesce a leggere il dato aperto su un sito o su un’app e a servirsene per sé e per altri, ne richiederà ancora, e se questo accade su grandi numeri, la PA non potrà far altro che accontentarlo.
  9. Soprattutto al Sud, dobbiamo stare tutti vicini vicini, in un mutuo aiuto fra diverse aree, diverse competenze, diversi approcci, perché la filosofia open è – se non l’unica – certo una delle vie maestre per la salvezza economica e sociale del nostro territorio. Perché open

    significa ANCHE trasparente, non corruttibile, vero, portatore di lavoro pulito. La “curva Sud” di SOD14 (Matera, Palermo, Potenza, Napoli, Bari) ha probabilmente rappresentato le vera novità di questo raduno.

  10. E infine, la botta di autocompiacimento: stare in mezzo a gente di tutta Italia, con la quale si condivide una – appunto – filosofia, tutti disponibili, tutti gentili, un sacco di sorrisi, un sacco di sfottò, in un clima informale e distesissimo; far parte di un gruppo di pionieri che studiano una roba che forse sarà patrimonio comune fra alcuni anni; tutto questo è stato bellissimo, e non volevo più venire via.

Ah: il post è pubblicato con licenza CC0, fatene carne di porco.

4 cose che non so fare coi tacchi alti

tacchi 1

Scrivo questo post su suggerimento della mia amica Vania, cui piacciono (sadica) i miei racconti di sofferenza provocati dall'aver voluto indossare a tutti i costi tacchi 12.

Premessa 1: lo so, ci sono miliardi di donne che indossano tacchi alti anche per andare a fare la spesa al mercatino rionale, e non fanno tutte queste storie.
Ecco, quelle donne non sono io.
Io abitualmente giro in scarpe sportive non rasoterra ma sicuramente comode e la mia pianta larga ne è strafelice.

Premessa 2: ai tacchi 12 si abbina, imprescindibilmente, una gonna, perchè tacchi alti coi pantaloni sarebbe voler pretendere veramente troppo dal fisico boteriano – anche la Venere di Willendorf è un buon punto di riferimento – che mi ritrovo. Perchè lo preciso? Perchè se i tacchi, come vedremo fra poco, sono molto scomodi, tacchi alti e gonna stretta sono la quintessenza della sofferenza. Altro che Santa Teresa d'Avila e le sue visioni. Io, come ho già raccontato su queste pagine in altra occasione, ho una tolleranza al combinato disposto tacchi – gonna che si aggira sulle due ore (in piedi) o quattro ore (seduta), dopodichè il dolore alla pianta si fa così intenso che comincio a vedere la beata Vergine del Rosario che viene verso di me in un tripudio di nuvolette rosa e puttini angelicati, recando nelle sante mani oltre ai grani della corona anche un paio di moppine imbottite.

E poi, ci sono cose che IO non posso fare, coi tacchi alti.

1. correre. Normalmente, io ho un passo molto svelto. Non mi piace perdere tempo negli spostamenti e camminando ad andatura sostenuta si rinforzano i glutei e si bruciano calorie. Coi tacchi alti, mi obbligo ad una andatura riflessiva, al duplice scopo di non fratturarmi una caviglia e di mettere a frutto la sofferenza. Perchè, diciamocelo: coi tacchi alti si può ancheggiare con molto maggior profitto. E quindi, coi tacchi si va piano, un passo dietro l'altro, sforzandosi di tenere la schiena dritta e dondolando il dondolabile. Sembra incredibile, ma funziona.

2. sorridere. Ecco, un bel sorriso sarebbe il complemento ideale, per una andatura così accattivante. Ma io non ce la faccio. Ho prima la fronte corrugata per la concentrazione (attenta a dove metti i piedi – sampietrini, tombini senza e con la grata, marciapiedi sconnessi sono sempre in agguato) e dopo, passate le canoniche due ore, ho una smorfia di sofferenza stampata in faccia, tipo colica renale, che non riesco a dissimulare in alcun modo. Per fortuna i passanti sembrano apprezzare di più il dondolio dal lato posteriore, e quindi del sorriso non ce ne facciamo granchè.

3. mantenere la sensibilità negli arti inferiori. Non so a voi, ma a me, se esagero con il tempo di permanenza di scarpe con tacchi ai piedi, tutta la gamba, partendo dai suddetti piedi e risalendo fino al ginocchio perde sensibilità, diventa un pezzo di legno morto apparentemente refrattario a qualunque comando. Apparentemente, perchè poi riesco a camminare e guidare, e credo che occasionalmente potrei provare a prendere a calci qualcuno, ma sempre come se avessi due salame da sugo al posto degli arti inferiori.

4. ragionare lucidamente. Lentamente, anche se in modo meno evidente, anche l'afflusso di sangue al cervello comincia a diventare difficoltoso, come se le scarpe, invece che limitarsi a sollevare il calcagno da terra premendo sulla pianta (la causa del dolore è tutta lì), stringessero anche le vene e le arterie in una morsa fatale. A questo probabilmente contribuisce anche la famosa gonna stretta di cui sopra, che fascia fianchi e vita, e, se sono seduta, comprime lo stomaco sfavorendo la circolazione.  E quindi meglio stare zitta, perchè la scarsa lucidità da mancanza di ossigeno mi ha indotto talvolta a dire puttanate (più del solito, voglio dire), o a ridere come un'invasata senza apparente motivo, o a cominciare un discorso perdendo progressivamente per strada il filo logico. Se si pensa che normalmente i tacchi alti vengono messi in occasioni ufficiali, tipo matrimoni, o discorsi di insediamento di nuovi Direttori generali, o quando si deve fare la relazione della vita ad un convegno di portata mondiale, capirete bene che è meglio pensarci prima, e nascondersi in borsa un paio di pantofole, o decollété col tacco quadrato n. 5 da madre superiora, cui accedere velocemente quando tutti sono distratti.

Ed ora scusate, vado a mettermi le ciabatte.

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Senza titolo

Non so manco che titolo dare a questo post, perchè mi rendo conto che su quello che lamenterò nelle prossime righe tanta, tantissima gente ci campa, alcuni male, altri dignitosamente, altri schifosamente si arricchiscono. E vi dico subito che non sono in grado di dire chi rientra in ciascuna delle tre categorie, ma la distinzione di sicuro c'è.

Il sottotitolo però lo so. E potrebbe essere: “osservazioni banali sul turismo in una domenica di quasi estate a Roma”.

Musei Vaticani. Sono insieme ad una scolaresca di ragazzini americani delle superiori, ed i loro insegnanti. Non chiedetemi perchè, non è importante. Importante è che abbiamo una prenotazione per una visita – con guida – ai Musei Vaticani. Tempo prenotato: 4 ore. Mi sembra un tempo immenso, onestamente, ma disciplinatamente mi accodo al gruppo ed entriamo. Va bene, è una domenica di quasi estate, finalmente è bel tempo, tutto vero. Però l'atrio dei Musei somiglia molto da vicino alla idea che mi sono fatta del vestibolo dell'inferno il giorno del giudizio universale. Una bolgia di voci in tutte le lingue, una folla vociante e rumorosa che ondeggia, centinaia di cappellini magliette macchine fotografiche zainetti. E sulla folla, i bastoncini coi fazzoletti – rossi, tricolori, a scacchi, a strisce – che servono alle guide (mandriane di greggi spesso indisciplinate) a radunare le pecorelle per il passaggio nella salaa successiva. L'aria condizionata, se c'è, non è sufficiente. E complice il caldo, la gente puzza. Non so come dirlo più gentilmente: nell'atrio c'è odore di stalla e umanità compressa.

La nostra guida si chiama Valentina ed è molto brava. E' solo grazie a lei che le 4 ore passano in modo relativamente indolore. Adesso per fortuna si usano le radio cuffie che consentono a lei di parlare anche mentre cammina, voltando le spalle al gruppo, e tutti possono ascoltarla. E quindi ho modo di osservare, mentre ascolto e cammino. La gente passa. Non si ferma quasi mai a guardare, passa e basta. Una fiumana in piena che passa nelle sale dei Musei per lo più senza capirci un cazzo, senza sapere perchè è lì. Scusate, sono orribilmente razzista, ma sono sicura che il gruppo rumeno o polacco o brasiliano o americano o russo che in 3 minuti attraversa il corridoio delle carte geografiche non vede l'ora di uscire di là, e non sarebbe in grado di dire qual è la differenza fra quella sala e le stanze di Raffaello, poco oltre. Sono lì solo perchè nella loro gita-a-Roma-tutto-compreso alla riga 4 c'è scritto “Visita ai Musei Vaticani”. E facciamoci 'sta visita. E del resto fermarsi è pericoloso, perchè sei subito incalzato alle spalle dalla fiumana che incombe, e rischi di essere travolto.

Nella Cappella Sistina non si possono fare nè foto nè video. E ne sono felice. E quindi tutto quello che io vorrei è potermi fermare del tempo (minuti? ore?) a guardare. Solo guardare, a testa in su, bearmi della magnificenza di quei corpi, di quei gesti, farmene riempire gli occhi e commuovermi di fronte a ciò che non si può capire fino in fondo, tanto è più grande di noi. E vorrei farlo in assoluto silenzio. E invece no. Nonostante 4 scoglionatissimi custodi che devono ripetere ogni 3 secondi per otto ore al giorno in tre lingue “Silenzio, per favore” e “Niente foto, niente video” la folla è tanta che non ci si può fermare, concentrare, raccogliere. E il silenzio è irraggiungibile utopia: con tanta gente, basta che ognuno dica all'altro “Guarda lì” e il brusio diventa insopportabile.

Intendiamoci, non credo sia prerogativa italiana: al Louvre mi è parso uguale. L'ultimo posto dove ricordo di aver potuto godere di un'opera d'arte come dico io è stato a Milano, Chiesa di S. Maria delle Grazie, sala del Cenacolo di Leonardo da Vinci. Ingressi contingentati, tempi contingentati. Però numeri piccoli, che garantivano silenzio e concentrazione.

Mi chiedo tante cose. Mi chiedo se davvero non sia possibile restringere il numero di visitatori, invece di lasciare aperte le cataratte. Se davvero il danno economico sarebbe poi così grande, se davvero ne andrebbe della sopravvivenza stessa dei Musei vaticani (o del Louvre). Se la grandezza del luogo giustifica tutto questo, se davvero non si può pretendere più rispetto per luoghi così. Cosa penserebbero Raffaello e Michelangelo e Leonardo da Vinci se potessero vedere i giapponesi sgomitanti che passano uno sull'altro per fare una foto, peraltro identica a quella di migliaia di altri, e identica a quella che trovi ovunque su Internet e in miliardi di cataloghi stampati.

Piazza Navona. Se ti siedi ai tavolini di un bar sotto dei porticati in una delle principali strade di accesso a piazza Navona, questo è quello che vedi: la stessa fiumana di gente proveniente da ogni angolo del mondo che era dentro i Musei Vaticani, che arriva in piazza. Un flusso ininterrotto di gente che cammina. Sono vestiti tutti più o meno uguali, e tutti sono lì per un motivo: essere spennati alla grande. Cioè, quale sia il loro motivo interiore non lo so, spero sia “godere delle bellezze della città eterna” perchè è ovvio che piazza Navona in una domenica di sole è veramente bellissima. Però qualunque cosa si decida di fare, qualunque, costerò dei soldi, e molti, e darà luogo a delusioni. Se vorrai bere spremuta d'arancio e un caffè, pagherai 10 euro. Se vorrai comprare una veduta di Roma o uan caricatura, non so quanti soldi spenderai ma azzardo non meno di 50 euro. Se vorrai mangiare, ti rifileranno spaghetti al pomodoro o lasagna surgelata per un costo che a casa fai spaghetti al pomodoro – migliori – per 10 persone.

Lo so: è il business, bellezza, e tu non ci puoi fare assolutamente nulla. E so di aver detto cose banali e stupide. Però mi domando se davvero, in un mondo non dico perfetto ma appena un po' migliore di questo, le cose non possano andare diversamente.  Se le bellezze di un posto non possano essere fruite con meno ansia, meno fretta, imparando qualcosa che non sia dettata dalla buona volontà della guida. Se prima di portare le scolaresche, non sia meglio prepararle a quello che vedranno. So che molti luoghi nel mondo vorrebbero fortemente vedere arrivare quella fiumana, alzare i prezzi dei caffè, truffare i tedeschi con le caricature e i souvenir d'Italie ormai tutti cinesi, venduti a 3 euro, pagati 3 centesimi (forse).

Io, ad esempio per Matera, non me lo auguro. Non me lo augurerò mai.

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Sempre con me

Bruce Springsteen è sempre stato uno dei miei rocker preferiti. Lo era da quando a 17 anni uscì Born in the U.S.A. e rimasi folgorata prima da quel culo col cappellino appeso alla tasca e la bandiera america sullo sfondo, e poi da quelle tracce indimenticabili. A 17 anni il mondo è un posto meraviglioso pieno solo di belle sorprese, o almeno, per me era così, e mi pareva che Springsteen cantasse soprattutto questo: la strada che corre dritta davanti a noi, che puoi percorrere in tutta libertà, svoltando dove ti pare. O fermandoti, se vuoi. Una di quelle strade americane da film, una Route 66 calcinata dal sole da fare con una Harley Davidson dietro all'uomo della tua vita.

Nel corso degli anni Springsteen è stato sempre con me, prima in un walkman, poi in un lettore Mp3, mentre viaggiavo, studiavo, o correvo. Springsteen è perfetto per correre, ti pompa sangue nel cuore e aria nei polmoni anche quando ti pare di non averne proprio più e l'unica alternativa possibile sembra fermarsi.

Il 23 maggio scorso ero a Piazza Plebiscito insieme ad altre 20.000 persone, ad ascoltarlo per la prima volta dal vivo. Sono passati 30 anni da Born in the U.S.A., per me ma anche per lui. Sono passate canzoni, viaggi, corse, delusioni, paure, gioie e treni presi e persi.

Ed è successo l'imponderabile: mi sono innamorata.

Innamorata: non saprei come diversamente chiamare l'emozione violenta che mi ha procurato il mio primo concerto di Bruce Springsteen, che mi ha scosso come se avessi infilato le dita nella presa fin da quando è comparso sul palco alle 18:30, da solo, con la chitarra in mano, per un fuori programma per noi, quelli che stavano già lì ad aspettare da due ore. Fra lo stupore dei presenti, mi si sono riempiti gli occhi di lacrime. In effetti, ho pianto quasi tutto il tempo, e quando non piangevo saltavo e cantavo.

Una emozione violenta, che non mi passa. Che mi ha spinto a cercare febbrilmente file di canzoni, wikipedia, playlist, foto, notizie di giornali. Che mi spinge a cercare in continuazione la compagnia anche solo virtuale delle amiche che erano con me, e che hanno sentito – ne sono certa – la stessa violenta emozione mia. Possedute, tutte. Ipnotizzate.

Non so se per quella inconfondibile staordinaria voce arrochita dagli anni. Se per quella magnetica presenza scenica, l'empatia col pubblico, l'incontenibile energia, il magnetismo sessuale – diciamolo pure – di quelle maniche di camicia arrotolate sui bicipiti e dello spruzzo di capelli grigi. Se per quella musica, flat, brutale e priva di qualunque sofisticazione – come piace a me, perchè flat, brutale e priva di sofisticazioni sono io –  so non essere per i tecnici niente di straordinario (le canzoni, alla fine, si somigliano un po' tutte).

Forse allora per quei testi, dove ci sono quasi sempre le parole home, road e land, per me evocative in ogni caso, perchè io sono un una quercia di montagna, un pino loricato, voglio le mie radici ben salde al terreno, voglio un posto dove tornare, un nido, possibilmente sempre lo stesso, uan rete protettiva di antiche amicizie e relazioni. Testi che raccontano l'opposto di quello che immaginavo nei miei 17 ignoranti anni: niente avventura, ma invece molte delusioni e disillusioni, tanta amarezza, nostalgia e forse – forse – un lumino di speranza.  Emozioni che ci sono familiari, a noi sfigatissima generazione anni '80, troppo giovani per il '68 e ormai troppo vecchi per inventarci qualcosa di nuovo.

Una emozione violenta, ma non dolorosa, che vorrei non mi passasse mai.

Si vede che ne avevo bisogno.

Colonna sonora: Pay me my money down (la più flat di tutte)

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